CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 febbraio 2020, n. 2407

Tributi – Indagini bancarie – Operazioni annotate sui conti correnti dei soci di società a ristretta base societaria – Presunzione di riferibilità alla società

Rilevato che

1. In controversia relativa ad impugnazione di un avviso di accertamento di un maggior reddito d’impresa per l’anno d’imposta 2009 emesso dall’amministrazione finanziaria nei confronti della C.M. s.r.l. a seguito di verifica delle movimentazioni bancarie effettuate sui conti correnti dei soci della predetta società, con la sentenza in epigrafe indicata la CTR accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sfavorevole sentenza di primo grado sostenendo che era stato rispettato il principio del contraddittorio, che la presenza di una ristretta base societaria consentiva la diretta riferibilità alla società delle operazioni annotate sui conti correnti dei soci senza che ciò costituisse violazione del divieto di doppia presunzione.

2. Avverso tale statuizione la società contribuente ricorre per cassazione sulla base di tre motivi, cui replica l’intimata con controricorso.

3. Sulla proposta avanzata dal relatore ai sensi del novellato art. 380 bis cod. proc. civ., risulta regolarmente costituito il contraddittorio all’esito del quale la ricorrente ha depositato memorie.

Considerato che

1. Con il primo motivo di ricorso la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ., lamentando che la CTR aveva omesso di rilevare e dichiarare l’inammissibilità dell’appello agenziale per difetto di specificità dei motivi di impugnazione.

2. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

2.1. Invero, «Il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione – che trova la propria ragion d’essere nella necessità di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo senza dover procedere all’esame dei fascicoli di ufficio o di parte – vale anche in relazione ai motivi di appello rispetto ai quali si denuncino errori da parte del giudice di merito; ne consegue che, ove il ricorrente denunci la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 cod. proc. civ. conseguente alla mancata declaratoria di nullità dell’atto di appello per genericità dei motivi, deve riportare nel ricorso, nel loro impianto specifico, i predetti motivi formulati dalla controparte» (Cass., Sez. 3, Sentenza n. 86 del 10/01/2012, Rv. 621100). Questa Corte in fattispecie analoga a quella in esame ha precisato che «Anche laddove vengano denunciati con il ricorso per cassazione “errores in procedendo” [come avvenuto nel caso in esame, nonostante l’erroneo riferimento nella rubrica del motivo alla violazione di legge, ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ], in relazione ai quali la Corte è anche giudice del fatto, potendo accedere direttamente all’esame degli atti processuali del fascicolo di merito, si prospetta preliminare ad ogni altra questione quella concernente l’ammissibilità del motivo in relazione ai termini in cui è stato esposto, con la conseguenza che, solo quando sia stata accertata la sussistenza di tale ammissibilità diventa possibile valutare la fondatezza del motivo medesimo e, dunque, esclusivamente nell’ambito di quest’ultima valutazione, la Corte di cassazione può e deve procedere direttamente all’esame ed all’interpretazione degli atti processuali. (In applicazione di questo principio, la S.C. ha affermato che il ricorrente, ove censuri la statuizione della sentenza impugnata nella parte in cui ha escluso l’inammissibilità, per difetto di specificità, di un motivo di appello, ha l’onere di trascrivere il contenuto del mezzo di impugnazione nella misura necessaria ad evidenziarne la genericità, e non può limitarsi a rinviare all’atto medesimo)» (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 12664 del 20/07/2012, Rv. 623401), nella specie neppure allegato al ricorso in ossequio al noto Protocollo del 17/12/2015. Si è al riguardo altresì precisato che «Il ricorso per cassazione in cui l’esposizione dei fatti processuali che precedono i motivi del ricorso ed il ricorso medesimo si limitino a richiamare – anche attraverso la loro allegazione o mediante la mera riproduzione – tutti indistintamente gli atti dei precedenti gradi del processo, ivi compresi quelli formatisi nel suo corso come i verbali d’udienza, è inammissibile per violazione del principio di autosufficienza, non rispondendo al requisito della specificità che deve caratterizzare ogni impugnazione ed ogni suo motivo» (Cass., Sez. L, Sentenza n. 22792 del 07/10/2013, Rv. 628531).

3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ. e 32, comma 1, n. 2, d.P.R. n. 600 del 1973 per avere la CTR, anche in violazione del divieto di doppia presunzione, imputato alla società i versamenti non giustificati effettuati sui conti correnti dei soci della stessa, in assenza di prova della fittizietà dell’intestazione di tali conti o della riconducibilità alla società verificata dei movimenti bancari non giustificati effettuati sui predetti conti.

