CORTE di CASSAZIONE, sezione lavoro, ordinanza n. 3266 depositata il 5 febbraio 2024
Lavoro – Collaborazione nell’impresa familiare – Incremento aziendale e partecipazione agli utili – Collaboratore in impresa agricola del genitore – Criterio di determinazione della quota di partecipazione del familiare in base alla quantità e qualità del lavoro svolto – Calcolo del valore complessivo iniziale e finale dell’azienda – Rigetto
Rilevato che
1. il Tribunale di Ancona, in funzione di giudice del lavoro, condannava M.F. a pagare al figlio M. F. la somma di € 122.274,48, oltre accessori, a titolo di quota di partecipazione agli utili ed all’incremento aziendale nella misura del 35% ex art. 230-bis c.c. quale collaboratore nell’impresa agricola del genitore nel periodo maggio 1989 – ottobre 2005;
2. la Corte d’Appello di Ancona, decidendo sull’appello principale del padre e su quello incidentale del figlio, disposta nuova CTU, in parziale accoglimento dell’appello incidentale, rideterminava la quantificazione della somma dovuta, tenuto conto di acconto di € 64.533,69 già versato, in € 134.966,31;
3. in particolare, la Corte distrettuale osservava che:
– secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità, il diritto del familiare collaboratore alla partecipazione agli utili ed agli incrementi dell’impresa familiare è da valutare in modo unitario e da quantificare in base alla quantità e alla qualità dell’apporto prestato;
– il diritto di partecipazione all’incremento del valore dell’azienda si quantifica utilizzando come dividendo la differenza tra il valore iniziale dell’azienda nel momento dell’inizio della collaborazione e il valore finale dell’azienda nel momento della cessazione della collaborazione, e come divisore l’entità del lavoro del collaboratore espresso in percentuale e ragguagliato alla quantità e qualità dell’apporto medesimo;
– ai fini del calcolo del valore iniziale dell’azienda si somma il valore di tutti i beni in essa presenti alla data dell’inizio della collaborazione sulla base del loro valore di mercato nel contesto socioeconomico in cui opera l’azienda, non rilevando il fatto che tali beni siano stati acquistati in epoca precedente, né che siano stati ottenuti con proventi diversi dagli utili conseguiti in data anteriore;
– nel caso concreto, non escludeva la sussistenza di una collaborazione nell’impresa familiare la circostanza che il figlio svolgesse nel medesimo periodo anche attività di musicista;
– erano da recepire le conclusioni dell’ausiliare nominato in appello, che aveva calcolato in € 570.000 l’incremento patrimoniale dell’azienda nel periodo da giugno 1989 a ottobre 2005; valutata la misura della partecipazione all’impresa familiare del padre in quanto titolare non inferiore al 51%, quella da attribuire agli apporti della moglie e della figlia nel 7% ciascuna, la misura della partecipazione del figlio era da confermare, come in primo grado, nella misura del 35%;
4. avverso la sentenza d’appello ricorre M.F. con 5 motivi di ricorso; resiste con controricorso M. F.; entrambe le parti hanno comunicato memorie;
al termine della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell’ordinanza;
Considerato che
1. con il primo motivo, parte ricorrente deduce (art. 360, n. 3, c.p.c.) violazione o falsa applicazione dell’art. 230-bis c.c., per avere la Corte d’Appello ritenuto che nel “dividendo” rientrino anche i beni acquistati prima dell’inizio della collaborazione e per avere errato nell’interpretazione del lemma “incrementi”, includendovi l’aumento di valore degli immobili senza verificare la sua effettiva derivazione da reinvestimento di utili;
2.il motivo non è fondato;
3.la ratio della disciplina dell’impresa familiare regolata dalla disposizione di cui all’art. 230-bis c.c. risiede nella tutela dei familiari-collaboratori continuativamente in essa impegnati, attraverso il riconoscimento di diritti di ordine economico esercitabili durante la vita economica dell’impresa e al momento della cessazione dalla partecipazione per qualsiasi causa o del trasferimento dell’impresa;
