CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 01 marzo 2019, n. 6145
Opposizione a cartella esattoriale – Sgravi contributivi goduti ingiustificatamente – Disconoscimento – Recupero
Rilevato che
A. s.a.s. ha proposto ricorso per cassazione, con due motivi, avverso la sentenza n. 130/2013 della Corte d’Appello di Potenza, di reiezione del gravame avverso la pronuncia del Tribunale della stessa città che aveva, a propria volta, accolto solo parzialmente, riducendo il dovuto da euro 111.687,94 ad euro 57.762,13, l’opposizione a cartella esattoriale emessa per il recupero di sgravi che l’I.N.P.S. riteneva fossero stati goduti ingiustificatamente dalla società; l’ente previdenziale, in proprio e quale mandatario di S.C.C.I. s.p.a., si è limitato a depositare procura speciale per il giudizio di legittimità, mentre A. ha illustrato le proprie difese con successiva memoria;
Equitalia Sud è rimasta intimata;
Considerato che
con il primo motivo la ricorrente lamenta che sarebbe mancata o risulterebbe soltanto apparente la motivazione rispetto alle censure sollevate con l’appello (richiamando in proposito l’art. 112 c.p.c.) o comunque si sarebbe determinato l’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) ed a tal fine riproduce i motivi di appello, facendo seguire ad essi gli stralci delle argomentazioni svolte dalla Corte territoriale nel respingere il gravame;
nell’ambito della predetta censura A. deduce tre questioni;
la prima questione riguarda il disconoscimento degli sgravi rispetto a due lavoratori;
secondo il motivo di appello dedotto da A. la cessazione del rapporto di lavoro con riferimento ad essi non avrebbe comportato un decremento della base occupazionale, e comunque tale cessazione sarebbe stata da ricondurre ad un passaggio ad altra azienda, da assimilare alle dimissioni, sicché la causa non era imputabile al datore di lavoro, così come non era imputabile e non era dunque computabile nel calcolo del mantenimento del livello occupazionale, la riduzione del personale riconnessa alla cessazione del rapporto di lavoro, per giustificato motivo obiettivo, rispetto ad altri nove lavoratori;
è indubbio che la motivazione della Corte territoriale, limitatasi a fare riferimento all’intervenuto licenziamento dei due lavoratori, se non può dirsi omessa, non fornisca risposta alcuna all’articolato motivo di appello nella parte in cui con esso si assume l’irrilevanza, per il godimento degli sgravi, delle perdite occupazionali dovute a giustificato motivo obiettivo o ad una fattispecie assimilabile alle dimissioni e debba dunque essere apprezzata come motivazione soltanto apparente;
tuttavia, anche rispetto al caso di motivazione apparente, in violazione dell’art. 132 c.p.c. deve ritenersi applicabile il principio, formulato rispetto al caso di omesso esame di un motivo di appello, per cui il corrispondente ricorso per cassazione non può essere accolto qualora la questione giuridica ad esso sottesa sia comunque da disattendere (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21257; Cass. 27 dicembre 2013, n. 28663; Cass. 1 febbraio 2010, n.2313; ma anche Cass., S.U., 2 febbraio 2017, n. 2731);
non vi è infatti ragione per cui un tale principio, sancito per l’omessa pronuncia e fondato sui principi di economia e ragionevole durata del processo, non debba trovare applicazione anche rispetto al caso, da questo punto di vista del tutto assimilabile, in cui la motivazione resa dal giudice dell’appello sia, rispetto ad un dato motivo, sostanzialmente apparente;
ciò posto, la questione ora in esame concerne l’applicazione dell’art. 3, co. 6, lett. c) della L. 448/1998, secondo cui condizione per il godimento degli sgravi di cui al precedente comma 5, è che «il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel corso del periodo agevolato»‘ in proposito si deve rilevare che la giurisprudenza di questa Corte si è consolidata nel senso che «la concessione degli sgravi contributivi ex art. 3, comma 6, della l. n. 448 del 1998, richiamato dall’art. 44, comma 1, della l. n. 448 del 2001, presuppone che il livello di occupazione raggiunto a seguito delle nuove assunzioni non subisca riduzioni nel periodo agevolato, sicché il venir meno di tale condizione determina l’integrale perdita del diritto al beneficio, anche nei casi in cui la situazione di contrazione del personale non possa essere ricondotta alla volontà datoriale, avendo la norma natura eccezionale, per cui, ove diversamente interpretata, si porrebbe in contrasto con i vincoli in materia di aiuti di Stato imposti dalla Commissione Europea», con principio espresso sia in casi di licenziamento per giustificato motivo obiettivo (Cass. 26 ottobre 2018, n. 27277), sia in caso di dimissioni (Cass. 26 ottobre 2017, n. 25474); pertanto, nonostante l’apparenza di motivazione, la questione di diritto non avrebbe potuto essere risolta nel senso preteso dalla ricorrente; non diversamente, la censura di motivazione apparente, per avere corso, deve consentire di apprezzare la decisività del motivo di appello sul quale non vi sarebbe stata pronuncia, in ossequio al generalissimo principio dell’interesse ad agire e ad impugnare, oltre che di sufficiente specificità del ricorso per cassazione;
