CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 luglio 2021, n. 19817
Tributi – IRPEF – Redditi diversi – Plusvalenza da cessione di terreno edificabile – Rettifica corrispettivo di cessione sulla base del valore definito ai fini dell’imposta di registro – Illegittimità
Rilevato che
1. L’Agenzia Entrate di Bari accertava a carico di N.F. – per l’annualità 2005 – redditi diversi per € 760.619,00 euro a titolo di plusvalenza ex art. 67, primo comma, lett a) T.U.I.R. 917/1986, realizzata in relazione alla vendita di un terreno edificabile sito in Monopoli al prezzo di 1.086.390,00 Euro; terreno il cui valore, dapprima rettificato dall’Agenzia delle Entrate di Bari in 2.753.100,00 Euro, successivamente era stato rideterminato in via definitiva dalla Commissione tributaria provinciale di Bari in 1.125.615,00 Euro.
2. L’avviso di accertamento veniva impugnato dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Bari dal N. il quale eccepiva l’errata imputazione all’anno 2005 del presunto reddito, la illegittimità o nullità dell’avviso per carenza di motivazione, nonché l’inosservanza di norme di legge in materia di imposizione diretta e di determinazione della plusvalenza (calcolata sulla base del valore venale accertato, anziché del corrispettivo incassato).
3. La C.T.P. adita accoglieva il ricorso del contribuente, ritenendo che le plusvalenze realizzate a seguito di cessioni a titolo oneroso di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria dovevano considerarsi realizzate nell’anno in cui risulta incassato il corrispettivo della cessione.
4. La Commissione tributaria regionale della Puglia, con sentenza n. 818/11/2015, depositata il 15 aprile 2015, accoglieva parzialmente l’appello dell’Ufficio e determinava il valore iniziale del suolo compravenduto in 1.015.227,00 Euro, il prezzo finale in 1.125.615,00 Euro e la plusvalenza in 110.388,00 Euro, compensando interamente le spese del giudizio tra le parti.
5. Avverso tale decisione l’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, cui resiste il contribuente con controricorso e proponendo contestualmente ricorso incidentale affidato a due motivi cui l’Agenzia delle Entrate si oppone a sua volta con controricorso.
6. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 18 novembre 2020, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ.
7. Nel termine di cui all’art. 378 cod. proc. civ. il contribuente ha depositato una memoria insistendo nell’accoglimento delle proprie richieste.
Considerato che
1. Con il primo motivo l’Agenzia ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 112 e 132 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.” per avere la C.T.R. ritenuto che la documentazione prodotta dal contribuente fosse idonea a giustificare il valore dichiarato, solo perché copiosa, omettendo di pronunciarsi sulla documentazione prodotta dall’ufficio e di fornire una motivazione idonea a dare conto dell’iter logico-giuridico posto a fondamento dell’impugnata decisione.
1.1. Il motivo è inammissibile.
1.2. In un unico motivo l’Agenzia ha dedotto ex artt. 112 e 132 cod. proc. civ. un vizio di omessa pronuncia da parte del giudice d’appello e un vizio di difetto di motivazione della medesima decisione.
1.3. Questa Corte ha costantemente affermato che “il vizio di omessa pronuncia è configurabile allorché manchi completamente l’esame di una censura mossa al giudice di primo grado, mentre non ricorre nel caso in cui il giudice d’appello fondi la decisione su una costruzione logico-giuridica incompatibile con la domanda” (Sez. 5, 14 gennaio 2015, n. 452); il vizio in parola è altresì configurabile allorquando la decisione sia sostanzialmente priva di argomenti coerenti, in quanto avente una motivazione figurativa e meramente apparente ossia una motivazione che non consente di conoscere l’iter logico-argomentativo e giuridico seguito dai giudici di merito e posto a fondamento della decisione. (Cass. Sez. 6, 11 marzo 2016, n. 4882).
