CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 13 giugno 2019, n. 15962
Lavoro – Partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare – Criteri di determinazione
Rilevato che
La Corte d’appello di Palermo, in parziale riforma della pronuncia di primo grado, condannava C.G. al pagamento in favore di R.G. e di M.G., della somma di euro 6.880,10 a titolo di quota dell’utile prodotto dall’impresa familiare nell’anno 1998 e non distribuito, oltre all’importo rivalutato di euro 107.205,59 a titolo di quota parte dell’incremento aziendale accertato al 31/12/1998. A fondamento del decisum ed in estrema sintesi, la Corte distrettuale deduceva che il quadro probatorio delineato in prime cure evidenziava il conferimento di un contributo paritario da parte dei fratelli R. e M. e condivideva la statuizione del giudice di prima istanza con la quale erano stati suddivisi nella misura di un terzo ciascuno, sia il reddito di impresa che gli incrementi patrimoniali nel tempo acquisiti.
Argomentava poi che una corretta lettura dei dettami di cui all’art. 230 bis nel cui ambito la vicenda scrutinata andava sussunta, consentiva di ritenere che la partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare – diversamente da quanto osservato dal giudice di prima istanza che aveva applicato un criterio “onnicomprensivo” – andavano determinati in base agli utili non ripartiti al momento della sua cessazione, nonché dell’accrescimento a tale data, della produttività dell’impresa (beni acquistati con gli utili, incrementi d’azienda…) in proporzione alla qualità e quantità del lavoro prestato ed era condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda; con la conseguenza che nella specie, gli utili destinati a rafforzare il patrimonio dell’impresa, poiché consumati alla data del 31/12/1998, non costituivano più un credito monetizzabile in capo ai singoli compartecipi. La Corte di merito detraeva altresì dalla quota paritaria spettante agli appellati, l’importo degli stipendi concordati tra i fratelli in seno alla scrittura inter partes del 1994 “con pattuizione negoziale che, isolata dal contesto della convenzione societaria viziata da nullità, conserva autonoma validità come modalità di attribuzione a scopo di mantenimento dei paciscenti, del tutto compatibile con la ratio dell’impresa familiare”.
Avverso tale decisione M. e R.G. interpongono ricorso per cassazione sostenuto da quattro motivi.
V.M., quale erede dell’intimato C.G., ha depositato procura speciale e successivamente memoria.
Considerato che
1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata nullità della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 c.p.c.
Si critica la pronuncia impugnata per avere ritenuto detraibili dalla quota di partecipazione agli utili dell’impresa familiare, gli utili reimpiegati nell’azienda o in acquisti di beni, sul rilievo che l’atto di appello non recava alcuna censura alla sentenza di primo grado sotto il profilo evidenziato dal giudice del gravame, la cui pronuncia era da ritenersi viziata per ultrapetizione.
2. Il secondo motivo prospetta violazione o falsa applicazione dell’art. 230 bis c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si censura l’interpretazione resa della disposizione codicistica da parte della Corte distrettuale laddove ha ritenuto che gli utili che al momento della cessazione del rapporto con il collaboratore siano stati consumati, non possono essere più corrisposti all’avente diritto – sul rilievo che la lettera e la ratio della norma non autorizzino siffatta interpretazione, non condizionando in alcun modo la percezione della ripartizione degli utili, alla permanenza dei relativi fondi nella contabilità societaria.
3. I motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, non sono fondati.
Ed invero, secondo i principi affermati da questa Corte, che vanno qui ribaditi, in tema di giudizio di appello, il principio della corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, come il principio del “tantum devolutum quantum appellatum”, non osta a che il giudice renda la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti, ovvero in base alla qualificazione giuridica dei fatti medesimi ed all’applicazione di una norma giuridica diverse da quelle invocate dall’istante (vedi ex plurimis, Cass. 11.1.2019 n. 513, Cass. 25.9.2009 n. 20652), incontrando detto potere il solo limite del rispetto dell’ambito delle questioni proposte, di talchè risultino immutati il “petitum” e la “causa petendi”, in assenza di introduzione nel thema decidendum di nuovi elementi di fatto.
