CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 11 giugno 2019, n. 15614
Rapprto di lavoro – Malattia contratta nell’ambiente di lavoro – Risarcimento per la morte del congiunto
Rilevato che
La Corte d’Appello di Lecce dichiarava inammissibile, in quanto tardivo, l’appello proposto con ricorso depositato il 29.10.2013 da S. & M. B. s.r.l. (già s.p.a.) in liquidazione avverso sentenza del giudice di prima istanza depositata il 27.7.12 e corretta con provvedimento 30.4.13; detta pronuncia – con la quale era stata disposta condanna al pagamento della somma di euro 1.235.070,90 in favore degli eredi Dell’A., a titolo risarcitorio iure proprio e iure hereditatis per la morte del congiunto M. Dell’A., a causa di malattia contratta nell’ambiente di lavoro – era stata infatti erroneamente emessa nei confronti di B. S. s.p.a., sì da indurre i ricorrenti all’espletamento della procedura disciplinata dall’art. 288 c.p.c.
La cassazione di tale pronuncia è domandata da S. & M. B. s.r.l. in liquidazione, sulla base di due motivi, resistiti con controricorso dagli eredi di M. Dell’A., successivamente illustrato da memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo si denuncia omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia posto a fondamento del decisum, la succinta considerazione secondo cui “la correzione apportata alla sentenza stessa riguardo all’indicazione esatta della parte resistente e nell’intestazione e nel dispositivo (società ora appellante invece di B. S. spa), non comporta alcuna nullità della sentenza impugnata atteso che effettiva parte del giudizio è sempre stata l’attuale società appellante prima della messa in liquidazione”. Si evidenzia, per contro, l’erroneità degli approdi ai quali è pervenuta la Corte, per non aver esaminato il testo della sentenza di primo grado, così da poter escludere l’esistenza di un errore materiale correggibile ex art. 287 c.p.c. da cui sarebbe derivata l’ammissibilità del ricorso in appello.
2. Il motivo palesa profili di inammissibilità.
Si impone innanzitutto l’evidenza del difetto di specificità che lo connota giacché, in violazione del principio prescritto dall’art. 366, co. 1, n. 4 e n. 6 c.p.c., non viene riportato il tenore della sentenza del giudice di prima istanza al cui tenore la censura è chiaramente rapportata.
Ed invero, secondo l’insegnamento di questa Corte, il requisito dell’esposizione sommaria dei fatti, prescritto a pena d’inammissibilità del ricorso per cassazione, è funzionale alla completa e regolare instaurazione del contraddittorio ed è soddisfatto laddove il contenuto dell’atto consenta di avere una chiara e completa cognizione dei fatti che hanno originato la controversia e dell’oggetto dell’impugnazione, senza dover ricorrere ad altre fonti o atti, sicché impone alla parte ricorrente, sempre che la sentenza gravata non imponga proprio per questa ragione in un’apparenza di motivazione, di sopperire ad eventuali manchevolezze della stessa decisione nell’individuare il fatto sostanziale e soprattutto processuale (cfr. Cass. 2.2016 n.16103, Cass. 4.10.2018 n. 24340, Cass. 13.11.2018 n. 29093). Detto principio, per quanto sinora detto, non risulta in alcun modo rispettato da parte ricorrente.
Sotto altro versante, non può tralasciarsi di considerare che la Corte distrettuale, sia pur con succinta motivazione, ha proceduto ad una specifica disamina della sentenza impugnata così come corretta (penult. cpv di p. 2 sentenza), sicché deve escludersi che sia incorsa nel denunciato vizio come definito dal novellato testo dell’art. 360, co. l, n. 5 c.p.c. secondo l’interpretazione resa da Cass. SS.UU. nn. 8053 e 8054 del 7 aprile 2014 che impone rigorosi limiti al sindacato di legittimità, da esercitare entro i confini della mera esistenza e della intrinseca congruità del percorso motivazionale seguito dal giudice di merito.
3. Il secondo motivo prospetta violazione e falsa applicazione art. 288 c.p.c. ex art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. Ci si duole che la Corte di merito abbia erroneamente determinato il dies a quo di decorrenza del termine di impugnazione della sentenza del Tribunale, individuandolo nella data di deposito della pronuncia recante l’inesatta indicazione della società datrice condannata, anziché in quella della correzione dell’errore materiale, disposta con ordinanza 30.4.13.
4. La censura è priva di fondamento.
Va infatti considerato che nessun error in judicando è fondatamente ascrivibile alla censurata pronuncia, ove si faccia richiamo al principio, consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, secondo cui il termine per- l’impugnazione di una sentenza di cui è stata chiesta la correzione decorre dalla notificazione della relativa ordinanza, ex art. 288, ultimo comma, c.p.c., se con essa sono svelati “errores in iudicando” o “in procedendo” evidenziati solo dal procedimento correttivo, oppure l’errore corretto sia tale da ingenerare un oggettivo dubbio sull’effettivo contenuto della decisione, interferendo con la sostanza del giudicato ovvero, quando con la correzione sia stata impropriamente riformata la decisione, dando luogo a surrettizia violazione del giudicato; diversamente, l’adozione della misura correttiva non vale a riaprire o prolungare i termini di impugnazione della sentenza che sia stata oggetto di eliminazione di errori di redazione del documento cartaceo, chiaramente percepibili dal contesto della decisione, in quanto risolventisi in una mera discrepanza tra il giudizio e la sua espressione (vedi ex plurimis, Cass. 10.4.2018 n. 8863 nonché Cass. 20.10.2014 n. 22185).
La Corte distrettuale, con statuizione conforme a diritto perché coerente coi richiamati dieta, ha dedotto che la correzione apportata alla sentenza – concernente l’indicazione della parte resistente nell’intestazione e nel dispositivo – non comportava alcuna nullità della sentenza impugnata, atteso che effettiva parte del giudizio era stata sempre la S. & M. B. s.p.a., peraltro indicata correttamente nel dispositivo di sentenza letto in udienza, prevalente rispetto a quello errato indicato nella sentenza depositata, ed inidoneo ad ingenerare alcuna nullità della sentenza.
Non si versava, dunque, in ipotesi in cui si fosse ingenerato un oggettivo dubbio sull’effettivo contenuto della decisione, posto che la società convenuta era stata correttamente individuata nel dispositivo letto in udienza, prevalente rispetto a quello indicato in sede di redazione della sentenza (vedi sul punto, ex a/iis, Cass. 17.11.15, n. 23463) e l’errore riscontrato nel dispositivo delia sentenza depositata, non valeva in alcun modo a disvelare alcun “error in iudicando” o “in procedendo”, ma solo a registrare una discrasia fra contenuto ideale e manifestazione concreta della volontà del giudicante, inidonea a consentire – secondo ¡.principi summenzionati – la decorrenza dei termini di impugnazione per le parti corrette, dalla notifica dell’ordinanza di correzione.
Alla stregua di quanto esposto il ricorso deve essere, pertanto, rigettato.
Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, nel testo risultante dalla legge 24.12.2012 n. 228, deve provvedersi, ricorrendone i presupposti, come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 6.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del DPR n. 115/02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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