CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 marzo 2018, n. 5748
Tributi – Imposta di registro – Compravendita immobili – Trasferimento proprietà terreni – Beni societari
Ritenuto
che, con sentenza n. 85/65/12, depositata in data 21/6/2012, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto l’appello col quale la società L.R.S. s.r.l. avevano censurato, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, la sfavorevole sentenza di primo grado, sostenendo, ai fini della liquidazione dell’imposta di registro, recuperata con l’impugnato avviso di liquidazione, l’illegittimità della qualificazione, operata dall’Ufficio ex art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, come compravendita di beni immobili, dell’operazione intercorsa tra i soci de L.R.S. s.r.l. A., M. e L. B., e la S. Costruzioni s.p.a., distinta nel seguente modo: gli A., nella qualità, avevano concorso nella delibera, in data 4/7/2005, di aumento del capitale sociale de L.R.S. s.r.I., mediante conferimento di fondi agricoli, gravati da ipoteca a garanzia di mutui contratti pochi mesi prima dai medesimi conferenti, poi accollati alla conferitaria, e ceduto, in data 29/7/2005, il 90% delle proprie partecipazioni sociali e, in data 31/7/2007, il residuo 10%, alla S. Costruzioni s.p.a.;
che l’appello, per quanto qui d’interesse, è stato accolto con la motivazione che la cessione delle quote della società L.R.S. a favore della S. Costruzioni s.p.a. non determina un indebito vantaggio fiscale, consistente nel risparmio dell’imposta di registro (8% e 15%) sulla differenza di valore (al netto dei mutui) dei beni immobili conferiti, in quanto comporta non già il trasferimento della proprietà dei terreni, che continuano ad essere intestati alla società L.R.S., bensì delle quote societarie, sicché dopo il conferimento, non si è realizzato alcun ulteriore trasferimento della proprietà degli immobili “da cui si possa dedurre (come ha ritenuto l’Ufficio e come hanno concordato i giudici di prime cure) un intento elusivo nella stipula del relativo atto per l’aumento del capitale sociale”;
che, con sentenza n. 86/65/12, depositata in data 21/6/2012, la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha accolto analogo appello col quale A., M. e L.B. avevano censurato, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, la sfavorevole sentenza di primo grado, sostenendo, ai fini della liquidazione dell’imposta di registro, recuperata con distinti avvisi di liquidazione, anch’essi impugnati, l’illegittimità della qualificazione, operata dall’Ufficio ex art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, della predetta operazione;
che L’Agenzia delle Entrate propone separati ricorsi per cassazione, rispettivamente R.G.N. n. 9924/2013 ed R.G.N. n. 20921/2013, affidati ad identico motivo d’impugnazione, cui i contribuenti resistono in entrambi i giudizi con controricorso e memoria;
che il P.G. ha concluso per l’accoglimento dei ricorsi;
Considerato
che, in via preliminare, va disposta la riunione dei suindicati procedimenti in quanto, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, è sufficiente per consentire al giudice – anche in sede di legittimità – di decidere discrezionalmente per la riunione dei procedimenti, la circostanza che la trattazione separata prospetti l’eventualità di soluzioni contrastanti, ovvero siano ravvisabili ragioni di economia processuale, ovvero siano configurabili profili di unitarietà sostanziale e processuale della controversia (Cass. S.U. 1521/2013);
che la connessione esistente tra i due ricorsi discende dalla circostanza che la pretesa tributaria riguarda la medesima operazione negoziale, riqualificata dall’Agenzia delle Entrate, ai sensi dell’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, come vendita immobiliare, ed i relativi giudizi, i quali hanno ad oggetto l’impugnazione di distinti avvisi di liquidazione, si sono conclusi, con decisioni coincidenti, avendo l’adita CTR dichiarato nulli gli atti impositivi notificati agli interessati dall’Agenzia delle Entrate;
che, sempre in via preliminare, va disattesa la eccezione di improcedibilità del ricorso distinto con R.G.N. n. 9924/2013, per violazione del disposto dell’art. 369 c.p.c., n. 2 e n. 4, alla luce del principio, espresso da questa Corte, secondo cui “In tema di giudizio per cassazione, per i ricorsi avverso le sentenze delle commissioni tributarie, la indisponibilità dei fascicoli delle parti (i quali, ex art. 25, comma 2, D.Lgs. n. 546 del 1992 restano acquisiti al fascicolo d’ufficio e sono restituiti solo al termine del processo) comporta la conseguenza che la parte ricorrente non è onerata, a pena di improcedibilità ed ex art. 369, comma 2, n. 4 c.p.c., della produzione del proprio fascicolo e per esso di copia autentica degli atti e documenti ivi contenuti, poiché detto fascicolo è già acquisito a quello d’ufficio di cui abbia domandato la trasmissione alla S.C. ex art. 369, comma 3, c.p.c., a meno che la predetta parte non abbia irritualmente ottenuto la restituzione del fascicolo di parte dalla segreteria della commissione tributaria; neppure è tenuta, per la stessa ragione, alla produzione di copia degli atti e dei documenti su cui il ricorso si fonda e che siano in ipotesi contenuti nel fascicolo della controparte.” (Cass. n. 28695/2017);
