CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 02 settembre 2020, n. 18252

Pagamento di differenze retributive – Importi indicati nelle buste paga non quietanzate dalla lavoratrice – Mancata corrispondenza con gli importi effettivamente erogati e riportati nei prospetti contabili della società – Erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito – Ricorso inammissibile

Rilevato che

Il Tribunale di Bari accoglieva la domanda proposta da A.T.R. nei confronti della C. s.r.l. volta a conseguirne la condanna al pagamento di differenze retributive, mensilità aggiuntive, tfr, indennità di mancato preavviso, e condannava la società al pagamento della somma di euro 120.759,98. Adita dalla società, detta pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale, che con sentenza resa pubblica il 12/10/2016 condannava l’appellante al pagamento, in favore della R., dell’importo di euro 112.724,23.

La Corte di merito perveniva a tali conclusioni sul rilievo che il quadro degli esiti probatori non aveva suffragato la tesi accreditata da parte appellante che postulava una dicotomia fra il rapporto intercorso tra la lavoratrice e la ditta individuale C. (protrattosi dal giorno 8 giugno 1992 al 31 dicembre 1997), e quello instaurato successivamente con la C. s.r.l. Nessun dato documentale confortava l’assunto del licenziamento intimato dalla ditta individuale in data 31/12/2007, laddove le dichiarazioni testimoniali raccolte e la acquisita visura camerale deponevano per il carattere continuativo della attività lavorativa svolta dalla R., inizialmente alle dipendenze della ditta C. e, successivamente (dal 23/1/1998), alle dipendenze della C. s.r.l. per effetto della cessione d’azienda, secondo i principi di regolazione della vicenda traslativa sancita dall’art. 2112 c.c.

In punto di quantum debeatur, il giudice del gravame osservava che era da escludere la corrispondenza degli importi indicati nelle buste paga non quietanzate dalla lavoratrice, rispetto a quelli (inferiori) effettivamente erogati e riportati nei prospetti versati agli atti e predisposti dai contabili della società. Rimarcava al riguardo che la società si era limitata a formulare un generico quanto inefficace disconoscimento di tali prospetti, senza articolare alcuna specifica contestazione in ordine al loro contenuto, sotto altro versante acclarando l’effettiva erogazione da parte datoriale, degli importi indicati dalle buste paga regolarmente sottoscritte per quietanza dalla lavoratrice.

Avverso tale decisione la s.r.l. C. interpone ricorso per cassazione affidato a due motivi.

Resiste con controricorso la parte intimata.

Considerato che

1. Con il primo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. nonché dell’art. 2697 c.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Si critica la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno accertato la continuità del contratto di lavoro instaurato alle dipendenze della ditta individuale C., con quello intercorso con C. s.r.l..

Si ribadisce, invece, che detti rapporti erano rimasti ben distinti, essendosi interrotto quello instaurato con la ditta C., mediante atto di licenziamento e pagamento del t.f.r., come del resto fatto palese dalle prove testimoniali assunte ed ingiustamente trascurate dalla Corte di merito.

Avuto riguardo alla determinazione del quantum debeatur, ci si duole che la Corte distrettuale abbia desunto dalla documentazione prodotta dalla ricorrente e dalle dichiarazioni testimoniali raccolte l’erogazione delle retribuzioni corrisposte alla lavoratrice, in misura “sistematicamente inferiore rispetto agli importi indicati in busta paga”.

Si osserva poi, quanto alla produzione documentale ex adverso fornita ed attinente ai conteggi scritti a mano con riferimento alle effettive retribuzioni erogate, che la stessa era stata oggetto di disconoscimento sia con riferimento alla provenienza che al contenuto del documento, e tale disconoscimento, ritualmente formulato in prime cure, era stato reiterato anche in grado di appello secondo specifiche modalità redazionali e senza introduzione di alcun nuovo terna difensivo.

Contrariamente a quanto argomentato dai giudici del gravame, la tesi accreditata dalla ricorrente e recepita dalla impugnata sentenza in ordine alla continuità del rapporto alle dipendenze dei soggetti indicati, non aveva tratto conforto dalle prove testimoniali raccolte.

2. Il motivo è inammissibile per plurime concorrenti ragioni.

Si impone innanzitutto l’evidenza del difetto di specificità della censura che non reca puntuale riproduzione, neanche nelle parti salienti, del tenore degli atti ivi richiamati.

Premesso che i requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, in base ai consolidati dicta di questa Corte il ricorrente è tenuto a specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di specificità che governa il ricorso per cassazione di cui quello di autosufficienza è corollario (vedi ex plurimis, Cass. 13/11/2018 n. 29093).

Nella specie, la società ha omesso di riportare in ricorso, in ottemperanza al ricordato insegnamento, il tenore degli atti istruttori sui quali la censura si fonda, onde, sotto tale profilo la censura non si sottrae ad un giudizio di inammissibilità.

