CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 04 novembre 2020, n. 24601
Licenziamento disciplinare – Abusivo utilizzo dell’autovettura aziendale durante le ferie – Sinistro stradale che lo aveva visto coinvolto – Comunicazione di licenziamento – Medesime espressioni nella contestazione per enunciare la causale dell’atto espulsivo – Intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo
Rilevato
Che la Corte territoriale di Milano, con sentenza pubblicata in data 5.10.2017, ha respinto il gravame interposto da G.C., nei confronti della F.T.A.S., avverso la pronunzia del Tribunale della stessa sede, resa il 3.10.2013, con la quale era stata rigettata la domanda del dipendente diretta ad ottenere la nullità del licenziamento disciplinare allo stesso intimato, e la condanna della parte datoriale alla reintegrazione dello stesso nel posto di lavoro ed alla corresponsione, in favore del medesimo, di una indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto, dalla data del licenziamento sino a quella della effettiva reintegrazione;
che la Corte di Appello, per quanto ancora in questa sede rileva, ha osservato che sussiste <<una pressoché totale e perfetta coerenza tra quanto addebitato al lavoratore>> (di <<avere abusivamente ottenuto e utilizzato l’autovettura BMW X6 tg. (…), rivolgendosi, il 26.7.2011, durante le ferie, alla sede italiana di San Donato Milanese della relativa casa automobilistica, avente il ruolo di partner della F.T.A.S., presso la quale egli l’aveva richiesta e ritirata a nome del Sovrintendente del Teatro (In veste di utilizzatore del bene in questione), servendosene poi per tutto il periodo delle ferie estive in Puglia sino al momento della restituzione, appositamente sollecitata dalla concedente/comodante, avvenuta il giorno 6.9.2011, oltre la scadenza del rapporto di godimento, fissata I 31.8.2011, e senza segnalare adeguatamente, tramite la consegna di un corretto modulo di constatazione amichevole, il sinistro stradale che lo aveva visto coinvolto, per sua colpa, in Gallipoli (Lecce), in data 8.8.2011>>) e <<quanto si legge nella comunicazione di licenziamento laddove la datrice di lavoro aveva addirittura impiegato le stesse espressioni della contestazione per enunciare la causale dell’atto espulsivo, deducendo che le giustificazioni rese dal dipendente non potevano essere accolte, dopo essersi la Fondazione liberamente avvalsa della facoltà di esperire autonomi approfondimenti assecondando una prerogativa facente capo alla tutela del proprio interesse, senza alcuna lesione dei diritti della controparte>>;
che per la cassazione della sentenza ricorre il C., articolando quattro motivi, cui la F.T.A.S. resiste con controricorso;
che sono state depositate memorie nell’interesse del lavoratore, ai sensi dell’art. 380-bis del codice di rito;
che il P.G. non ha formulato richieste che, con il ricorso, si deduce: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della I. n. 300 del 1970, per difformità tra i fatti contestati e quelli posti alla base del licenziamento, e si lamenta che i giudici di seconda istanza non avrebbero tenuto conto del fatto che non vi era piena corrispondenza, <<neppure in senso letterale>>, tra fatti addebitati e motivi del provvedimento; pertanto, a parere del ricorrente, la Corte di merito si sarebbe limitata ad un generico richiamo alle prerogative di indagini datoriali, senza alcuna valutazione circa la palese violazione di legge da parte della datrice di lavoro; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione dell’art. 7 della I. n. 300 del 1970 per lesione del diritto di difesa, poiché, secondo il lavoratore, la Fondazione non gli avrebbe consentito di controdedurre in merito alle circostanze nuove emerse a seguito di approfondimenti effettuati dalla stessa sull’accaduto; 3) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione o falsa applicazione degli artt. 2104, 2105 e 2119 per errata ed omessa applicazione dei relativi criteri applicativi, in particolare, della clausola generale di cui all’art. 2119 c.c. e per mancata valutazione <<delle coordinate dettate dalle fonti normative superiori…., nonché dalle disposizioni negoziali eventualmente esistenti>> e della <<proporzionalità della sanzione