deve quindi valutarsi da questo punto di vista l’assunto, sostenuto in appello sempre nell’ambito della questione dedicata al mantenimento dell’occupazione, secondo cui il livello dell’occupazione, pur dopo le assunzioni agevolate, non sarebbe diminuito;
in proposito, nel caso di specie, una volta affermata nei termini di cui sopra la rilevanza rispetto al calcolo del livello occupazionale dei licenziamenti di nove persone e delle dimissioni di altre due, l’allegazione in ordine al verificarsi di un incremento occupazionale nel triennio previsto dalla legge, nonostante tali cessazioni dei rapporti di lavoro, resta una mera affermazione, non corredata da spiegazioni che rendano intelligibile, già in base al ricorso per cassazione, che la mancanza di una risposta esplicita da parte della Corte territoriale abbia effettivamente inciso su un piano fattuale tale da smentire la conclusione finale in ordine all’insussistenza del requisito di cui all’art. 3, co. 6, lett. c) cit.; la prima questione di cui al primo motivo di ricorso va dunque disattesa; la seconda questione è relativa all’affermazione della Corte distrettuale secondo cui i documenti agli atti del Centro per l’Impiego di Potenza avrebbero confermato l’assenza, per i lavoratori T. e S., del possesso dei 24 mesi di disoccupazione, requisito richiesto, questo, dall’art. 8, co. 9, L. 407/1990, per gli sgravi da esso previsti;
la censura, sul punto, non è fondata, in quanto non può dirsi (art. 112 c.p.c.) che sia mancata pronuncia, avendo la Corte espressamente disatteso la questione sul requisito della disoccupazione, né che la motivazione sia soltanto apparente, avendo la Corte appunto affermato che i documenti agli atti del Centro per l’impiego «confermavano la mancanza del possesso dei 24 mesi di iscrizione»;
d’altra parte, limitandosi il motivo di ricorso per cassazione a riportare il motivo di appello, su cui si assume vi sarebbe stata motivazione solo apparente, esso finisce altresì per risultare anche in questo caso carente dei requisiti che impongono di far risultare, dalla censura di legittimità, gli elementi idonei a comprovarne la decisività;
il motivo di appello (e, quindi, quello di ricorso per cassazione) afferma infatti che gli unici documenti agli atti da cui desumere lo stato di disoccupazione sarebbero quelli prodotti dalla stessa A., ma non è trascritto il contenuto di essi, come sarebbe stato necessario al fine di far constare, già dal ricorso, la pregnanza di quanto addotto rispetto alla motivazione della Corte in ordine a quanto da essa desunto rispetto ai documenti agli atti del Centro per l’Impiego di Potenza;
in mancanza, la censura risulta priva dei necessari requisiti di specificità, ovverosia di quella precisa indicazione del contenuto dei documenti, con inserimento di essa nel percorso argomentativo del motivo, richiesta dall’art. 366 n. 4 e 6 c.p.c. (Cass. 5 aprile 2016, n. 6549; Cass. 28 febbraio 2017 n. 5185); la terza questione sollevata con il primo motivo riguarda invece la negazione dello stato di disoccupazione di 24 mesi, rispetto ad uno degli addetti (M. L.);
A., sul punto, con il motivo di appello ha fatto rilevare, da un primo punto di vista, che nella c.t.u. non erano stati specificati i parametri assunti per la determinazione dei limiti di reddito considerati (7.500 euro per il lavoro dipendente; 4.500 euro per il lavoro autonomo) al fine di affermare la perdita dello stato di disoccupazione da parte di tale addetto;
da altro punto di vista essa ha sottolineato come, nonostante il superamento dei limiti reddituali, dovesse considerarsi che la durata inferiore ad otto mesi del rapporto di lavoro autonomo cui aveva avuto accesso tale addetto comportava la sospensione dello stato di disoccupazione (art. 4 lett. d d.lgs. 181/2000) e quindi la necessità di considerare, nel calcolo dei 24 mesi rilevanti, anche i mesi di disoccupazione antecedenti rispetto al rapporto di lavoro autonomo, il che avrebbe consentito l’accesso agli sgravi;
la Corte d’Appello ha respinto il gravame anche su questo punto, affermando che vi era stato il «godimento di emolumenti superiori a quelli normativamente previsti» e che le argomentazioni contenute nell’atto di appello, in generale ma anche in riferimento alla posizione del Lavinia, non erano sufficienti a superare gli esiti della c.t.u., stante anche l’onere della ricorrente di dimostrare i presupposti di fatto per il godimento degli sgravi;
