CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 08 luglio 2021, n. 19473
Tributi – Accertamento – Atto firmato da funzionario delegato – Delega di firma – Legittimità
Rilevato che
La società R.V. & Figli s.r.l. in persona dell’amministratore Z.A. e R.A. in proprio e quale ex amministratore ed ex socio della predetta società, ricorrono per la cassazione della sentenza della CTR Lazio n. 9030/2016 depositata il 22 dicembre 2016.
La vicenda trae origine dall’avviso di accertamento ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 e art. 55, d.P.R. n. 633 del 1972, per l’anno d’imposta 2009.
La società opponeva l’atto impositivo che la CTP di Latina respingeva. La contribuente appellava la decisione che la CTR del Lazio-sezione di Latina confermava rigettando il gravame.
La contribuente pone a base della sua impugnazione tre motivi, depositando anche memoria
Ha resistito L’Agenzia delle Entrate con controricorso.
Considerato che
Con il primo i ricorrenti deducono l’illegittimità dell’avviso per essere invalida la delega al funzionario che aveva firmato l’atto impositivo, in violazione dell’ artt. 42, commi 10 e 3°, del d.P.R. n.600/73 e dell’art. 17, comma 1-bis, del d.Lgs n.165/2001.
Si eccepisce che nella delega non fosse indicato il nominativo del delegato, ma solo la qualifica che doveva avere e non anche le ragioni della delega e la sua durata temporale in violazione appunto delle suindicate disposizioni.
Questa Corte ha stabilizzato il suo orientamento (come gli stessi ricorrenti ricordano per dissentirne), nel senso che <<La delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42, del d.P.R. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa. (Sez. 5 – , 19/04/2019, n. 11013)
La soluzione va qui ribadita dal momento che, al fine della trasparenza dell’azione ammnistrativa ed a tutela del contribuente, ciò che rileva è che l’atto impositivo sia affidato ad un funzionario che rivesta la qualifica richiesta (l’appartenenza alla III area cioè alla ex carriere direttiva), a garanzia del livello di professionalità ritenuto adeguato all’incidenza dell’atto. L’indicazione nominativa, tra i funzionari necessariamente in possesso di quelle qualifiche normativamente fissate, riflette una disposizione organizzativa interna, anche mediante ordini di servizio, demandata alla responsabilità del titolare, che le valuta in base alle esigenze di funzionalità dell’Ufficio, alla data della emissione dell’atto, oltre che alla momentanea consistenza dell’organico. Il possesso della necessaria qualifica da parte del funzionario, al momento della sottoscrizione dell’atto, potrà essere verificata dal destinatario.
Appare poi improprio il riferimento all’art.17, comma 1bis, d.lgs n.165/2001, che non attiene alla delega della sola firma di singoli atti, ma prevede la eventuale delega di funzioni dirigenziali, dettate dalla necessità di affidare alcuni compiti, propri del titolare ed in sua sostituzione, riferiti ad interi settori in cui l’Ufficio è articolato. E dunque, nel caso di cui all’art. 42, del d.P.R. 600/73, l’atto firmato dal delegato risale al delegante, mentre nell’ipotesi di cui all’art.17, del d.lgs n.165/2001, il funzionario, sia pure entro i limiti di tempo e di contenuto della delega, esercita una funzione (almeno momentaneamente) sua propria.
Con il secondo motivo, i ricorrenti deducono violazione dell’art. 39, comma secondo, del d.P.R. n.600/73, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., eccependo il difetto dei presupposti necessari perché l’amministrazione potesse avvalersi dell’accertamento induttivo.
In particolare, deducono che tale tipologia di accertamento presuppone l’omessa tenuta, o la sottrazione all’ispezione, delle scritture contabili obbligatorie. Perché tale presupposto potesse ritenersi verificato sarebbe stato necessario che gli operatori avessero avanzato una “formale richiesta” in tal senso alla società, in persona del legale rappresentante al momento della verifica, Z.A., ed inoltre che tale “formale richiesta” fosse rimasta inevasa, per la mancata esibizione dei documenti.
Per contro, si eccepisce che una siffatta “formale richiesta” non era mai stata avanzata, per cui l’ufficio non aveva creato le condizioni per procedere legittimamente all’accertamento induttivo.
La richiesta – si deduce – era stata rivolta informalmente solo all’ex socio ed ex amministratore, R.A., che non aveva più motivo di disporre della documentazione, avendola consegnata al subentrante amministratore e cessionario della sue quote.