disciplinare con l’infrazione contestata>>; 4) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., <<l’omesso esame di un fatto storico (documento) la cui esistenza risulta dagli atti processuali, oggetto di discussione tra le parti, con carattere decisivo in punto richiesta autovettura BMW in data 26.7.2011 (omesso esame del verbale di audizione del sig. F. del 29.9.2011)>>, e si deduce che, <<se la Corte di merito avesse valutato il citato documento la cui portata è decisiva ed invalida le altre risultanze istruttorie che hanno determinato il giudizio, la sentenza di appello sarebbe stata certamente diversa, con il riconoscimento dell’infondatezza degli addebiti e della conseguente illegittimità del licenziamento>;
che il primo, il secondo ed il quarto motivo – che possono essere trattati congiuntamente per ragioni di connessione – non sono meritevoli di accoglimento; in particolare, per ciò che più specificamente attiene al primo ed al secondo motivo, si rileva che il C. non ha prodotto (e neppure indicato tra i documenti offerti in comunicazione nel ricorso per cassazione), né trascritto (se non, parzialmente, solo II verbale di audizione del F. in data 29.9.2011), i documenti sui quali le sue censure si fondano, tra i quali, la richiesta della autovettura BMW del 26.7.2011, la lettera di licenziamento del 20.9.2011 e quella con cui sono state elevate, nei suoi confronti, le contestazioni disciplinari che hanno condotto la datrice di lavoro ad irrogare la sanzione espulsiva; e ciò, in violazione del principio (v. combinato disposto degli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369 del codice di rito), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013).
Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di apprezzare pienamente la veridicità delle doglianze mosse al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, che si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che, inoltre, per quanto, più in particolare, riguarda il quarto motivo, si osserva che, come sottolineato dalle Sezioni Unite di questa Corte (con la sentenza n. 8053 del 2014), per effetto della riforma del 2012, per un verso, è denunciabile in Cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione); per l’altro verso, è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Orbene, poiché la sentenza oggetto del giudizio di legittimità è stata pubblicata, come riferito in narrativa, il 5.10.2017, nella fattispecie si applica, ratione temporis, il nuovo testo dell’art. 360, comma 1, n. 5), come sostituito dall’art. 54, comma 1, lettera b), del decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 2012, n. 134, a norma del quale la sentenza può essere impugnata con ricorso per cassazione per omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti. Ma, nel caso in esame, il motivo di ricorso che denuncia il vizio motivazionale relativamente alla dedotta omissione di un fatto storico (Cass. n. 21152/2014), con carattere di decisività, che è stato oggetto di discussione tra le parti e che la Corte di Appello avrebbe omesso di esaminare non attiene, alla stregua della pronunzia delle Sezioni Unite, ad un vizio della sentenza “così radicale da comportare” in linea con “quanto previsto dall’art. 132, n. 4, c.p.c., la nullità della sentenza per mancanza di motivazione”, poiché, peraltro, la stessa appare del tutto scevra da vizi logico-giuridici e fondata su una approfondita valutazione degli elementi delibatori posti a fondamento del decisum;
che il terzo motivo non è fondato; al riguardo, va, innanzitutto, osservato che la giusta causa di licenziamento è una nozione di legge che si viene ad inscrivere in un ambito di disposizioni caratterizzate dalla presenza di elementi “normativi” e di clausole generali (Generalklauseln) – correttezza (art. 1175 c.c.); obbligo di fedeltà, lealtà, buona fede (art. 1375 c.c.); giusta causa, appunto (art. 2119 c.c.) -, il cui contenuto, elastico ed indeterminato, richiede, nel momento giudiziale e sullo sfondo di quella che è stata definita la “spirale ermeneutica” (tra fatto e diritto), di essere integrato, colmato, sia sul piano della quaestio facti che della quaestio iuris, attraverso il contributo dell’interprete, mediante valutazioni e