1.4. Invero la ricorrente tende a mettere in discussione la valenza indiziaria dei singoli elementi posti dalla C.T.R. a fondamento della propria decisione, ma, così facendo, finisce per contestare non già l’apparenza, ma la congruità della motivazione, denunciando sostanzialmente una censura ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., inammissibile non solo perché non specificamente dedotta, ma anche perché preclusa dal testo ormai vigente della norma appena citata, non più applicabile dopo l’11 settembre 2012, nel caso in cui, come nel caso di specie, si censuri l’omesso esame di punti o questioni anziché uno specifico “fatto” controverso e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente (Sez. Unite, 7 aprile 2014, n. 8053).
1.5. Nella specie non sussiste alcuna lacuna nel ragionamento decisorio seguito dal giudice territoriale, né tantomeno sono ravvisabili le carenze motivazionali eccepite dalla ricorrente, le cui doglianze palesano in sostanza soltanto che le circostanze di causa sarebbero state lette dalla C.T.R. in modo non corrispondente alle proprie aspettative.
1.6. Del resto, la valutazione degli elementi provvisti della necessaria concludenza probatoria, il riesame di essi che si richiede laddove non siano evidenziabili vizi logici, costituisce accertamento di merito che esula notoriamente dai limiti del controllo di logicità della motivazione affidato a questa Corte (cfr. Cass. Sez. 5, 18 febbraio 2015, n. 3198).
2. Con il secondo motivo l’Agenzia deduce “violazione e falsa applicazione degli artt. 67 co. 1 e 68 co. 1 e 2 T.U.I.R. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.” per avere la C.T.R. – pur riconoscendo la correttezza dell’operato dell’Ufficio nel procedimento di determinazione del valore iniziale attraverso il ricorso alla più volte richiamata delibera commissariale del Comune di Monopoli n. 6/2003 – immotivatamente attribuito valore determinante di prova alla documentazione prodotta da controparte, invece irrilevante perché “…. riferita a zone diverse per natura e caratteristiche…”.
2.1. La censura è inammissibile.
2.2. Come affermato costantemente da questa Corte «in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste in un’erronea ricognizione da parte del provvedimento impugnato della fattispecie astratta recata da una norma di legge, implicando necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta, mediante le risultanze di causa, inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito la cui censura è possibile, in sede di legittimità, attraverso il vizio di motivazione» (ex multis: Sez. 5, 24 maggio 2019, n. 14202)
2.3. L’omessa od errata valutazione dei fatti probatori acquisiti al giudizio comporta un difetto nella ricostruzione della fattispecie concreta dedotta in giudizio e dunque un “errore di fatto” incompatibile con il vizio di violazione di norme di diritto denunciato dalla ricorrente che comporta, invece, un “errore di diritto” nell’attività di giudizio, in quanto si traduce nella inesatta o errata individuazione od interpretazione della norma (o della fattispecie astratta in essa considerata) che deve essere applicata al rapporto come esattamene cognito nei suoi elementi fattuali, ovvero in un errore di sussunzione (che si verifica quando i fatti come oggettivamente rilevati non appaiono riconducibili alla fattispecie astratta contemplata dalla norma, ovvero pur essendo a quella riconducibili vengono tuttavia regolati dal Giudice sulla base di effetti giuridici diversi da quelli considerati dalla norma applicata). Tale censura avrebbe dovuto, pertanto, essere fatta valere attraverso la denuncia di vizio motivazionale (nei limiti normativi oggi previsti) e non attraverso il vizio di violazione di norma di diritto sostanziale. La ontologica incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamente affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto dell’attività del giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Cass. 1 sez., 11 agosto 2004 n. 15499; id., Sez. lav. 16 luglio 2010, n. 16698; nonché, Sez. 5, 30 dicembre 2015, n. 26110).
2.4. Il ricorso principale va pertanto dichiarato inammissibile con conseguente condanna dell’ufficio al rimborso in favore del contribuente delle spese di giudizio secondo la soccombenza anche riguardo a quanto di seguito operato relativamente al ricorso incidentale.
3. Quanto al ricorso incidentale, con il primo motivo il N. deduce “violazione e falsa applicazione degli 67 co. 1 e 68 co. 1 e 2 T.U.I.R. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.” per avere la C.T.R. determinato il prezzo finale del suolo in €. 1.125.615,00, in luogo del prezzo effettivamente incassato di € 1.086.390,00, facendo a tal fine esclusivo riferimento al corrispondente valore definito ai fini delle “imposte indirette”.
