CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 aprile 2018, n. 9238
Cartella di pagamento – Contributi, sanzioni e interessi relativi a soci lavoratori di cooperativa – Sussistenza di un appalto illecito – Gestione amministrativa dei rapporti di lavoro affidata all’appaltatore (retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione) – Non rileva – Assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo
Rilevato
Che la sentenza n. 1230 del 2011 della Corte d’appello di Torino ha accolto l’impugnazione proposta dall’Inps contro la sentenza resa dal giudice di primo grado nei confronti della Casa di cura S. s.r.I., con ciò rigettando l’opposizione da quest’ultima proposta contro la cartella di pagamento notificata per conto dell’Istituto previdenziale e riguardante contributi, sanzioni e interessi relativi a nove socie lavoratrici che avevano espletato attività di lavoro in esecuzione dell’appalto formalmente assunto dalla Cooperativa A., sulla base della considerazione dell’erronea valutazione posta in essere dal primo giudice in ordine alla valenza probatoria della testimonianza della capo sala M. e delle dichiarazioni rese dalle lavoratrici sentite in libero interrogatorio, nonché della irrilevanza, ai fini dell’accertamento della fattispecie dell’intermediazione illecita di manodopera, della circostanza che l’appaltatore avesse provveduto alla gestione amministrativa dei rapporti di lavoro;
che contro la sentenza la società propone ricorso per cassazione fondato su quattro articolati motivi illustrati da memoria: 1) violazione e o falsa applicazione degli artt. 115, 421 cod. proc. civ., 1 e 3 I. n. 1369 del 1960 ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ragione dell’accertamento della sussistenza di un appalto illecito in forza della erronea attribuzione di preminente rilevanza probatoria alla testimonianza di M.M. ed alle dichiarazioni rese in sede ispettiva e giudiziaria da quattro socie lavoratrici; 2) violazione degli artt.112, 615 e 617 cod. proc. civ., nullità della sentenza e contraddittorietà della motivazione in ragione del fatto che la sentenza impugnata aveva qualificato come opposizione agli atti esecutivi proposte tardivamente le domande di accertamento dell’invalidità del ruolo 2006/419 e della relativa cartella in quanto formato in pendenza del giudizio di opposizione al ruolo INPS n. 2004/468, nel quale era già iscritto lo stesso credito contributivo;3) insufficiente e o erronea motivazione laddove la sentenza ha respinto la domanda proposta in via di appello incidentale condizionato avente ad oggetto la mancata proposizione da parte dell’INPS e di S.C.C.I. s.p.a. della domanda di condanna al pagamento degli importi iscritti a ruolo ed indicati in cartella; 4) omessa motivazione in ordine al rigetto dell’eccezione sollevata dalla società in ordine alla necessità che la richiesta di condanna al pagamento dei contributi iscritti a ruolo fosse proposta dall’INPS a mezzo domanda riconvenzionale; 5) violazione e o falsa applicazione degli artt. 1180 e 2036 cod. civ. per avere escluso, se ammessa la interposizione illecita, la parziale estinzione del preteso debito contributivo della S. s.r.l. iscritto nel ruolo 2006/419 per effetto dei pagamenti effettuati dalla società cooperativa A.;
che resiste l’Inps con contro ricorso, anche per conto della società di cartolarizzazione dei crediti;
Considerato
che il primo motivo, composto da concorrenti profili riferiti anche al vizio di violazione di legge ma sostanzialmente incentrato sulla critica alle valutazioni probatorie della sentenza impugnata, è infondato;
che laddove la censura investa la valutazione delle risultanze istruttorie (attività regolata dagli artt. 115 e 116 c.p.c.) il relativo vizio può essere fatto valere ai sensi del n. 5 del medesimo art. 360 (Cass. 17/6/2013, n. 15107; Cass. 4/4/ 2013, n. 8315) ed esso deve emergere direttamente dalla lettura della sentenza, non già dal riesame degli atti di causa, inammissibile in sede di legittimità (Cass. 20/6/2006, n. 14267; Cass. 26/3/2010, n. 7394);
Che sul punto la sentenza non contiene alcuna affermazione in contrasto con il principio su indicato: al contrario, la Corte territoriale ha ritenuto provato il rapporto di mera fornitura di manodopera sulla base di tutte le emergenze istruttorie, costituite dalla acquisita prova dell’esercizio del potere direttivo sulle socie lavoratrici della cooperativa A. da parte della committente Casa di Cura S. s.r.l. attraverso non soltanto le risultanze ispettive, ma anche in forza della testimonianza della caposala del reparto di riabilitazione, M.M., che ha esposto le modalità d’esecuzione delle prestazioni lavorative di cui si discute (testimonianza ritenuta di centrale valore probatorio in quanto proveniente da soggetto che aveva avuto modo di conoscere direttamente le circostanze riferite) e che è stata valutata criticamente rispetto alle altre testimonianze;