non può quindi dirsi che la motivazione sia stata omessa, basandosi essa, in ultima analisi, sulla perdita dello stato di disoccupazione per superamento dei limiti di reddito, essendo evidente che il riferimento del c.t.u. (cui la sentenza faceva rinvio) alle misure sopra indicate non poteva che riguardare i valori del «reddito minimo personale escluso da imposizione» richiamati dalla norma (art. 4 lett. a d. Igs. 181/2000) quale fondamento di tale effetto caducatorio e completandosi poi tale motivazione con l’affermazione della mancanza di prova dei diversi elementi fattuali (in questo caso, dimostrazione della durata della disoccupazione al netto del periodo di asserita sospensione) addotti dalla ricorrente;
dunque la sentenza non risulta disconoscere la tesi in diritto di A., da ritenersi effettivamente corretta, secondo la quale, appunto, in caso di rapporti di lavoro che superino i limiti reddituali ma non durino oltre otto mesi, lo stato di disoccupazione è solo sospeso e dunque, rispetto alla durata di almeno 24 mesi valgono sia i periodi successivi alla sospensione sia quelli anteriori; tuttavia la pronuncia, affermando che gli elementi fattuali a sostegno delle tesi della ricorrente sarebbero insufficienti all’adempimento dell’onere probatorio gravante sul datore di lavoro e quindi a comprovare la durata del periodo di disoccupazione, compie una valutazione, anche sulle risultanze istruttorie, che è di sostegno motivazionale alla pronuncia di rigetto e che dunque non consente di ritenere che il motivo di ricorso, radicato sulla base di un’asserita omissione di pronuncia, possa dirsi come tale fondato;
in definitiva tutti i profili rispetto ai quali, con il primo motivo, si è denunciata l’omissione di pronuncia o la mera apparenza della motivazione, sono da disattendere;
dovendosi infine considerare che l’affermazione, propria ancora del primo motivo, secondo cui ogni questione posta in appello e asseritamente non decisa o decisa senza motivazione costituirebbe un fatto decisivo per il giudizio, la cui omessa considerazione integrerebbe il vizio di motivazione ex art. 360 n. 5 c.p.c., costituisce un mero artificio dialettico finalizzato a porre, sotto diversa veste, sempre la medesima questione in ordine all’omissione di decisione o mancanza assoluta di motivazione, la cui proposizione (e decisione nei termini di cui si è detto) è del tutto assorbente;
con il secondo motivo A. censura il fatto che la Corte d’Appello abbia pronunciato l’inammissibilità dell’eccezione di decadenza sollevata ai sensi dell’art. 25 d. Igs. 44/1999, sul presupposto che la medesima restasse assorbita dal fatto che comunque la cartella fosse stata parzialmente annullata; anche questo motivo è infondato;
indubbiamente, l’accertamento della solo parziale illegittimità della pretesa esercitata con la cartella esattoriale, se comporta l’accertamento della parziale infondatezza del credito portato in cartella, non può comportare, come sarebbe nel caso di decadenza ai sensi dell’art. 25 d. Igs. 46/1999, l’impossibilità di dare corso alla riscossione nelle forme speciali c.d. esattoriali, perché un tale effetto non può aversi per la porzione di credito iscritto a ruolo di cui si accerta la fondatezza;
tuttavia l’eccezione è infondata in diritto, in quanto questa Corte ha già ripetutamente ritenuto che «in tema di decadenza dal potere di iscrizione a ruolo dei crediti contributivi ai sensi dell’art. 25 del d.lgs. n. 46 del 1999, la previsione di cui all’art. 38, comma 12, del d.l. n. 78 del 2010, conv. in l. n. 122 del 2010 – stabilendo che le disposizioni contenute nel citato art. 25 non si applicano, limitatamente al periodo compreso tra l’1 gennaio 2010 e il 31 dicembre 2012, ai contributi non versati e agli accertamenti notificati successivamente alla data del 1 gennaio 2004 dall’ente creditore – si pone in chiave di raccordo temporale con le precedenti proroghe cosicché, utilizzando il meccanismo della sospensione di efficacia per un triennio dell’applicazione della regola della decadenza, consente il recupero coattivo di crediti non compresi nelle proroghe operative sino alla data suddetta» (Cass. 12 marzo 2018, n. 5963; poi anche Cass. 25 settembre 2018, n. 22663);
pertanto, rispetto ai crediti contributivi ancora in contenzioso tra le parti ed afferenti al periodo giugno 2001-gennaio 2006, seppure iscritti a ruolo nell’anno 2007, ma sulla base di accertamento che risale al 2006, non si determina la decadenza di cui all’art. 25 d. Igs. 46/1999; anche il secondo motivo di ricorso va dunque rigettato;
nulla va disposto sulle spese, in quanto Equitalia Sud è rimasta intimata e stante l’assenza di una effettiva attività defensionale ad opera di I.N.P.S. e della società di cartolarizzazione da esso rappresentata;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 -bis, dello stesso articolo 13.
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