3.1. Con il secondo motivo deduce “violazione e falsa applicazione degli 91 e 92 c.p.c. in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.” per avere la C.T.R. – pur avendo dato assoluta prevalente e assorbente ragione al contribuente (con riforma della sentenza appellata sul solo capo relativo alla determinazione del valore/prezzo finale del suolo ritenuto da € 1.086.390,00 in € 1.125.615.00 con rigetto, per il resto, dell’appello) – compensato integralmente tra le parti le spese del giudizio, invocando genericamente, e senz’altra specificazione, la parziale soccombenza reciproca.
3.2. Il primo motivo del ricorso incidentale è fondato.
3.3. Alla stregua della normativa sopravvenuta in pendenza di giudizio, la doglianza dell’Amministrazione volta a sostenere la legittimità della pretesa impositiva risulta destituita di fondamento. Va, infatti, osservato, che l’art. 5, comma 3, del d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147, ha stabilito che «Gli articoli 58, 68, 85 e 86 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, e gli articoli 5, 5 bis, 6 e 7 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, si interpretano nel senso che per le cessioni di immobili e di aziende nonché per la costituzione e il trasferimento di diritti reali sugli stessi, l’esistenza di un maggior corrispettivo non è presumibile soltanto sulla base del valore, anche se dichiarato, accertato o definito ai fini dell’imposta di registro di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131, ovvero delle imposte ipotecaria e catastale di cui al decreto legislativo 31 ottobre 1990, n. 347».
3.4. Come già statuito in tema da questa Corte (cfr. Cass. sez. 5, 19 aprile 2019, n. 11054; Cass. sez. 6-5, ord. 7 settembre 2018, n. 21768; Cass. sez. 5, ord. 18 aprile 2018, n. 9513; Cass. sez. 6-5, ord. 7 dicembre 2016, n. 25241; Cass. sez. 6-5, ord. 29 novembre 2016, n. 24367; Cass. sez. 6-5, ord. 18 luglio 2016, n. 14664; Cass. sez. 5, 30 marzo 2016, n. 6135), detta norma, avendo natura di norma d’interpretazione autentica, ex art. 1, comma 2, della legge n. 212/2000, è applicabile retroattivamente ai giudizi pendenti. Ciò fa sì che l’accertamento della plusvalenza ai fini IRPEF non possa legittimamente presumersi in forza del solo valore accertato o definito ai fini dell’imposta di registro, peraltro con riferimento ad accertamento con adesione riferito alla sola parte acquirente, come invece accaduto con l’impugnata pronuncia (cfr. Cass. sez. 5, 2 aprile 2020, n. 7665).
3.5. Conseguentemente nell’accertamento dei redditi da plusvalenza l’utilizzabilità del dato di “valore” non consente di ritenere automaticamente quale “prezzo di vendita” il “valore” definito ai fini delle imposte indirette, talché, nella specie, l’ufficio non può discostarsi dal prezzo effettivamente conseguito dal venditore di 1.086,390,00 Euro.
4. Va viceversa rigettato il secondo motivo di ricorso incidentale.
Solo in forza dello ius superveniens l’esito del giudizio è risultato, infatti, ampiamente favorevole al contribuente, talché la compensazione delle spese del giudizio di merito da parte della C.T.R. non appare censurabile.
5. Alcunché va disposto in ordine al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della legge n. 228 del 2012, trattandosi di ricorso proposto da un’amministrazione dello Stato che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. U., 08/05/2014, n. 9938; Cass. Sez. 6, 29/01/2016, n. 1778).
P.Q.M.
dichiara inammissibile il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale in relazione al primo motivo e rigetta il secondo. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo del ricorso incidentale accolto e decidendo la causa nel merito accoglie il ricorso originario del contribuente.
Spese del doppio grado di merito compensate. Condanna la ricorrente principale al pagamento delle spese di giudizio di legittimità liquidate in 10.200,00 Euro per compensi, oltre esborsi in 200,00 Euro, spese forfetarie 15%, Iva e Cpa.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della I. n. 228/2012, dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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