CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 12 maggio 2022, n. 15218
Licenziamento per giusta causa – Violazione delle procedure aziendali sulla sicurezza per l’utilizzo del PC – Valutazione di gravità del fatto – Lesione del vincolo fiduciario
Rilevato che
1. la Corte di Appello di Roma, con la sentenza impugnata, in riforma della pronuncia di primo grado, ha respinto la domanda proposta da A. L. volta ad impugnare il licenziamento per giusta causa intimato da A. – Linee Aeree Italiane Spa nel giugno 2008;
2. la Corte, in sintesi e per quanto qui rileva, ha valutato “se tra la sanzione disciplinare inflitta, licenziamento per giusta causa, e la condotta contestata vi sia proporzionalità”, così argomentando: “con il suo comportamento il lavoratore non ha tenuto nel dovuto conto il rispetto delle procedure indicate dall’azienda sulla sicurezza per l’utilizzo del personal computer e prescritte proprio al fine di evitare disservizi ed in particolare le minacce alla sicurezza provenienti dall’esterno. Le modalità ed il numero di violazioni perpetrate dall’odierno appellato alle procedure di sicurezza hanno pregiudicato gravemente l’affidamento nella futura correttezza nell’adempimento della prestazione lavorativa e quindi la fiducia del datore di lavoro, vincolo necessario la prosecuzione del rapporto di lavoro”; il comportamento dell’appellato – prosegue la Corte territoriale – “assume sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo quella connotazione di gravità tale da giustificare la sanzione del licenziamento per giusta causa”, in quanto le modalità della condotta del L. “rivelano come la stessa sia stata supportata da un elemento doloso del dipendente, configuratosi nella volontaria mancata osservanza di quelle direttive impartite a monte dal datore di lavoro mediante le procedure di sicurezza dirette a prevenire gravi disservizi e minacce al sistema informatico. Il dolo si desume dal numero delle violazioni compiute dal reclamato e dalle plurime operazioni compiute senza autorizzazione alcuna.”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso il soccombente con 3 motivi; ha resistito con controricorso la società; entrambe le parti hanno comunicato memorie;
Considerato che
1. con il primo motivo del ricorso si denuncia: “Nullità della sentenza impugnata per violazione dell’art. 112 c.p.c. per omissione di pronuncia sulla domanda di nullità del licenziamento ritorsivo (art.360 c.p.c., n.4)”; si deduce che sin dall’atto introduttivo del giudizio il L. aveva impugnato il licenziamento anche sotto il profilo della sua nullità in quanto ritorsivo e che in primo grado il giudice aveva ritenuto assorbita la questione, avendo dichiarato l’illegittimità del recesso per difetto di proporzionalità; si eccepisce che, nonostante l’appellato si fosse costituito in giudizio “con memoria del 1.06.16 (allegata sub n.4 al presente ricorso) con la quale riproponeva tutte le deduzioni in fatto e in diritto già svolte in primo grado, a partire da quanto inerente il carattere ritorsivo del licenziamento, e dunque la nullità del medesimo per l’illiceità dell’unico motivo ai sensi degli artt.1345 e 1324 c.c.”, la Corte non ha provveduto su tale ragione di impugnazione del licenziamento;
2. il motivo non può trovare accoglimento; costituisce principio pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che, “in tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l’unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale” (per tutte v. Cass. n. 9648 del 2019; successive conformi: Cass. n. 23583 del 2019; Cass. n. 18136 del 2020; Cass. n. 25977 del 2020; Cass. n. 1514 del 2021; Cass. n. 4055 del 2021); ne deriva che, “poiché il motivo illecito determina la nullità del licenziamento solo quando il provvedimento espulsivo sia stato determinato esclusivamente da esso, la nullità deve essere esclusa quando con lo stesso concorra, nella determinazione del licenziamento, un motivo lecito, come una giusta causa a norma dell’art. 2119 cod. civ.” (Cass. n. 4543 del 1999; conf.: Cass. n. 12349 del 2003; Cass. n. 5555 del 2011); pertanto, il preteso error in procedendo – che sarebbe stato commesso dalla Corte territoriale nel non esaminare la questione della ritorsività del licenziamento, questione che si assume essere stata ritualmente riproposta in appello – non ha alcuna valenza decisiva tale da determinare la nullità della sentenza impugnata a mente del n. 4 dell’art. 360 c.p.c., atteso che la Corte ha comunque ritenuto concorrente, nella determinazione del recesso datoriale, un motivo lecito, rappresentato dalla giusta causa ex art. 2119 c.c., così escludendo in radice la possibilità di dichiarare la nullità per motivo illecito esclusivo e determinante;