La censura, formulata in relazione all’art.360, comma primo, n.3, c.p.c., è da ritenersi inammissibile.
Essa, infatti, non è coerente con i termini della motivazione, in merito alla ritenuta legittimità del ricorso da parte dell’Ufficio alla procedura di accertamento induttivo.
Legittimità che la CTR collega ai tentativi posti in essere dagli operatori per disporre delle scritture contabili, alle vane ricerche effettuate per raggiungere il nuovo amministratore, al mancato reperimento della documentazione contabile in occasione degli accessi ed alla presenza del Rizzato nel corso della verifica. Circostanze, quelle enunciate in sentenza, che non sono state contestate nella loro storicità, posto che i ricorrenti incentrano la doglianza nel fatto che la CTR avesse mancato di esaminare il profilo secondo il quale l’accertamento induttivo, per risultare legittimo, presuppone l’omessa tenuta o la sottrazione alla verifica della documentazione contabile.
Presupposto – sostengono – che nella specie non poteva dirsi inveratosi in quanto gli operatori non avevano mai rivolto alla società, nel corso della verifica, alcuna “formale richiesta” di esibizione delle scritture, tal che nessuna mancata loro esibizione poteva dirsi verificatasi. Su tale profilo il Giudice regionale non si è espresso, per cui il motivo dedotto avrebbe dovuto censurare tale omessa pronuncia ed essere diversamente formulato come violazione dell’art. 360, comma primo, n.4, c.p.c. Ed avrebbe dovuto, inoltre, essere corredato, in base al principio di autosufficienza, della allegazione della documentazione atta a consentire al collegio di riscontrarvi l’effettiva assenza di “formali richieste” di esibizione delle scritture contabili. A tal fine, in particolare, sarebbe stata necessaria l’allegazione del processo verbale di constatazione trasmesso con il rito degli irreperibili. L’esame del quale avrebbe dovuto confermare, appunto, il mancato formale invito alla esibizione.
Parimenti inammissibile è il motivo riferito all’art. 360, primo comma, n.3, c.p.c., laddove i ricorrenti definiscono “asserita e non meglio dimostrata l’irreperibilità dell’amministratore Z.A.”. E dove ritengono che il R. fosse stato “superficialmente ed immotivatamente definito amministratore di fatto”, escludendo che la sua presenza, nel corso della verifica, potesse ritenersi idonea ad assicurare il contraddittorio con la società.
In tal modo, il motivo dedotto come violazione dell’art.39, secondo comma, del d.P.R. n.600 del 1973, mira, in sostanza, ad introdurre una nuova valutazione di fatto, non riproponibile in sede di legittimità.
Né, infine, le suindicate censure potrebbero essere interpretate come vizio motivazionale, in violazione dell’art.360, primo comma, n.5, per le stesse rilevate carenze di autosufficienza e per i limiti posti dalla sua riformulazione ex D.L. n.82, del 2012, che ne ha circoscritto la deduzione al solo omesso esame di fatti decisivi, cioè idonei, se esaminati, a sovvertire la pronuncia. Fatti di tal natura, in ispecie, non individuati.
Con il terzo motivo, i ricorrenti lamentano, ancora in violazione dell’art.39 comma 2 del d.P.R. n.600/73 e dell’art.109, del d.P.R. n.917 del 1986, che dai maggiori ricavi accertati in via presuntiva non erano stati dedotti i costi in misura percentualmente rapportata ai maggiori ricavi, ma sarebbero stati invece detratti i costi nella misura dichiarata.
La doglianza è, da un lato, generica in quanto non indica la misura del costo detratto e di quello maggiore che avrebbe dovuto esserlo, così da consentire al Collegio di valutarne lo scarto ed è, inoltre, infondata in quanto l’Ufficio ha indicato d’aver accertato costi, anch’essi induttivamente accertati, in misura pari all’80% dei maggiori ricavi. Assicurando cioè l’equazione maggiori ricavi accertati/maggiori costi detratti.
Circostanza documentalmente non contestata.
Pertanto, il ricorso va rigettato. Alla soccombenza segue la condanna alle spese oltre al rimborso di quelle prenotate a debito. Sussistono i presupposti per il versamento del c.d. doppio contributo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la società ricorrente e il R., in solido, al pagamento delle spese del giudizio che liquida in euro 7.800,00 e alla rifusione in favore dell’Agenzia delle Entrate di quelle prenotate a debito.
Si dà atto che sussistono i presupposti, di cui all’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n.115 del 2002, per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello fissato per il ricorso, a norma del comma 1- bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.