CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 10 giugno 2020, n. 11058
Decadenza dal godimento dei benefici connessi alla condizione di lavoratore portatore di handicap – Risarcimento dei danni – Spese per visite mediche e richiesta di permessi retribuiti – Carenza probatoria
Rilevato che
la Corte d’appello di Catanzaro, confermando, con diversa motivazione, la pronuncia del Tribunale stessa sede, ha rigettato la domanda di S.L. rivolta a sentir riconoscere il suo diritto al risarcimento dei danni derivanti dalla illegittimità del provvedimento di decadenza dal godimento dei benefici connessi alla condizione di lavoratore portatore di handicap di cui all’art. 33 della legge n.104 del 1992, disposta in sede di visita di revisione dalla Commissione medica per l’accertamento dell’handicap e smentita dal successivo giudizio di ATP, che lo aveva riconosciuto portatore di handicap dalla data della visita di revisione;
la Corte territoriale ha accertato che il L. avesse omesso di allegare e di provare di aver sostenuto spese per visite mediche e di avere richiesto in concreto i permessi retribuiti; quanto ad altre voci di danno, ne ha rilevato la loro proposizione per la prima volta in appello;
la cassazione della sentenza è domandata da S.L. sulla base di due motivi, illustrati da successiva memoria; l’Inps ha resistito con tempestivo controricorso;
è stata depositata proposta ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc. civ., ritualmente comunicata alle parti unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza in camera di consiglio.
Considerato che
col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n.4 cod. proc. civ., il ricorrente deduce “Violazione dell’art. 112 c.p.c.”; censura la sentenza impugnata per non essersi pronunciata sulla domanda d’illegittimità del provvedimento di decadenza dai benefici della legge n. 104 adottato dall’Inps sulla base della valutazione espressa in sede di revisione dalla Commissione medica per l’accertamento dell’handicap, nonché sulla domanda di risarcimento per il danno non patrimoniale subito; sostiene il suo interesse alla declaratoria di illegittimità del provvedimento di decadenza dai benefici della l. n.104 del 1992, atteso che una tale pronuncia costituirebbe il presupposto per la richiesta risarcitoria, e perché, qualora fosse riconosciuta l’illegittimità del provvedimento di revoca, il ricorrente avrebbe potuto fruire dei benefici a lui riservati dalla legge;
col secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3 e n. 5 cod. proc. civ., lamenta “Violazione degli artt. 2043 e 2059 cod. civ. e dell’art. 33 I. 104/92 – Omesso esame circa fatti decisivi del giudizio”; deduce la violazione delle norme in tema di responsabilità per il danno subito in conseguenza del diniego dei benefici riservati al soggetto portatore di handicap dall’art. 33, affermando, in particolare, che la revoca lo avrebbe costretto ad affrontare le spese per prestazioni medico specialistiche a supporto della fondatezza delle sue pretese nel procedimento ex art. 445 bis cod. proc. civ.; il motivo contesta inoltre la gestione superficiale e trascurata, da parte della Corte territoriale, di elementi probatori di natura documentale, nonché di riferimenti normativi decisivi ai fini della valutazione del giudizio; il primo motivo è inammissibile;
il giudizio di primo grado si era concluso con una pronuncia di difetto di legittimazione passiva dell’Inps (e di dichiarazione di legittimazione passiva in capo alla Commissione medica);
la Corte territoriale ha, di contro, stabilito che, ai sensi dell’art. 20 del d.l. n. 78 del 2009, conv. in l. n.102 del 2009 (Contrasto alle frodi in materia di invalidità civile), le funzioni in materia di handicap sono demandate all’Inps, e ne ha dedotto che questi è tenuto a rispondere dell’operato delle Commissioni mediche presso le Aziende Sanitarie Pubbliche, operanti quali organi dell’ente previdenziale;
la Corte territoriale ha poi proceduto a qualificare, come derivante da responsabilità aquiliana, la pretesa risarcitoria per la mancata fruizione dei permessi retribuiti riconosciuti dalla legge al portatore di handicap, sì come finalizzati all’esigenza di questi di sottoporsi a cure e trattamenti e godere del ristoro delle energie in genere, senza intaccare i propri diritti di lavoratore;
la Corte d’appello ha affermato che il danno subito dall’appellante, in tal caso, non consiste nella mancata fruizione della retribuzione ma del fatto di non aver potuto godere dei permessi retribuiti, ove richiesti, nonché della «… perdita di altra utilità connessa alla mancata possibilità di fruizione…» (p. 6 sent.), sicché il lavoratore avrebbe dovuto provare di aver esercitato tale facoltà e che la stessa gli era stata inibita;