3. Peraltro, non può sottacersi che, con la presente critica, la ricorrente intende pervenire ad un rinnovato, non consentito apprezzamento del compendio istruttorio acquisito.

Una questione quale quella prospettata in questa sede, di violazione o di falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può, infatti, porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (vedi Cass. 27/12/2016 n.27000); ipotesi queste non riscontrabili nella fattispecie scrutinata.

Non può poi, tralasciarsi di considerare che secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di valutazione delle risultanze probatorie in base al principio del libero convincimento del giudice, la violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. è apprezzabile, in sede di ricorso per cassazione, nei limiti del vizio di motivazione di cui all’art.360 c.p.c., comma 1, n. 5, oltre ad emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, non consentito in sede di legittimità (vedi Cass. 20/6/2006 n. 14267, cui adde, Cass. 30/11/2016 n.24434, nonché Cass. 27/7/2017 n. 18665). L’art.116 c.p.c., comma 1, consacra poi il principio del libero convincimento del giudice, al cui prudente apprezzamento – salvo alcune specifiche ipotesi di prova legale – è pertanto rimessa la valutazione globale delle risultanze processuali, essendo egli peraltro tenuto ad indicare gli elementi sui quali si fonda il suo convincimento nonché l’iter seguito per addivenire alle raggiunte conclusioni, ben potendo al riguardo disattendere taluni elementi ritenuti incompatibili con la decisione adottata (ex plurimis vedi Cass. 15/1/14 n.687).

Nello specifico, il ricorso sollecita, nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede, posto che con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (ex aliis, vedi Cass. 7/12/2017 n.29404).

Con riferimento al vizio di motivazione (art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), va dunque rimarcato che lo stesso può rilevare solo nei limiti in cui l’apprezzamento delle prove – liberamente valutabili dal giudice di merito, costituendo giudizio di fatto – si sia tradotto in una pronuncia che sia sorretta da motivazione non rispondente al minimo costituzionale (cfr. Cass. S.U. 7/4/2014 n.8053).

Orbene, nella fattispecie qui considerata deve rilevarsi che la Corte di appello, con accertamento che investe pienamente la quaestio facti ha dato conto delle fonti del proprio convincimento ed ha argomentato in modo logicamente congruo, come fatto cenno nello storico di lite, in ordine all’accertamento degli emolumenti effettivamente corrisposti alla lavoratrice, desumendo dagli acquisiti dati testimoniali e documentali i dati di riferimento.

4. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell’art.112 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.

Si critica la sentenza impugnata per aver statuito che l’onere della prova relativo alle somme effettivamente erogate sarebbe spettato alla società, e per aver criticato in termini di inammissibilità per novità, i temi difensivi concernenti i prospetti contabili privi di sottoscrizione del legale rappresentante della società, mai sollevati in primo grado.

5. Anche questo motivo è inammissibile.

Al di là della non appropriata tecnica redazionale adottata – che non risponde ai principi sovente enunciati da questa Corte, secondo cui è inammissibile il ricorso per cassazione in cui sia denunciata puramente e semplicemente la “violazione o falsa applicazione di norme di diritto” ai sensi dell’art. 112 c.p.c., senza alcun riferimento alle conseguenze che l’errore sulla legge processuale comporta, vale a dire alla nullità della sentenza e/o del procedimento, essendosi il ricorrente limitato ad argomentare solo sulla violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato (vedi ex aliis Cass. 28/9/2015 n. 19124, Cass. S.U. 24/7/2013 n. 17931) – deve ritenersi che la censura non si confronti con la ratio della decisione la quale colloca negli esiti del quadro istruttorio definito in prime cure, la dimostrazione relativa alla circostanza che “i prospetti contabili allegati fossero proprio quelli compilati e utilizzati dal datore ai fini del computo della retribuzione”.

E’ dunque un fuor d’opera il richiamo al principio dell’onere della prova che si configura se il giudice del merito abbia applicato la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo (cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costitutivi ed eccezioni), non anche quando abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, così come verificatosi nella specie (Cass. 5/9/2006, n. 19064; Cass. 17/6/2013, n.15107; Cass. 21/2/2018, n.4241). L’eventualità che la valutazione delle acquisizioni istruttorie sia stata incongrua e che il giudice abbia errato nel ritenere che la parte onerata avesse assolto l’onus probandi integrerebbe un erroneo apprezzamento sull’esito della prova, sindacabile in sede di legittimità esclusivamente negli angusti limiti del novellato art.360 n. 5 c.p.c., nello specifico neanche prospettato.

In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono il regime della soccombenza, liquidate come in dispositivo.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 200,00 per esborsi ed euro 7.000,00 per compensi professionali, oltre spese al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.