4.in quest’ottica, la partecipazione agli utili per la collaborazione nell’impresa familiare, ai sensi dell’art. 230-bis c.c., va determinata sulla base degli utili non ripartiti al momento della sua cessazione o di quella del singolo partecipante, nonché dell’accrescimento, a tale data, della produttività dell’impresa (“beni acquistati” con essi, “incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento”) in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato ed è, quindi, condizionata dai risultati raggiunti dall’azienda, atteso che i proventi – in assenza di un patto di distribuzione periodica – non sono naturalmente destinati ad essere ripartiti ma al reimpiego nell’azienda o in acquisti di beni; la quota spettante al familiare partecipante al momento della cessazione, che va determinata esclusivamente sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto nell’impresa, è relativa nella stessa misura tanto agli utili che agli incrementi, siano essi materiali o immateriali; poiché il criterio di determinazione della quota di partecipazione del familiare è quello della quantità e qualità del lavoro svolto dal familiare-collaboratore nella gestione dell’impresa e non della sua effettiva incidenza causale sul conseguimento degli utili ed incrementi, che rappresentano soltanto l’effetto e non la misura dell’attività svolta, una volta cessata l’impresa familiare la liquidazione della quota spettante al familiare che vi ha collaborato deve avere per dividendo gli utili, i beni acquistati con essi e gli incrementi e per divisore (unico) la quantità e qualità del lavoro prestato (così Cass. n. 5224/2016, n. 27108/2017, richiamate nella sentenza impugnata che dei principi suddetti ha fatto coerente applicazione);
5. è stato di recente ulteriormente chiarito (Cass n. 1401/2021) che, in tema di impresa familiare, la quota di partecipazione agli utili e agli incrementi del familiare va determinata sulla base della quantità e qualità del lavoro svolto dal predetto, e non della sua effettiva incidenza causale sul loro conseguimento, in relazione al valore complessivo dell’impresa che si connota come entità dinamica soggetta a variazioni in funzione dell’andamento del mercato; ne deriva che, nella liquidazione della quota del familiare al momento della cessazione, va inclusa anche la rivalutazione di un fattore della produzione riferibile a cause estranee all’attività svolta dal partecipante, che si sia tradotto in un aumento di redditività dell’impresa medesima, ed analogamente i fattori di decremento dei beni che abbiano riflessi sulla produttività (in applicazione di tale principio, la S.C. ha cassato la decisione di merito che aveva espunto dal calcolo della quota l’aumento di valore di mercato degli immobili imputabile all’introduzione della moneta unica); infatti, anche qualora l’aumento di valore degli immobili utilizzati nell’esercizio della impresa familiare non sia frutto del reinvestimento in azienda di utili conseguiti e non distribuiti in senso stretto, tuttavia l’aumento di valore degli immobili può assumere rilievo, ai fini della concreta determinazione delle spettanze del familiare, in quanto si sia tradotto in un generale fattore di accrescimento del valore dell’impresa unitariamente considerata ed in definitiva in una maggiore redditività della stessa;
6. alla luce della così riassunta ricostruzione dell’istituto, cui la Corte di merito si è conformata, la doglianza del ricorrente in ordine a preteso errore nel calcolo del valore complessivo iniziale e finale dell’azienda (con considerazione anche dei beni acquistati prima dell’inizio della collaborazione del figlio e dei beni acquistati con proventi diversi dagli utili) risulta, invece, in contrasto con i richiamati approdi della giurisprudenza di legittimità, dai quali non vi sono motivi per discostarsi;
7. con il secondo motivo, il ricorrente deduce (art. 360, n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza per motivazione inesistente o comunque apparente sulla stima del patrimonio immobiliare, per avere la Corte d’Appello ritenuto corretto il criterio di valutazione del valore del patrimonio immobiliare utilizzato dal CTU (informazioni presso gli operatori agricoli della zona);
8. con il terzo motivo, il ricorrente deduce (art. 360, n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza per vizio di ultra-petizione in violazione dell’art. 112 c.p.c., per avere la Corte d’Appello disposto una nuova CTU in assenza di censure delle parti circa i criteri di valutazione per la valutazione dei beni aziendali utilizzati dal CTU in primo grado (Valori Agricoli Medi – V.A.M., anziché valutazione di mercato come in secondo grado);
9. con il quarto motivo, il ricorrente deduce (art. 360, n. 4, c.p.c.) nullità della sentenza per motivazione parziale ed apparente in ordine alla percentuale del contributo fornito dall’odierno controricorrente all’impresa familiare, sostenendo omessa valutazione della qualità della prestazione lavorativa offerta;
10. il secondo ed il quarto motivo sono ammissibili;
11. non sono, infatti, apprezzabili nella motivazione della sentenza impugnata le prospettate nullità procedimentali;
