CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 03 gennaio 2019, n. 43
Tributi – Accertamento – Partecipazione societaria – Quote – Contenzioso tributario
Rilevato
che la contribuente svolge attività di costruzione e vendita immobili ed era raggiunta da avvisi di accertamento per gli anni 2004 e 2005 con ripresa a tassazione di Ires, Irap ed Iva;
che, trattandosi di società di capitali a ristretta base azionaria, conseguente avviso di accertamento era notificato anche al socio C.G., in ragione della sua quota di partecipazione societaria pari al 33%;
che nei provvedimenti venivano mossi i seguenti rilievi: omessa contabilizzazione di ricavi sotto forma di finanziamenti infruttiferi ai soci; omessa fatturazione di acconti; cessione di immobili simili fra loro a prezzi sostanzialmente diversi; valori di compravendita esigui con comportamento antieconomico della ditta;
che i contribuenti reagivano con distinti ricorsi, riuniti ed accolti dalla CTP, ove annullava gli atti impositivi, ritenendoli sforniti di valenza probatoria, frutto di presunzioni semplici non corroborate da altri elementi;
che interponeva appello l’Ufficio, trovando integrale accoglimento delle proprie ragioni;
che ricorrono per cassazione i contribuenti, società e socio, con unico ricorso, affidandosi a quattro articolati motivi;
che resiste con puntuale controricorso l’Avvocatura dello Stato.
Considerato
che con il primo motivo si lamenta violazione e/o falsa applicazione della I. n. 223/2006 (art. 35, commi secondo e terzo), della I. n. 244/2007 (art. 1, comma 265) della I. n. 88/2009 (art. 24) dell’art. 15 del d.l. 41/1995, degli articoli 2697, 2727, 2729 cod. civ., dell’art. 116 cod. proc. civ., nonché contaddittorietà e illogicità della motivazione in parametro all’art. 360, comma primo, n. 3, 4 e 5 cod. proc. civ.;
che, nella sostanza, sotto il primo profilo (p.10) si contesta la valenza probatoria indiziaria, lamentando il richiamo alla I. n. 244/2007, ove ha inciso sul d.l. n. 223/2006 e ridotto a presunzione semplice il valore di mercato per gli atti antecedenti al 4 luglio 2006, comunque criterio non più indicativo e ritrattato dal legislatore con la I. n. 88/2009 (legge Comunitaria 2008) (p. 10);
che, con un secondo profilo del motivo (p.13), si lamenta il richiamo all’art. 15 d.l. n. 41/1995, abrogato dal citato d.l. n. 223/2006 a sua volta abrogato (con affermata riviviscenza della norma precedente) dalla citata I. n. 88/2009: detto art. 15 impedisce di rettificare a fini Iva i corrispettivi delle cessioni di immobili se superiori ai valori catastali;
che con il terzo profilo (p.17), si contesta il vizio logico della doppia presunzione, lamentando che la C.T.R. abbia desunto un occultamento di ricavi fondandosi sulle differenze tra i prezzi di vendita e i (presunti) valori di mercato, illegittimamente desunti sul criterio del valore medio, abrogato;
che ancora lamenta che in contratti preliminari offerti come prova da parte contribuente siano stati per un verso ritenuti inattendibili perché senza data certa, dall’altro siano stati tenuti in considerazione per le caparre confirmatorie e le poste iscritte a bilancio;
che, infine (p.20) si lamenta azzardato presumere fittizi i prestiti dei soci, sia perché non è dimostrato fossero nullatenenti, sia perché il prestito (€.254.685) non si avvicina ai maggiori ricavi accertati (€.755.638), sia perché per il 2005 non vi è riscontro sul prestito soci, il cui accertamento non può neppure fondarsi su tale elemento;
che, invero, la lettura della gravata sentenza conduce a conclusioni opposte a quelle prospettate da parte ricorrente;
che la sentenza costituisce un unicum, in cui esposizione in fatto e motivi della decisione debbono essere tenuti insieme al fine di cogliere la ratio decidendi, le norme poste a fondamento e la coerenza della motivazione;
che, in questo senso, a pag. 14, dal penultimo capoverso, chiarisce che non sono stati applicati criteri fissati in norme abrogate o, comunque, non in vigore all’epoca dei fatti, bensì i riferimenti all’affidabilità della contabilità aziendale nel suo andamento, rilevando nella parte motiva una serie di incongruità, fra cui: l’incompatibilità fra redditi dichiarati dai soci e prestiti infruttiferi resi alla società, di cui poi si perde traccia nella contabilità; la produzione di solo quattro contratti preliminari, esaminati tanto nella loro data (non certa), quanto al momento di prenotazione della vendita, alla consistenza dell’acconto in rapporto al prezzo (p.8-p.15, terzo capoverso); il carattere antieconomico dell’investimento infruttifero dei soci; la reiterata conduzione in perdita per vendite al metro quadro sensibilmente inferiori a listino prezzo della CCIAA di Cagliari, nelle 15 cessioni riportate (cfr. pag. 12 e 13, nonché pag. 15, penultimo capoverso); la ritardata fatturazione di acconti;