che nel vigente ordinamento processuale vale il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro (Cass. 19/01/2010, n. 739), per cui anche lì dove la Corte ha ritenuto di negare la valenza probatoria ad alcune dichiarazioni (D.C., M.B. e V.P.), le ragioni del convincimento emergono dall’intero contesto motivazionale, avendo posto a raffronto tali dichiarazioni con le deposizioni rese da M.M. ed avendo la Corte indicato le ragioni della preferenze di queste ultime alle prime;
che, in ogni caso, spetta al giudice di merito, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad essi sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e le circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (v. Cass., 13 giugno 2014, n. 13485; Cass., 10 giugno 2014, n. 13054; Cass., ord., 6 aprile 2011, n. 7921; Cass., 15 luglio 2009, n. 16499; Cass., 5 ottobre 2006, n. 21412; Cass. 15 aprile 2004 n. 7201; Cass. 7 agosto 2003 n. 11933);
che è infondato, in conseguenza di quanto affermato, anche il profilo relativo alla violazione dell’art. 1 L. 23 ottobre 1960, n. 1369 perché il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro opera tutte le volte in cui l’appaltatore metta a disposizione del committente una prestazione lavorativa, rimanendo in capo all’appaltatore datore di lavoro i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto (quali retribuzione, pianificazione delle ferie, assicurazione della continuità della prestazione), senza una reale organizzazione della prestazione stessa, finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, non essendo necessario, per realizzare un’ipotesi di intermediazione vietata, che l’impresa appaltatrice sia fittizia, atteso che, una volta accertata l’estraneità dell’appaltatore all’organizzazione e direzione del prestatore di lavoro nell’esecuzione dell’appalto, rimane priva di rilievo ogni questione inerente il rischio economico e l’autonoma organizzazione del medesimo (Cass. 20/05/2009, n. 11720; Cass. 27/07/2009, n. 17444; Cass. 6/04/2011, n. 7898; Cass. 28/03/2013, n. 7820; Cass. 3/8/2016, n. 16206);
che il secondo motivo è infondato in quanto, va osservato che la non iscrivibilità a ruolo del credito previdenziale — la quale, ai sensi dell’art. 24, comma 3, del d.lgs. 26 febbraio 1999, permane qualora l’accertamento su cui la pretesa creditoria si fonda sia impugnato davanti all’autorità giudiziaria, sino a quando non vi sia il provvedimento esecutivo del giudice – non esonera il giudice dell’opposizione avverso la cartella esattoriale dall’esaminare il merito della pretesa creditoria (cfr. Cass. 6/8/2012, n. 14149;v. Cass., 15/6/2015, n. 12333), con la conseguenza che gli eventuali vizi formali della cartella esattoriale opposta comportano soltanto l’impossibilità, per l’Istituto, di avvalersi del titolo esecutivo, ma non lo fanno decadere dal diritto di chiedere l’accertamento in sede giudiziaria dell’esistenza e dell’ammontare del proprio credito (cfr., Cass. 19/1/2015, n. 774; Cass. 26/11/2011, n. 26395);
che il sistema di tutela giurisdizionale per le entrate previdenziali prevede: la possibilità di proposizione di opposizione al ruolo esattoriale per motivi attinenti al merito della pretesa contributiva ai sensi del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 6, nel termine di giorni quaranta dalla notifica della cartella di pagamento; la proposizione di opposizione ai sensi dell’art. 615 cod. proc. civ. per questioni attinenti non solo alla pignorabilità dei beni, ma anche a fatti estintivi del credito sopravvenuti alla formazione del titolo (quali ad esempio la prescrizione del credito, la morte del contribuente, l’intervenuto pagamento della somma precettata) davanti al giudice del lavoro nel caso in cui l’esecuzione non sia ancora iniziata (art. 615 c.p.c., comma 1) ovvero davanti al giudice dell’esecuzione se la stessa sia invece già iniziata (art. 615 c.p.c., comma 2 e art. 618 bis cod. proc. civ.); la proposizione di una opposizione agli atti esecutivi ai sensi dell’art. 617 cod. proc. civ., ovverosia “nel termine perentorio di venti giorni dalla notifica del titolo esecutivo o del precetto” per i vizi formali del titolo ovvero della cartella di pagamento, anche in questo caso davanti al giudice dell’esecuzione o a quello del lavoro a seconda che l’esecuzione stessa sia già iniziata (art. 617 c.p.c., comma 2) o meno (art. 617 c.p.c., comma 1);
che tanto si ricava sia dalla formulazione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, comma 6, sia dal medesimo D. Lgs. n. 46 del 1999, art. 29, comma 2.;