che la ricorrente deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., primo comma, n. 3, violazione e falsa applicazione dell’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, e del principio del divieto di abuso del diritto, in quanto la CTR, nel ritenere che l’imposta di registro in tesi risparmiata avrebbe determinato per la società L.R.S. un costo incidente sul reddito annualmente prodotto, e che la vendita diretta dei terreni, dai B. alla società S. Costruzioni, avrebbe gravato quest’ultima società del pagamento dell’imposta in questione, non ha colto il nucleo centrale della questione oggetto di causa, costituito dall’incontestabile risparmio fiscale conseguito con gli atti di conferimento e di successiva cessione delle quote sociali (questi ultimi esenti dall’imposta), rispetto alla vendita diretta dei fondi agricoli, che riguarda i B., solidalmente obbligati, ai sensi dell’art. 57, D.P.R. n. 131, quali parti contraenti, in relazione ad a una operazione che, nella sua apparenza, non presenta alcuna valida ragione economica;
che i ricorsi sono fondati e meritano accoglimento;
che, invero, la giurisprudenza di questa Corte è da tempo orientata nel senso di escludere che l’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986 sia predisposto al recupero di imposte “eluse”, perché l’istituto dell'”abuso del diritto” – disciplinato oggi dall’art. 10 bis L. n. 212 del 2000, introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015 – presuppone una mancanza di “causa economica” che non è viceversa prevista per l’applicazione dell’art. 20 citato, disposizione la quale semplicemente impone, ai fini della determinazione dell’imposta di registro, di qualificare l’atto, o il collegamento di più atti, in ragione della loro intrinseca portata, cioè in ragione degli effetti oggettivamente raggiunti dal negozio o dal collegamento negoziale;
che la fattispecie regolata dall’art. 20 citato nemmeno ha a che fare con l’istituto della simulazione, atteso che la riqualificazione in parola avviene anche se le parti hanno realmente voluto quel negozio o quel dato collegamento negoziale, e ciò perché quello che conta sono gli effetti oggettivamente prodottisi (tra le tante, Cass. n. 9582/2016; n. 10211/2016; n. 9573/2016; n. 18454/2016; n. 2050/2017);
che, dunque, se l’applicazione dell’imposta di registro in misura proporzionale non deriva dalla individuazione di un “abuso di diritto”, neppure ha pregio il richiamo a finalità antielusive della norma esaminata, quali quelle proprie dell’art. 37 bis, D.P.R. n. 600 del 1973 (disposizione dettata per le imposte dirette), posto che con riferimento alle imposte indirette assume rilievo non già “l’abuso” in relazione a determinate operazioni economiche — ragione per cui neppure è richiesta la prova dell’esistenza di valide regioni economiche dell’operazione – ma l’effetto giuridico finale oggettivamente raggiunto dagli atti presentati alla registrazione, visti in collegamento negoziale;
che la Corte ha chiarito, inoltre, che la prevalenza della natura intrinseca degli atti registrati e dei loro effetti giuridici sul loro titolo, e sulla loro forma apparente, vincola l’interprete a privilegiare, nell’individuazione della struttura del rapporto giuridico tributario, la sostanza sulla forma e, quindi, il dato giuridico reale conseguente alla natura intrinseca degli atti, ed ai loro effetti giuridici, rispetto a ciò che formalmente è enunciato, anche frazionatamente, in uno o più atti, con la conseguenza di dover riferire l’imposizione al risultato di un comportamento nella sostanza unitario, rispetto ai risultati parziali e strumentali di una molteplicità di comportamenti formali, atomisticamente considerati (Cass. n. 10216/2016; n. 1955/2015; n. 14150/2013; n. 6835/2013);
che a detta interpretazione la Corte è giunta tenendo conto dell’evoluzione normativa che ha caratterizzato la prestazione patrimoniale tributaria di registro, dal regime della tassa, avente come oggetto l’atto inteso nella sua forma documentale, e come contenuto di una determinata quantità di denaro da riscuotere in corrispettivo del servizio di registrazione, a quello dell’imposta, avente come oggetto la manifestazione di capacità contributiva correlabile a una ben dimostrata forza economica (art. 53 Cost.);