che secondo la giurisprudenza di questa Corte l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare, ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/1973 e dell’ art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633/1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente, utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo sul contribuente l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni. Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purché preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata;
che la pronuncia in esame si è adeguata al superiore orientamento, in quanto ha ritenuto che la regolarità formale della contabilità non precluda la possibilità di ricorrere all’accertamento induttivo anche utilizzando un unico elemento indiziario, quale quello della percentuale di ricarico determinata dall’Ufficio; ((Cass. V, n. 26036 del 30/12/2015); (Cass. V 25217 del 11/10//2018); Cass. V n. 27552 del 30/10/2018);
che egualmente, in materia di IVA, si è statuito che «l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 e dell’art. 54, commi 2 e 3, del d.P.R. n. 633 del 1972, sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni>> (Cass. Ordinanza n. 26036 del 30/12/2015); (Cass. V, n. 25217 del 11/10//2018);
che nel caso concreto, la gravata sentenza dà atto come parte contribuente, pur evocata sul punto, non abbia fornito prove che erano nella sua disponibilità, rimanendo su affermazioni generiche e ritenute inconferenti (cfr. p. 15, dall’ottavo capoverso); che pertanto il motivo è infondato e va disatteso; che con il secondo motivo si solleva omessa e/o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio in parametro all’art. 360, comma primo, n. 5 cod. proc. civ.;
che con il terzo motivo si lamenta nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 53 d.lgs. n. 546/1992, in parametro all’art. 360, comma primo, n. 4 cod. proc. civ.;
che i due motivi trattano della posizione del contribuente – socio C.G. e possono essere trattati congiuntamente per la loro evidente connessione, ove l’uno censura non esservi stata motivazione alcuna sulla posizione del socio, che viene accomunato alla sorte della società senza che ne sia individuabile la ragione, mentre l’altro si duole che l’assenza o l’assoluta incertezza di motivi specifici d’appello ne comporta l’inammissibilità rilevabile d’ufficio;
che entrambi i motivi sono infondati, poiché la posizione del socio C.G. è conseguente in toto a quella della società, in forza della presunzione di partecipazione agli utili nella misura eguale alla quota societaria per le società di capitali a ristretta base azionaria;
che, infatti, questa Corte, con orientamento ormai consolidato, ha affermato che in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società di capitali a ristretta base partecipativa, è legittima la presunzione di attribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati, rimanendo salva la facoltà per il ‘ contribuente di offrire la prova del fatto che i maggiori ricavi non siano stati fatti oggetto di distribuzione, ma siano stati invece accantonati dalla società, ovvero da essa reinvestiti, non essendo tuttavia a tal fine sufficiente la mera deduzione che l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili (cfr. Cass., sent. 27778/2017; 17928/2012; 5076/2011, Cass. ord. 30069/2018);
che è quindi sufficiente il mero richiamo, peraltro individuato dalla stessa parte ricorrente, operando la motivazione per relationem, altrettanto dovendo dirsi sui motivi d’appello, essendo attratto il socio alla posizione della società, con i limiti sopra indicati nei citati precedenti giurisprudenziali;
che i motivi sono quindi infondati e vanno disattesi;
che con il quarto motivo si lamenta violazione e/o falsa applicazione degli articoli 41 e 47 d.P.R. n. 917/1986 e degli articoli n. 2697, 2727 e 2729 cod. civ., nonché contraddittorietà, ed illogicità della motivazione in parametro all’art. 360, comma primo, n. 3 e 5 cod. proc. civ.;
che nella sostanza si contesta la correlazione presuntiva fra socio e società a ristretta base azionaria, con divisione di utili proporzionata alla quota di partecipazione e ottenendo una forma di tassazione impropria con un regime di trasparenza “di fatto” in assenza di opzione societaria ed in violazione dell’art. 47 prefato;
che tale correlazione si sostanzia in elementi di prova logica e circostanziale di tipo presuntivo ed è stata ribadita anche di recente da questa Corte, come da precedenti sopra indicati (da ultimo cfr. Cass. n. 18042/2018), cui i ricorrenti non hanno fornito argomenti per discostarsene;
che, pertanto, il motivo è infondato e va disatteso: che, in definitiva, il ricorso è infondato e dev’essere rigettato; che le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso, condanna i ricorrenti, in solido fra loro, alla rifusione delle spese a favore dell’Agenzia delle entrate che liquida in € diecimilaeduecento, oltre a spese prenotate a debito.
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