Nello specifico, i motivi di gravame proposti da C.G. avverso la pronuncia di prime cure, erano comunque intesi a conseguire una “riduzione della condanna pecuniaria disposta in primo grado” (v. pag. 9 ricorso per cassazione), con riferimento – fra l’altro – al contributo qualitativo e quantitativo apportato dai fratelli, alla non corretta mancata detrazione degli stipendi dagli stessi percepiti, all’utilizzo dei beni aziendali, alle modalità di computo degli utili da ripartire come definiti della convenzione inter partes del 1994.
Nell’ottica descritta, permanendo entro i confini del thema decidendum, l’adita Corte ha proceduto ad una definizione della nozione di partecipazione agli utili per la collaborazione prestata nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230bis c.c., affermando, con statuizione conforme a diritto, che la stessa va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con gli utili, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. E’ infatti principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, e che va qui ribadito, quello in base al quale la quota di partecipazione è condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che gli stessi utili in assenza di un patto di distribuzione periodica (in questa sede neppure dedotto), non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti tra i partecipanti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni (ex plurimis, vedi Cass. 8.3.11, n. 5448; Cass. 16.3.16, n. 5224).
Corollario di quanto sinora detto è che l’accertamento disposto dalla Corte di merito non esorbita dai confini delle censure formulate, inverando l’introduzione di nuovi elementi di fatto idonei a modificare gli elementi costitutivi della domanda, ma si è tradotto in una corretta interpretazione dell’atto di gravame, e nell’applicazione, conforme a diritto, dei principi che governano la ripartizione degli utili tra i partecipanti all’impresa familiare secondo i dettami di cui all’art. 230 bis nell’interpretazione resa da questa Corte nei citati arresti.
Il giudice del gravame ha, dunque, emesso un provvedimento coerente a quanto richiesto dalla parte nè ha interferito con il potere dispositivo ad essa devoluto, alterando taluno degli elementi di identificazione dell’azione od eccedendo i limiti della richiesta od eccezione (Cass., 21.3.2008, n. 7697); onde la relativa statuizione resiste alle censure all’esame.
4. Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 230 bis c.p.c.
Ci si duole che il giudice del gravame abbia detratto gli stipendi concordati tra i fratelli in base alla scrittura inter partes del 1994, dall’ammontare annuo degli utili ripartibili, attribuendo l’art. 230 bis c.c. al familiare collaboratore nell’impresa, il diritto al mantenimento e, separatamente da esso, il diritto alla quota di liquidazione degli utili oltre che degli incrementi, da percepire al momento della cessazione del rapporto. Si argomenta, quindi, che la liquidazione degli utili non va depurata da eventuali compensi pattuiti in favore dei partecipanti all’impresa, in mancanza di alcuna espressa previsione normativa al riguardo.
5. Il motivo è fondato.
Occorre premettere che il legislatore – nell’evidente intendimento di rafforzare il vincolo familiare nello sviluppo dell’idea della famiglia come comunità e nell’apprestamento di una tutela minima e inderogabile a quei rapporti di comune lavoro nell’ambito degli aggregati familiari (in passato ricondotti ad una causa affectionis vel benevolentiae, o ad un contratto innominato di lavoro gratuito: Cass. 9.6.1983, n. 3948), in una sorta di istituto intermedio tra il rapporto di lavoro subordinato e di società (senza tuttavia essere, in senso tecnico, né l’uno né l’altro) del tutto peculiare ed autonomo (Corte cost. 15.11.1993, n. 419) – abbia concepito l’impresa familiare (art. 230 bis c.c.) come quella in cui collaborino il coniuge, i parenti entro il terzo grado e gli affini entro il secondo, per tali intesi i familiari che prestino la loro attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa appunto familiare (art. 230 bis, primo e terzo comma c.c.).