che, nell’ambito di una simile evoluzione, gli artt. 1 e 20 del D.P.R. n. 131 del 1986 vanno letti nel senso che l’oggetto dell’imposta di registro, per quanto genericamente e formalmente individuata nel riferimento dell’art. 1 agli atti soggetti a registrazione o volontariamente presentati per la registrazione, nella sostanza, è costituito dagli effetti giuridici di tali atti, ma l’imposta si collega all’atto come negozio e non all’atto come documento (Cass. n. 3481/2014);
che, in senso contrario, non vale richiamare la diversità dei criteri interpretativi utilizzabili ai fini tributari, rispetto a quelli civilistici, in quanto va pur sempre attribuita preminenza, in applicazione dell’art. 20 del D.P.R. n. 131 del 1986, “alla causa reale dell’operazione economica rispetto alle forme negoziali adoperate dalle parti, sicché, ai fini della individuazione del corretto trattamento fiscale, è possibile valutare, ai sensi dell’art. 1362, secondo comma, c. c., circostanze ed elementi di fatto diversi da quelli emergenti dal tenore letterale delle previsioni contrattuali” (Cass. n. 6405/2014), di guisa che “gli stessi concetti privatistici sull’autonomia negoziale regrediscono a semplici elementi della fattispecie tributaria” (Cass. n.19752/2013; n. 10660/2003; n. 14900/2001);
che, pertanto, priva di rilievo risulta la ricerca delle ragioni economiche giustificatrici dell’operazione in quanto, una volta riconosciuto, alla luce dei principi innanzi enunciati, che ci si trova di fronte ad un caso di vendita immobiliare (come nella fattispecie in esame ritenuto dall’Agenzia delle Entrate), pur a fronte della cessione di quote della società intestataria dei beni immobili preventivamente conferiti nel suo patrimonio, non è richiesta alcuna valutazione circa l’esistenza o meno di valide ragioni economiche atte a giustificare l’operazione medesima, per come strutturata, né tantomeno incombe sull’Ufficio alcun onere probatorio al riguardo, sicché anche il differente regime di responsabilità civile (si pensi alla garanzia della qualità dei beni trasferiti) conseguente alla scelta dell’una, rispetto all’altra strada negoziale, rimane questione estranea alla fattispecie tributaria qui considerata;
che l’indirizzo giurisprudenziale – al quale il Collegio intende dare continuità – non appare scalfito dalla sentenza n. 2054/2017 della Corte, che individua un limite alla attività riqualificatoria dell’Ufficio nella insuperabilità dello schema negoziale tipico in cui l’atto presentato alla registrazione risulti inquadrabile, di tal che, in mancanza di prova, a carico della Amministrazione finanziaria, del disegno elusivo, ricorrerebbe piuttosto “un’ipotesi di libera scelta di un tipo negoziale invece di un altro”;
che, infatti, al di là delle specifiche caratteristiche del caso concreto, e della contestata adeguatezza della motivazione della sentenza del Giudice di appello – sul piano processuale, l’accertamento della natura, entità, modalità e conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (v. per tutte Cass. n. 11974/2010) – preme qui osservare che l’isolato approdo giurisprudenziale trascura di considerare che: 1) la formulazione dell’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, consente il superamento dell’individuato limite all’attività di interpretazione dell’atto consentita all’Amministrazione finanziaria; 2) l’intento elusivo non è essenziale ai fini qui esaminati; 3) la proposta lettura della disposizione mal si concilia con il principio costituzionale della capacità contributiva ed ignora la ricordata evoluzione della prestazione patrimoniale tributaria dal regime della tassa a quello dell’ imposta; che, quanto al primo punto, l’art. 20, D.P.R. n. 131 del 1986, nel disporre che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici, degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente”, fissa un chiaro criterio il quale comporta che, nell’imposizione del negozio, deve attribuirsi rilievo preminente alla sua causa reale ad alla effettiva regolamentazione degli interessi realmente perseguita dai contraenti;
che, quanto al secondo punto, l’esaminata disposizione non richiede l’intento elusivo, che può esserci ma non deve necessariamente esserci, sicché il tema d’indagine non consiste nell’accertare cosa la parti hanno scritto, ma cosa le stesse hanno effettivamente realizzato con il regolamento negoziale, e tanto non discende dal contenuto delle peculiari dichiarazioni delle parti medesime;
