CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 gennaio 2019, n. 276
Svolgimento di attività lavorativa in locali insalubri – Risarcimento del anno biologico – Cessazione del rapporto di lavoro – Invalidità permanente
Rilevato che
La Corte d’Appello di Messina con sentenza resa pubblica il 14/4/2014 confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva accolto la domanda proposta da F.B. nei confronti della società P.I., volta a conseguire il risarcimento del anno biologico per aver prestato la propria attività lavorativa dal 1980 al 1994 in locali insalubri, perché di ridotte dimensioni e saturi di fumo, così contraendo un tumore faringeo, diagnosticato dopo la cessazione del rapporto di lavoro, rimosso chirurgicamente, e dal quale era derivata una invalidità permanente quantificata nella misura del 40%.
Avverso tale decisione interpone ricorso per cassazione la s.p.a. P.I. affidato a tre motivi cui resiste con controricorso l’intimato.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.
Considerato che
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione, dell’art. 2087 c.c., violazione degli artt. 62, 156, 157 e 161 c.p.c. e nullità della sentenza per violazione dell’art. 111 Cost.
Si duole che la Corte distrettuale, senza in alcun modo considerare il non corretto espletamento del mandato da parte del nominato ausiliare prof. P. e le osservazioni al riguardo formulate dalla società appellante, si sia limitata a confermare la sussistenza del nesso eziologico fra patologia diagnosticata ed attività lavorativa. Stigmatizza altresì là sentenza impugnata sotto il profilo della apparenza della motivazione, giacché l’acritico riferimento alle risultanze della CTU pra inidoneo a giustificare l’accertamento della ricorrenza di un nesso causale fra esposizione al fumo del lavoratore ed insorgenza della patologia neoplastica, considerato l’intérvallo temporale che separava l’epoca di tale insorgenza e la cessazione del rapporto (la prima coincidente con il dicembre 2000, la seconda risalente al febbraio 1994).
Sempre con riferimento a tale ampio spazio temporale si prospetta, con il secondo motivo, vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione fra le parti, argomentandosi che, ove debitamente valutato, tale fatto avrebbe certamente escluso qualsiasi nesso causale fra attività lavorativa e patologia diagnosticata.
2. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi siccome connessi, sono infondati.
Diversamente da quanto dedotto dalla società ricorrente, il giudice del gravame ha espressamente vagliato la questione scrutinata, pervenendo alla argomentata conclusione della sussistenza di una eziologia professionale della affezione neoplastica contratta dal lavoratore, sulla scorta del motivato parere espresso dal nominato ausiliare; questi, dopo aver escluso l’ascrivibilità della patologia ad altri fattori (quali alcool o familiarità con malattie professionali), aveva affermato che il B. era stato esposto in modo significativo all’inalazione di fumo passivo – riconosciuto, secondo le acquisizioni della scienza medica, quale causa di cancro delle vie aeree superiori – per circa quattordici anni e per una media di almeno sei ore al giorno; così indubbiamente fornendo positivo riscontro al quesito specifico formulato al riguardo.
L’iter motivazionale che innerva l’impugnata sentenza, appare, dunque, assolutamente articolato e coerente sulla questione dedotta in lite, non rispondendo ai requisiti della motivazione apparente ovvero della illogicità manifesta che avrebbero giustificato il sindacato in questa sede di legittimità, secondo gli stringenti limiti posti dal novellato art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.. (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 nn. 8053 e 8054 cui adde Cass. S.U. n. 19881 del 2014, Cass. S.U. n. 25008 del 2014, Cass. S.U n. 417 del 2015).
Le Sezioni unite hanno infatti affermato su tale norma che: a) la disposizione deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 disp. prel. c.c., come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione in sede di giudizio di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e “grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; b) il nuovo testo introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso * esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia); c) l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per sevizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie; d) la parte ricorrente dovrà indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui agli artt. 366, primo comma, n. 6), c.p.c. e 369, secondo comma, n. 4), c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
La Corte di merito, per quanto sinora detto, facendo richiamo agli esiti degli espletati accertamenti medico-legali, ha reso una motivazione congrua e completa, che rende ragione della eziologia professionale della patologia contratta dal lavoratore e si sottrae, pertanto, alle censure all’esame.
3. Da ultimo, con il terzo motivo ed in via di subordine, si prospetta violazione dell’art. 13 c. 2 d.Igs. n. 38/2000 e del d.m. 12/7/2000 di approvazione delle tabelle delle menomazioni.
Si deduce l’erroneità della valutazione dei postumi invalidanti correlata dalla Corte di merito al n. 134 della tabella allegata al d.m. 12/7/2000 (implicante un range sino a 60 punti), in coerenza con le conclusioni rassegnate dal nominato ausiliare, giacché detto codice si riferisce alle neoplasie maligne che non si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di prognosi quoad vitam superiore ai cinque anni, quindi incurabili e non operabili; nella specie, sarebbe stato appropriato il richiamo al codice 131 relativo a neoplasie maligne che si giovano di trattamento medico e/o chirurgico locale, radicale, implicante menomazione fino a 10 punti, ovvero ’ al codice 134 (con valutazione sino a 30 punti) per neoplasie maligne che si giovano di trattamento medico e/o chirurgico ai fini di prognosi quoad vitam superiore ai cinque anni a seconda della persistenza e dell’entità dei segni e sintomi minori della malasttia, comprensivi degli effetti collaterali della malattia.
4. Il motivo non è fondato.
Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio in materia di invalidità il vizio – denunciabile in sede di legittimità – della sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del consulente tecnico d’ufficio è ravvisabile in caso di palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica la cui fonte va indicata, o nella omissione degli accertamenti strumentali dai quali secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in una inammissibile critica del convincimento del giudice (vedi Cass. 3/2/2012 n. 1652, Cass. 20/2/2009 n. 4254).
Nello specifico, le censure del ricorrente si risolvono in un mero dissenso in relazione alla diagnosi operata dal c.t.u., cui la Corte di merito ha prestato adesione, essendo del tutto generiche, in particolare, quelle espresse in ordine alle carenze della valutazione medico-legale operata dall’ausiliare di secondo grado per quanto riguarda la gravità e il carattere invalidante del quadro patologico riscontrato a carico dell’Interessato.
5. In definitiva, al lume delle superiori argomentazioni, il ricorso deve essere rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza, con distrazione in favore dell’avv. C.M.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1 co 17 L. 228/2012 (che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002) – della sussistenza dell’obbligo di versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione integralmente rigettata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge da distrarsi in favore dell’avv.C.M.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della, sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.