3. con il secondo motivo si deduce: “Omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti (art.360 c.p.c., 1° co., n. 5)”, criticando il capo di sentenza con cui la Corte d’Appello ha ritenuto la proporzionalità, e dunque la legittimità, del licenziamento a fronte degli addebiti ritenuti provati, “per la totale omissione di esame di fatti decisivi (ampiamente acquisiti alla discussione processuale) ai fini della stessa valutazione di proporzionalità in cui si è sostanziato il giudizio”, in particolare concernenti “le condizioni di lavoro del ricorrente” e “l’assenza di precedenti sanzioni”;
con il terzo motivo si denuncia: “Violazione e/o falsa applicazione degli artt.2106 e 2119 c.c., anche in relazione agli artt.37 e 38 CCNL Trasporto Aereo (art.360 c.p.c., 1° comma, n.3)”; si deduce che la sentenza della Corte d’Appello, in punto di proporzionalità della sanzione inflitta, rispetto alla decisione di prime cure sarebbe “andata in contrario avviso in modo del tutto apodittico ed arbitrario pur senza fornire nessuna specifica confutazione dei concreti elementi di giudizio su cui si era basato il Tribunale”, ignorando altresì “il raffronto con le disposizioni in materia della contrattazione collettiva”;
4. le censure contenute nei motivi richiamati, congiuntamente scrutinabili per chiara connessione in quanto criticano il giudizio sulla proporzionalità della sanzione inflitta, così come espresso dalla Corte territoriale, non meritano condivisione; per risalente tradizione giurisprudenziale questa Corte insegna che il giudizio di proporzionalità tra licenziamento disciplinare e addebito contestato è devoluto al giudice di merito, la cui valutazione non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione sufficiente e non contraddittoria (ex pluribus: Cass. n. 8293 del 2012; Cass. n. 7948 del 2011; Cass. n. 24349 del 2006; Cass. n. 3944 del 2005; Cass. n. 444 del 2003; più di recente v. Cass. n. 509 del 2018 e Cass. n. 26010 del 2018); in seguito all’introduzione del novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c. – che ha escluso il sindacato di legittimità sui vizi motivazionali della sentenza impugnata a meno che non si riscontri l’omesso esame di un fatto decisivo, come rigorosamente inteso dalle Sezioni unite di questa Corte (sent. nn. 8053 e 8054 del 2014), ovvero la violazione del cd. “minimo costituzionale” da denunciare ai sensi del n. 4 dell’art. 360 c.p.c. – è stato precisato che al cospetto della pronuncia sulla giusta causa e sulla proporzionalità del licenziamento, risultando essa il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata la parte ricorrente non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione di detti elementi ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare l’omesso esame di un fatto, ai fini del giudizio di proporzionalità, avente valore decisivo, nel senso che l’elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità (Cass. n. 18715 e 20817 del 2016; Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 1379 del 2019; da ultimo Cass. n. 13064 del 2022, cui si rinvia, ai sensi dell’art. 118, comma 1, disp. att. c.p.c., per ogni ulteriore aspetto); invece la difesa del L. si limita a valorizzare taluni elementi che non sarebbero stati correttamente valutati dai giudici territoriali in luogo di altri, ma nessuno di detti fatti può ritenersi autonomamente decisivo nel senso sopra specificato, sicché le doglianze in proposito, nella sostanza, prospettano, anche laddove denunciano formalmente una violazione di legge, una generica rivisitazione del merito, evidentemente non consentita in questa sede; in definitiva chi ricorre ribadisce che secondo il suo giudizio – che è solo quello personale della parte che vi ha interesse – il fatto addebitato non costituirebbe giusta causa di licenziamento, criticando l’apprezzamento diverso dei giudici d’appello in ordine alla proporzionalità della sanzione, il che tuttavia esula dal controllo di questa Corte, la quale non può sostituire il giudizio di fatto espresso dai giudici al cui dominio è istituzionalmente riservato; non assume valore decisivo anche il mancato riferimento nella sentenza impugnata alla contrattazione collettiva, atteso che, pacificamente, la tipizzazione in essa contenuta non è vincolante, spettando al giudice la valutazione di gravità del fatto e della sua proporzionalità rispetto alla sanzione irrogata dal datore di lavoro (tra molte: Cass. n. 13411 del 2020; Cass. n. 33811 del 2021);
5. pertanto il ricorso deve essere respinto; le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo; ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 4.000,00, oltre euro 200,00 per spese, accessori secondo legge e rimborso spese generali al 15%. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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