4. Il motivo è infondato e va rigettato.

4.1. Come si legge nella sentenza di questa Corte n. 21424 del 2017, citata dalla stessa parte ricorrente, «Per consolidata giurisprudenza (in particolare, cfr. Cass. 22 aprile 2016, n. 8112), in sede di rettifica e di accertamento d’ufficio delle imposte sui redditi l’utilizzazione dei dati risultanti dalle copie dei conti correnti bancari acquisiti dagli istituti di credito non può ritenersi limitata, in caso di società di capitali, ai conti formalmente intestati all’ente, ma riguarda anche quelli intestati ai soci, agli amministratori o ai procuratori generali, allorché risulti provata dall’amministrazione finanziaria, anche tramite presunzioni, la natura fittizia dell’intestazione o, comunque, la sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati, senza necessità di provare altresì che tutte le movimentazioni di tali rapporti rispecchino operazioni aziendali, atteso che, ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. n. 600/73 e dell’omologa norma in tema di Iva, incombe sulla contribuente dimostrarne l’estraneità alla propria attività di impresa». Quindi, diversamente da quanto precisato dalla ricorrente nella memoria ex art. 380-bis, secondo comma, ultima parte, c.p.c., l’amministrazione finanziaria non deve necessariamente provare la «natura fittizia dell’intestazione dei conti correnti» ai soci, essendo sufficiente la presunzione di «sostanziale riferibilità all’ente dei conti medesimi o di alcuni loro singoli dati».

4.2. Si è quindi precisato che «In tema di accertamenti fondati sulle risultanze delle indagini sui conti correnti bancari, ai sensi degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. n. 633 del 1972, l’onere del contribuente di giustificare la provenienza e la destinazione degli importi movimentati sui conti correnti intestati a soggetti per i quali è fondatamente ipotizzabile che abbiano messo il loro conto a sua disposizione non viola il principio “praesumptum de praesumpto non admittitur” (o “divieto di doppie presunzioni” o divieto di presunzioni di secondo grado o a catena) sia perché tale principio è, in realtà, inesistente, non essendo riconducibile agli artt. 2729 e 2697 c.c. né a qualsiasi altra norma dell’ordinamento, sia perché, anche qualora lo si volesse considerare esistente, esso atterrebbe esclusivamente alla correlazione di una presunzione semplice con un’altra presunzione semplice, ma non con una presunzione legale, sicché non ricorrerebbe nel caso di specie» (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 15003 del 16/06/2017, Rv. 644693).

4.3. Nel caso in esame non è neppure ravvisabile la dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ., in quanto il giudice d’appello non ha invertito l’onere della prova, ma ha valutato gli elementi probatori sottopostigli ed affermato che la presenza di una ristretta base societaria consentiva la diretta riferibilità alla società delle operazioni annotate sui conti correnti dei soci (sentenza, pag. 3). In tal caso, infatti, per intuibili ragioni, è particolarmente elevata la probabilità che le movimentazioni sui conti bancari dei soci debbano – in difetto di specifiche ed analitiche dimostrazioni di segno contrario, che la società contribuente, che ne era onerata, non ha fornito – ascriversi allo stesso ente sottoposto a verifica.

5. Con il terzo motivo di ricorso la ricorrente deduce la mancata effettuazione del contraddittorio endoprocedimentale, in violazione e falsa applicazione dell’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000.

5.1. Il motivo è infondato.

5.2. E’ noto che «In tema di accertamento, il termine dilatorio di cui all’art. 12, comma 7, della I. n. 212 del 2000 non opera nell’ipotesi di accertamenti cd. a tavolino, salvo che riguardino tributi “armonizzati” come l’IVA, ipotesi nella quale, tuttavia, il contribuente che faccia valere il mancato rispetto di detto termine è in ogni caso onerato di indicare, in concreto, le questioni che avrebbe potuto dedurre in sede di contraddittorio preventivo» (Cass., Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 27420 del 29/10/2018, Rv. 651436 – 01).

5.3. Orbene, nel caso di specie è pacifico che si verte in ipotesi di accertamento a tavolino ed è altrettanto pacifico che la società contribuente ha del tutto omesso di assolvere all’onere di enunciare in concreto le ragioni che avrebbe potuto far valere, qualora il contraddittorio fosse stato tempestivamente attivato, e che dette ragioni (valutate con riferimento al momento del mancato contraddittorio) non fossero puramente pretestuose e tali da configurare, in relazione al canone generale di correttezza e buona fede ed al principio di lealtà processuale, sviamento dello strumento difensivo rispetto alla finalità di corretta tutela dell’interesse sostanziale, per le quali è stato predisposto (Cass., Sez. U., n. 24823 del 2015).

6. Conclusivamente il ricorso va rigettato e la società ricorrente condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 7.800,00 per compensi, oltre al rimborso delle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.