inquadrata la ratio del riconoscimento di permessi retribuiti ai lavoratori portatori di handicap, la Corte d’appello ha ritenuto, poi, che la domanda risarcitoria non meritasse accoglimento per carenza probatoria in merito alla fondatezza del diritto rivendicato: a) disattendendo la domanda di rimborso delle spese sanitarie sostenute per carenza di prova; b) rigettando la domanda di esenzione dal pagamento dei ticket per difformità del grado di handicap posseduto dall’appellante da quello previsto dai regolamenti regionali; c) ritenendo inammissibili, perché non proposte in primo grado – e dunque nuove – le altre voci di danno;
la doglianza circa l’omessa pronuncia sulla presunta illegittimità del provvedimento di revoca dei benefici connessi alla condizione di soggetto portatore di handicap da parte della Commissione medica in sede di visita di revisione, viene, pertanto, assorbita dalla ragione più liquida concernente l’accertamento, da parte del giudice dell’appello, della mancanza di prova del danno subito dall’odierno ricorrente;
la Corte territoriale ha accertato che il L. non ha allegato né provato nell’atto introduttivo del giudizio la maturazione di un siffatto diritto in concreto, attraverso la produzione di certificati di malattia, o attestazioni di richiesta di ferie oppure di assenze non retribuite per soddisfare le esigenze per le quali la legge n.104 riconosce il diritto ai predetti permessi;
quanto al danno non patrimoniale e alle altre voci di danno la Corte ha ritenuto “nuova” la relativa domanda e il ricorrente non ha assolto l’onere di specificità, indicando in quale atto, in che termini e in quale momento le relative domande sarebbero state proposte;
il secondo motivo è parimenti inammissibile;
nel caso in esame va richiamata la pacifica giurisprudenza di questa Corte, in tema di mescolanza e sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei nel giudizio di cassazione, con riferimento alle diverse ipotesi contemplate dall’art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod.proc.civ., secondo cui la promiscuità di prospettazioni di una medesima questione sotto profili incompatibili è ritenuta inammissibile; nel giudizio di cassazione non è, infatti, consentito sollevare, col medesimo motivo di ricorso, una violazione di norme di diritto, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e un vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione; o l’omessa motivazione, che richiede l’assenza di motivazione su un punto decisivo della causa rilevabile d’ufficio, l’insufficienza della motivazione, che richiede la puntuale e analitica indicazione della sede processuale nella quale il giudice d’appello sarebbe stato sollecitato a pronunciarsi, e la contraddittorietà della motivazione, che richiede la precisa identificazione delle affermazioni, contenute nella sentenza impugnata, che si porrebbero in contraddizione tra loro;
in altri termini, l’inammissibilità del cd. “motivo promiscuo” fonda sulla ragione per la quale l’esposizione diretta e cumulativa delle questioni concernenti l’apprezzamento delle risultanze acquisite al processo e il merito della causa mira a rimettere al giudice di legittimità il compito di isolare le singole censure teoricamente proponibili, onde ricondurle ad uno dei mezzi d’impugnazione enunciati dall’art. 360 cod. proc. civ., per poi ricercare quale o quali disposizioni sarebbero utilizzabili allo scopo, così attribuendo – inammissibilmente – al giudice di legittimità il compito di dare forma e contenuto giuridici alle lagnanze del ricorrente, al fine di decidere successivamente su di esse (Cass. n.26874 del 2018; cfr. anche Cass. n.3554 del 2017 e Cass. n. 18021 del 2016);
in conclusione, il giudice del merito ha escluso la prova della sussistenza di un danno concreto patito e le censure non sono idonee ad intaccare la decisione;
pertanto, il ricorso va dichiarato inammissibile; le spese, come liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza;
in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna il ricorrente al rimborso delle spese del giudizio di legittimità in favore del controricorrente, che liquida in Euro 200 per esborsi, Euro 2000 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura forfetaria del 15 per cento ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17 della l. n.228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13.
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