Detta disposizione, introdotta dalla riforma del diritto di famiglia con l’art. 89 L. 19 maggio 1975, n. 151, è da ritenersi norma di chiusura della disciplina dei rapporti patrimoniali, che, come si evince dall’incipit dell’art. 230bis c.c. “salvo sia configurabile un diverso rapporto”, prefigura l’istituto dell’impresa familiare come autonomo, di carattere speciale, ma non eccezionale, e di natura residuale rispetto ad ogni altro rapporto negoziale eventualmente configurabile.
L’impresa appartiene poi, soltanto al suo titolare, creando fra i partecipanti un rapporto meramente interno, di natura obbligatoria, per la qualificazione dei loro diritti economici alla stregua di diritti di credito nei confronti del titolare medesimo (in questi sensi in motivazione, vedi Cass. 13.10.2015 n. 20552).
In particolare, secondo la linea ermeneutica definita dalla giurisprudenza di questa Corte e qui condivisa, i collaboratori familiari concorrono con l’imprenditore alla ripartizione degli utili in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato (con specifico riferimento ai criteri di determinazione, sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa: Cass. 8.3.2011, n. 5448; Cass. 8.4.2015, n. 7007), tenuto conto delle spese di mantenimento, pure gravanti sul familiare che esercita l’impresa, pertanto da detrarre, e restando a carico del partecipante che agisca per il conseguimento della propria quota l’onere di provare la consistenza del patrimonio familiare e l’ammontare degli utili da distribuire (Cass. 23.6.2008, n. 17057).
La disposizione che disciplina l’istituto reca, infatti, una previsione “binaria” dei diritti spettanti ai familiari partecipanti che prestino in modo continuativo la attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare: quello al mantenimento, che si protrae durante lo svolgimento del rapporto; quello alla partecipazione agli utili ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi dell’azienda, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, che sorge al momento della cessazione dell’impresa familiare o al momento della cessazione della partecipazione.
Come rilevato in dottrina, l’art. 230 bis, in sostanziale assonanza con il principio di adeguatezza ex art. 36 Cost., istituisce una tutela comunque rispondente al livello economico della comunità, indipendentemente dalla qualità e quantità del lavoro svolto, scomponendosi in due proposizioni: una destinata ad assicurare un minimum di carattere eminentemente assistenziale e l’altra avente ad oggetto una effettiva compartecipazione dei componenti agli utili prodotti.
E’ stato, quindi, sostenuto che degli oneri di mantenimento, il titolare dell’impresa familiare debba farsi carico con priorità rispetto alla ripartizione degli utili e degli incrementi, in considerazione del rilievo preminente spettante alle esigenze esistenziali rispetto a quelle meramente utilitaristiche.
Nell’ottica descritta, la statuizione della Corte distrettuale che ha detratto l’ammontare degli stipendi concordato fra le parti nella scrittura del 1994, dagli utili da ripartire tra i familiari compartecipi della attività d’impresa, non risulta coerente con i dettami della normativa richiamata secondo l’interpretazione in questa sede patrocinata, che esclude la detraibilità dagli utili da ripartire, delle somme destinate al mantenimento dei familiari, considerando l’autonomia del diritto alla quota di utili dell’impresa familiare rispetto al diritto al mantenimento del partecipante all’impresa medesima (vedi Cass. 2.4.1992 n. 4057).
Alla stregua delle sinora esposte considerazioni, il motivo deve essere accolto con assorbimento della quarta doglianza, successiva in ordine logico, con la quale si è denunciato l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione fra le parti, relativo alla mancata dimostrazione in atti della avvenuta percezione degli stipendi da parte dei ricorrenti.
La sentenza impugnata va pertanto cassata in relazione alla censura accolta, e la causa rinviata alla Corte distrettuale designata in dispositivo – cui è rimessa anche la regolazione delle spese inerenti al presente giudizio – la quale procederà alla delibazione della questione devoluta, attenendosi ai principi innanzi enunciati.
P.Q.M.
accoglie il terzo motivo di ricorso, rigetta i primi due, assorbito il quarto; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, alla Corte d’Appello di Palermo in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
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