che, quindi, il debitore ben può proporre l’opposizione agli atti esecutivi secondo la disciplina del codice di rito e, in particolare, secondo gli art. 618 bis e 617 (cfr. Cass. 18 novembre 2004 ed in senso conforme Cass. 8 luglio 2008, n. 18691 secondo cui: “Nella disciplina della riscossione mediante iscrizione a ruolo dei crediti previdenziali, di cui al D. Lgs. n. 46 del 1999, l’opposizione agli atti esecutivi – con la quale si fanno valere i vizi di forma del titolo esecutivo, ivi compresa la carenza di motivazione dell’atto – è prevista dall’art. 29, comma 2, che per la relativa regolamentazione rinvia deforme ordinarie, e non dall’art. 24 dello stesso D. Lgs., che si riferisce, invece, all’opposizione sul merito della pretesa di riscossione”);
che, rimasta isolata la decisione di Cass. 14963 del 2012 richiamata dalla ricorrente nella memoria, si è consolidato il diverso orientamento – cui si vuole dare continuità – secondo il quale è possibile che con un unico atto vengano esperite entrambe le azioni a condizione che l’opposizione agli atti esecutivi risulti proposta nel termine di venti giorni dalla notifica della cartella (vd. al riguardo, Cass. 24 ottobre 2008, n. 25757; Cass. 28 novembre 2003, n. 18207; Cass. 15116 del 2015), sicchè risultando, nella specie, dalla stessa sentenza impugnata che il termine più breve previsto per l’opposizione di cui all’art. 617 cod. proc. civ. non era stato rispettato, va ritenuta corretta la delibazione di tardività delle doglianze ascritte a tale tipo di opposizione; che il terzo motivo è infondato in quanto l’opposizione alla cartella esattoriale introduce un ordinario giudizio di cognizione avente ad oggetto il rapporto previdenziale, sicché, anche in ipotesi di illegittima iscrizione a ruolo dei crediti, l’INPS, pur non potendo più avvalersi del suddetto titolo esecutivo, può chiedere- come nel caso di specie- la condanna al corrispondente adempimento nel medesimo giudizio, senza che ne risulti mutata la domanda (Cass. 3486 del 2016) e senza necessità di proporre quindi domanda riconvenzionale e ciò in quanto (v. Cass. n. 13982/07), la cartella esattoriale costituisce non un atto amministrativo, ma un atto della procedura di riscossione del credito (i cui motivi sono già stati indicati e la cui liquidazione è già stata effettuata nei verbali di accertamento redatti dagli ispettori e notificati alle parti) per cui se all’esito del giudizio di opposizione il credito contributivo viene accertato in misura inferiore a quella azionata dall’istituto, il giudice deve non già accogliere sic et simpliciter l’opposizione, ma condannare l’opponente a pagare la minor somma; che è fondato l’ultimo motivo di ricorso, posto che risulta dagli atti di causa, e in particolare dal ricorso introduttivo del giudizio di primo grado e dalla memoria difensiva con appello incidentale, debitamente trascritti nel ricorso per cassazione in osservanza del principio di specificità e autosufficienza dei motivi, che la ricorrente ha reiterato la richiesta di parziale estinzione del credito iscritto a ruolo 2006/419 e questa Corte ha avuto modo di affermare il principio secondo cui, in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, non è configurabile una obbligazione concorrente del datore di lavoro apparente per i contributi dovuti agli enti previdenziali, fatta salva l’incidenza satisfattiva dei pagamenti eventualmente eseguiti da terzi, ai sensi dell’art. 1180, comma 1, c.c., ovvero dallo stesso datore di lavoro fittizio, senza che assuma rilievo la consapevolezza dell’altruità del debito, atteso che, in caso di indebito soggettivo, anche il pagamento effettuato per errore è qualificabile, in forza del coordinamento tra gli artt. 1180 e 2036 c.c., come pagamento di debito altrui, con efficacia estintiva dell’obbligazione in presenza delle condizioni di cui all’art. 2036, comma 3, c.c. (Cass. 23844 del 2011; n. 17516 del 2015; n. 19030 del 2017);
che a tale orientamento questa Corte ritiene di aderire ed il giudice del rinvio dovrà attenersi al principio di diritto di cui al punto che precede;
che il ricorso deve, dunque, essere accolto limitatamente al quinto motivo e la sentenza deve essere cassata con rinvio ad altro giudice d’appello per l’esame dell’eccezione di compensazione proposta dalla ricorrente;
che il giudice del rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio ai sensi dell’art. 385 cod. proc. civ.
P.Q.M.
Rigettati gli altri motivi, accoglie il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia alla Corte d’appello di Torino, in diversa composizione, che regolerà anche le spese del presente giudizio di legittimità,
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