che, quanto al terzo punto, come pure evidenziato da autorevole dottrina, il tributo del registro può atteggiarsi come imposta, quando è rapportato, in misura proporzionale, al valore dell’atto registrato (contratto, sentenza, ecc.) a contenuto economico, assunto dal legislatore come indice di capacità contributiva, e come tassa, quando è dovuto in misura fissa, in tal caso trovando come presupposto e giustificazione la prestazione di un servizio, cioè la registrazione (e conservazione) di un atto;
che, infine, la ricordata sentenza (n. 2054/2017) non considera la molteplicità delle forme in cui l’autonomia contrattuale prevista dall’art. 1322 c.c. può potenzialmente esprimersi, né tantomeno dà il giusto spazio, nella individuazione della materia imponibile, alla c.d. “causa concreta” del contratto, ovvero lo scopo pratico del negozio inteso, al di là del modello astratto utilizzato, come funzione individuale della singola e specifica negoziazione, questione che non può essere sbrigativamente superata richiamando la intangibilità dello schema negoziale tipico (v. per tutte, Cass. n. 10490/2006), e neppure al fenomeno del collegamento negoziale, “meccanismo attraverso il quale le parti perseguono un risultato economico complesso, che viene realizzato, non attraverso un autonomo e nuovo contratto, ma attraverso una pluralità coordinata di contratti, i quali conservano una loro causa autonoma, anche se ciascuno è concepito, funzionalmente e teleologicamente, come collegato con gli altri, cosicché le vicende che investono un contratto possono ripercuotersi sull’altro. Ciò che vuoi dire che, pur conservando una loro causa autonoma, i diversi contratti legati dal loro collegamento funzionale sono finalizzati ad un unico regolamento dei reciproci interessi” (Cass. n. 12454/2012);
che va, quindi, ribadito che “l’incorporazione in un solo documento di più dichiarazioni negoziali, produttive di effetti giuridici distinti e l’incorporazione in documenti diversi di dichiarazioni negoziali miranti a realizzare, attraverso effetti giuridici parziali, un unico effetto giuridico finale traslativo, costitutivo o dichiarativo costituiscono tecniche operative alternative per i contribuenti, che si trovano, però, dinanzi ad una sola e costante qualificazione giuridica formulata dal legislatore tributario: la sottoposizione ad imposta di registro del loro atto o dei loro atti in base alla natura dell’effetto giuridico finale dei loro comportamenti, semplici o complessi che essi siano” (Cass. n. 3562/2017);
che al caso in esame neppure può applicarsi il più volte citato art. 20, nel testo modificato dall’art. 1, comma 87, lett. a), della L. n. 205 del 2017 (Bilancio di previsione dello Stato per l’anno finanziario 2018 e bilancio pluriennale per il triennio 2018-2020), pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, Serie Generale n.302 del 29 dicembre 2017- Supp. Ord. n. 62, ed entrata in vigore il 10 gennaio 2018, il quale prevede che “L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici dell’atto presentato alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente, sulla base degli elementi desumibili dall’atto medesimo, prescindendo da quelli extratestuali e dagli atti ad esso collegati, salvo quanto disposto dagli articoli successivi”;
che alla norma non può riconoscersi effetto interpretativo di quella previgente in quanto essa introduce limiti prima non previsti all’attività di riqualificazione giuridica della fattispecie, fermo restando che, ai sensi dell’art. 53 bis, comma 1, D.P.R. n. 131 del 1986, nel testo modificato dalla dall’art. 1, comma 87, lett. b), della L. n. 205 n. 2017, l’Amministrazione finanziaria può dimostrare la sussistenza dell’abuso del diritto previsto dall’art. 10 bis della legge 212/2000 (introdotto dal D.Lgs. n. 128 del 2015), il quale, alla lettera a), attribuisce espressamente rilevanza al collegamento negoziale, ma nel diverso ambito, appunto, dell’abuso del diritto e non più in quello della mera riqualificazione giuridica;