giudizi di valore desumibili dalla coscienza sociale o dal costume o dall’ordinamento giuridico o da regole proprie di determinate cerchie sociali o di particolari discipline o arti o professioni, alla cui stregua poter adeguatamente individuare e delibare altresì le circostanze più concludenti e più pertinenti rispetto a quelle regole, a quelle valutazioni, a quei giudizi di valore, e tali non solo da contribuire, mediante la loro sussunzione, alla prospettazione e configurabilità della tota res (realtà fattuale e regulae iuris), ma da consentire inoltre al giudice di pervenire, sulla scorta di detta complessa realtà, alla soluzione più conforme al diritto, oltre che più ragionevole e consona;
che tali specificazioni del parametro normativo hanno natura di norma giuridica, come in più occasioni sottolineato da questa Corte, e la disapplicazione delle stesse è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Pertanto, l’accertamento della ricorrenza, in concreto, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, è sindacabile nel giudizio di legittimità, a condizione che la contestazione non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga una specifica denuncia di incoerenza rispetto agli “standards” conformi ai valori dell’ordinamento esistenti nella realtà sociale (Cass. n. 25044/15; Cass. n. 8367/2014; Cass. n. 5095/11). E ciò, in quanto, il giudizio di legittimità deve estendersi pienamente, e non solo per i profili riguardanti la logicità e la completezza della motivazione, al modo in cui il giudice di merito abbia in concreto applicato una clausola generale, perché nel farlo compie, appunto, un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma, dando concretezza a quella parte mobile della stessa che il legislatore ha introdotto per consentire l’adeguamento ai mutamenti del contesto storicosociale (Cass., S.U., n. 2572/2012);
che, nel motivo di ricorso qui in esame, le censure formulate alla sentenza della Corte distrettuale non appaiono conferenti poiché non evidenziano in modo puntuale gli “standards” dai quali il Collegio di merito si sarebbe discostato, e non sottolineano gli errores in iudicando che nella sentenza, secondo il ricorrente, apparirebbero palesi;
che nella pronunzia impugnata, peraltro, ben si sottolinea che il comportamento tenuto dal C. sia idoneo ad integrare un’insanabile frattura del vincolo fiduciario, dovendosi avere riguardo anche alla disposto della norma di cui all’art. 2104 c.c. che, nel prescrivere (al secondo comma) che II prestatore di lavoro debba osservare le disposizioni per l’esecuzione e per la disciplina del lavoro impartite dall’imprenditore e dai collaboratori di questo, dai quali gerarchicamente dipende, obbliga lo stesso prestatore ad usare la diligenza richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale;
che, alla stregua dei costanti arresti giurisprudenziali di questa Suprema Corte, il licenziamento disciplinare è giustificato nei casi in cui i fatti attribuiti al prestatore d’opera rivestano il carattere di grave violazione degli obblighi del rapporto di lavoro, tale da ledere irrimediabilmente l’elemento fiduciario; il giudice di merito deve, pertanto, valutare gli aspetti concreti che attengono principalmente alla natura del rapporto di lavoro, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle mansioni specifiche del dipendente, al nocumento arrecato, alla portata soggettiva dei fatti, ai motivi ed all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (v., ex plurimis, Cass. n. 25608/2014); e la Corte di Appello, nella valutazione della proporzionalità tra illecito disciplinare e sanzione applicata, si è attenuta a tale insegnamento ed ha tratto le conseguenze logicogiuridiche in termini di proporzionalità tra fatto commesso e sanzione irrogata, anche in considerazione del fatto che la condotta del C., palesemente violativa del prescritto obbligo di fedeltà, è stata posta in essere con modalità tali da mettere in dubbio la futura correttezza dell’adempimento da parte del dipendente (cfr., tra le molte, Cass. n. 25044/2015);
che, per tutto quanto innanzi esposto, il ricorso va respinto;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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