CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 09 novembre 2020, n. 25041
Mansioni di panettiere – Accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno – Differenze retributive e integrazione del TFR – Veridicità delle proprie asserzioni – Onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce
Rilevato
che la Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza pubblicata il 10.7.2015, ha accolto parzialmente il gravame interposto da N.O., nei confronti di S. B., titolare della ditta individuale “Panificio Tirreno” – presso la quale l’O. aveva prestato la propria opera, con mansioni di panettiere, dall’8.11.1995 al 23.1.2006 -, avverso la pronunzia del Tribunale di Paola n. 505/2012, resa il 20.4.2012, che aveva rigettato la domanda del lavoratore, diretta ad ottenere, <<previo accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno, intercorso tra il ricorrente e la ditta “Panificio Tirreno”>> per il predetto periodo, <<il pagamento della somma di Euro 84.076,09, oltre accessori, a titolo di indennità sostitutiva delle ferie e festività non godute, di tredicesima e quattordicesima mensilità, di integrazione della somma percepita per il TFR, nonché di tutte le altre somme indicate nel prospetto allegato al ricorso introduttivo del giudizio e che ne costituisce parte integrante>>;
che, pertanto, la Corte di merito, in parziale riforma della sentenza gravata, ferma nel resto, ha condannato il B. a versare al dipendente, a titolo di differenze retributive e di integrazione del TFR, Euro 36.599,87, oltre rivalutazione monetaria secondo gli indici Istat ed interessi legali dalle singole scadenze al soddisfo; compensando per la metà le spese di lite di entrambi i gradi di merito e condannando la società al pagamento della metà residua;
che per la cassazione della sentenza ricorre S. B. articolando due motivi, cui resiste con controricorso N.O.;
che sono state comunicate memorie nell’interesse del B.;
che il P.G. non ha formulato richieste
Considerato
Che, con il ricorso, si censura: 1) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, per avere la Corte territoriale, <<con un ragionamento palesemente contraddittorio>>, riconosciuto un credito in favore del lavoratore con la sola motivazione <<per dei titoli ritenuti provati>>, omettendo di motivare la decisione impugnata in merito a punti fondamentali della controversia e senza valutare, relativamente alle <<differenze retributive, i titoli specificati in ricorso, ma limitandosi a richiamare i conteggi offerti da controparte rapportati ad otto ore giornaliere anziché a dieci>>; 2) in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la <<violazione e falsa applicazione dei Contratti ed Accordi Collettivi Nazionali di Lavoro>>, e si lamenta che, <<erroneamente ed illegittimamente, i giudici del gravame abbiano proceduto a riconoscere il credito dell’O., nei confronti del datore di lavoro, “per i titoli ritenuti provati”>>, altresì <<errando nella determinazione del predetto credito, essendosi i medesimi limitati a “mutuare i conteggi in atti”, ovvero a riportare quelli indicati dal ricorrente nel ricorso introduttivo, senza alcuna motivazione e soprattutto senza alcun controllo in merito alla corrispondenza dei criteri adottati da controparte a quelli determinati e fissati dalla contrattazione collettiva nazionale nella materia>>, ed inoltre, senza considerare che <<l’art. 28 del CCNL del 24.7.1995, richiamato dall’art. 30bis del CCNL del 23.11.1998, stabilisce che “La retribuzione oraria si ottiene dividendo la retribuzione mensile per 173”>>;
che il primo motivo è inammissibile; al riguardo, va ribadito che i difetti di omissione e di insufficienza della motivazione sono configurabili solo quando, dall’esame del ragionamento svolto dal giudice del merito e quale risulta dalla sentenza oggetto del giudizio, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa decisione ovvero quando si evinca l’obiettiva deficienza, nel complesso della sentenza, del procedimento logico che ha indotto il giudice, sulla scorta degli elementi acquisiti, al suo convincimento, ma non quando vi sia difformità rispetto alle attese ed alle deduzioni della parte ricorrente sul valore e sul significato attribuiti dal giudice di merito agli elementi delibati, poiché, in quest’ultimo caso, il motivo di ricorso si risolverebbe in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti dello stesso giudice di merito finalizzata ad ottenere una nuova pronunzia sul fatto, certamente estranea alla natura ed alle finalità del giudizio di cassazione (cfr., ex plurimis, Cass., S.U., n. 24148/2013; Cass. n. 14541/2014);
che, nel caso di specie, i giudici di seconda istanza, attraverso un percorso motivazionale del tutto condivisibile sotto il profilo logico-giuridico, sono pervenuti alla decisione oggetto del presente giudizio, dopo aver analiticamente vagliato le risultanze dell’istruttoria espletata in primo grado (cfr., in particolare le pagine 3-5 della sentenza impugnata); pertanto, le doglianze articolate dalla parte ricorrente come vizio di motivazione – che, in sostanza, si risolvono in una ricostruzione soggettiva del fatto, tesa a condurre ad una valutazione difforme rispetto a quella cui è pervenuta la Corte distrettuale, sulla base di una diversa lettura del materiale probatorio – appaiono inidonee, per i motivi anzidetti, a scalfire la coerenza della sentenza oggetto del giudizio di legittimità;
che il secondo motivo è inammissibile sotto diversi e concorrenti profili; innanzitutto, infatti, la parte ricorrente non ha indicato analiticamente quali norme <<dei Contratti ed Accordi Collettivi Nazionali di Lavoro>> (peraltro, neppure specificati, ad esclusione di un cenno a pag. 43 del ricorso di legittimità) – e sotto quale profilo – sarebbero state violate, in spregio alla prescrizione di specificità dell’art. 366, primo comma, n. 4, c.p.c., che esige che il vizio della sentenza previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3, del codice di rito, debba essere dedotto, a pena di inammissibilità, mediante la puntuale indicazione delle disposizioni asseritamente violate ed altresì con specifiche argomentazioni intese motivatamente a dimostrare in quale modo determinate affermazioni in diritto, contenute nella sentenza gravata, debbano ritenersi in contrasto con le disposizioni regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla prevalente giurisprudenza di legittimità (cfr., tra le molte, Cass., Sez. VI, ord. nn. 187/2014; 635/2015; Cass. nn. 19959/2014; 18421/2009); inoltre, nel motivo, come innanzi precisato, si deduce che le violazioni lamentate attengono alla violazione <<dei Contratti ed Accordi Collettivi Nazionali di Lavoro>>, non specificati (se non per un accenno all’art. 28 del CCNL del 24.7.1995, neppure trascritto), né prodotti (e neppure indicati nell’elenco dei documenti offerti in comunicazione unitamente al ricorso per cassazione), né trascritti, in violazione del principio (v. art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c.), più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (cfr., ex multis, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Per la qual cosa, questa Corte non è stata messa in grado di poter apprezzare la veridicità delle censure mosse dal ricorrente al procedimento di sussunzione operato dai giudici di seconda istanza, le quali si risolvono, quindi, in considerazioni di fatto del tutto inammissibili e sfornite di qualsiasi delibazione probatoria (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 24374/2015; 80/2011);
che per tutto quanto in precedenza esposto, il ricorso va dichiarato inammissibile;
che le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza;
che, avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nei termini specificati in dispositivo.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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