che se l’orientamento giurisprudenziale assolutamente prevalente di questa Corte è nel senso di escludere la natura antielusiva dell’art. 20, a beneficio di quella della qualificazione giuridica della fattispecie, difetta alla radice il tipico connotato sintomatico della natura interpretativa di una nuova disposizione insito nell’intento legislativo di porre fine ad uno stato di pregressa dubbiosità applicativa, così come non può sostenersi che la modifica introdotta alla norma in questione abbia natura interpretativa sol perché richiama l’art. 10 bis, L. n. 212 del 2000, in quanto tale ultima norma disciplina il diverso ambito dell’abuso del diritto; che neppure vale obiettare che la relazione illustrativa alla legge n. 205 del 2017 assegna alla disposizione concernente l’imposta di registro il compito di “chiarire” il criterio di individuazione della natura e degli effetti che devono essere presi in considerazione ai fini della registrazione, in quanto se non può ritenersi precluso al legislatore adottare norme che precisino il significato di precedenti disposizioni legislative, pur a prescindere da una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o di contrasti giurisprudenziali, a condizione che l’interpretazione non collida con il generale principio della ragionevolezza (in tal senso è da tempo orientata la Corte Costituzionale), deve pur sempre trattarsi della indicazione di una opzione interpretativa tra le diverse possibili e, soprattutto, compatibile con il tenore della norma interpretata;
che, peraltro, l’argomento sopra ricordato può essere agevolmente superato sulla base del tenore testuale adottato dallo stesso art. 1, co. 87, in esame, il quale dichiara espressamente di apportare talune “modificazioni” all’art.20 D.P.R. n. 131 del 1986, così palesandosi quale disposizione innovativa del precedente assetto normativo;
che ciò trova conferma, in coerenza con il dato letterale del nuovo disposto, nel fatto che la modificazione introdotta ha determinato una rivisitazione strutturale profonda, ed antitetica, della fattispecie impositiva pregressa, là dove l’art. 20 previgente (secondo l’indirizzo di legittimità) imponeva la tassazione sulla base di elementi (il dato extratestuale ed il collegamento negoziale) che vengono oggi espressamente esclusi, fatto salvo, come già detto, il loro “recupero” nel diverso ambito della sopravvenuta disciplina dell’abuso del diritto;
che, in definitiva, la novella introdotta dalla L. n. 205 del 2017, non avendo portata interpretativa, ma innovativa, non esplica effetto retroattivo e, conseguentemente, gli atti ai quali è correlato l’esercizio della potestà impositiva, antecedenti alla data di sua entrata in vigore (1° gennaio 2018), continuano ad essere assoggettati ad imposta di registro secondo la disciplina risultante dalla previgente formulazione dell’art. 20 d.P.R. n. 131 del 1986;
che l’accertamento della natura, dell’entità, delle modalità e delle conseguenze del collegamento negoziale realizzato dalle parti rientra nei compiti esclusivi del giudice di merito, il cui apprezzamento non è sindacabile in sede di legittimità, se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi logici e giuridici (ex multis, Cass. n. 7074/2006; n. 14611/2005);
che, tuttavia, il Giudice di appello ha trascurato, nella fattispecie in esame, l’efficacia interpretativa e probatoria di tutti gli elementi fattuali dedotti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento della causa unitaria di vendita dei beni immobili, così come perseguita dai negozi dedotti in giudizio, e disatteso i principi di diritto in precedenza esposti, avendo fermato la propria attenzione su aspetti non decisivi della vicenda, quali quelli concernenti la formale diversità dell’oggetto del trasferimento, anche se nella sostanza chi ha la partecipazione societaria (dapprima maggioritaria e poi totalitaria) si trova a poter disporre dei beni che ne costituiscono il patrimonio sia pure per il tramite della società, le ricadute dell’operazione sul differente piano dei tributi diretti, la ampiezza del lasso temporale concernente la cessione delle residue quote societarie, certamente ininfluente ai fini del c.d. “controllo” societario, ed invece trascurato il vaglio di altri aspetti, pure emergenti dagli atti di causa, quali quelli concernenti i finanziamenti ottenuti sugli immobili in prossimità del loro trasferimento, l’accollo alla predetta società delle relative passività, con conseguente incidenza sui valori di conferimento, la destinazione della liquidità rinveniente dall’accensione dei mutui, la cessione finale delle partecipazioni societarie ricevute a fronte del conferimento dei beni offerti in garanzia all’istituto di credito mutuante, essendo d’altro canto incontestabile che il prezzo di vendita possa non essere costituito soltanto dalla somma materialmente versata al venditore;
che le sentenze vanno cassate, e dovendosi procedere al discernimento di una tipica quaestio facti, si impone il rinvio alla medesima CTR che, in diversa composizione, rivaluterà le fattispecie e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità;
P.Q.M.
Accoglie i riuniti ricorsi R.G.N. n. 9924/2013 ed R.G.N. n. 20921/2013, cassa le sentenze impugnate, e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio.
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