poiché il motivo di ricorso per cassazione di cui all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., attiene a errores in procedendo, eventuali doglianze relative all’inesistenza o all’apparenza della motivazione devono essere formulate attraverso il motivo di ricorso di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, nei limiti a sua volta di ammissibilità del medesimo, altrimenti finendo, come nel caso in esame, con il richiedere, nella sostanza, una nuova valutazione del materiale probatorio, così formulando una richiesta non accoglibile in sede di legittimità (cfr. Cass. S.U. n. 17931/2013, Cass. n. 10862/2018); d’altra parte, il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del cd. minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost. (Cass. S.U. nn. 8053 e 8054/2013);
12. le questioni oggetto dei motivi in esame (criteri di valutazione del patrimonio immobiliare, valutazione percentuale dell’apporto quali-quantitativo del collaboratore familiare) sono squisitamente di merito, e la Corte territoriale ha spiegato sinteticamente, ma in modo logico e congruo, le ragioni delle proprie statuizioni in proposito, non riesaminabili in questa sede, che non è un terzo grado di merito;
13. il terzo motivo non è fondato;
14. ricorre il vizio di ultra- o extra-petizione quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato), oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass. n. 30060/2023, n. 20932/2019, n. 8048/2019);
15. nel caso di specie, la Corte di merito non si è pronunciata oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni fatte valere dalle parti, ovvero su questioni estranee all’oggetto del giudizio e non rilevabili d’ufficio; ha ritenuto necessario procedere ad una nuova CTU per quantificare gli utili e gli incrementi dell’impresa familiare, dato che le risultanze circa la consistenza patrimoniale operate dal consulente nominato in primo grado erano state oggetto di discussione tra le parti, e ha recepito criticamente le risultanze della CTU come rinnovata, argomentando puntualmente in ordine alle ragioni per le quali l’ha ritenuta condivisibile (segnatamente specificando le ragioni per la quale ha ritenuto maggiormente adeguato, in concreto, il criterio di valutazione della c.d. rilevanza commerciale per la stima dei beni piuttosto che il criterio dei V.A.M., utilizzato, invece, dal perito nominato in primo grado);
16. ciò nell’ambito dell’esercizio, da parte del giudice di appello, del potere di disporre o rinnovare le indagini tecniche attraverso l’affidamento di consulenze, potere discrezionale (purché motivato) per cui non opera il limite all’ammissione di nuovi mezzi di prova ex art. 345, terzo comma, c.p.c., (cfr. Cass. n. 15945/2017, n. 13343/2000, n. 5139/1999);
17. con il quinto motivo, il ricorrente deduce (art. 360, n. 5, c.p.c.) omesso esame del fatto che lo stesso figlio, nel ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, aveva attribuito al padre una partecipazione all’impresa familiare nella misura del 55%, anziché del 51% come indicato nella sentenza impugnata;
18. il motivo non è ammissibile, per il principio della cd. doppia conforme e per difetto di decisività;
19. ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c., quando la pronuncia di appello conferma la decisione di primo grado per le stesse ragioni, inerenti ai medesimi fatti posti a base della decisione impugnata, il ricorso per cassazione può essere proposto esclusivamente per i motivi di cui all’art. 360, primo comma, nn. 1), 2), 3), 4), c.p.c.; il ricorrente in cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774/2016; conf. Cass. n. 20994/2019, n. 8320/2021, n. 5947/2023), tenendo conto che ricorre l’ipotesi di «doppia conforme», con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado è interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (v. Cass. n. 29715/2018, n. 7724/2022, n. 5934/2023, n. 26934/2023);
20. la questione di fatto su cui si è costituita la duplice conformità di merito riguarda la quantificazione della percentuale del contributo del figlio originario ricorrente all’impresa familiare nel periodo, stimata nella misura del 35%, tanto dal Tribunale quanto dalla Corte d’Appello; rispetto a tale percentuale (inferiore a quella originariamente richiesta), rimane non rilevante nel presente giudizio la distribuzione della residua percentuale di contributo del padre odierno ricorrente e di moglie e figlia di questi, che non incide direttamente sull’oggetto del giudizio, concernente la sola liquidazione della quota del figlio;
21. alla stregua delle argomentazioni esposte il ricorso deve essere respinto nel suo complesso;
22. le spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza;
23. parte ricorrente è, inoltre, tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio, che liquida in € 5.500 per compensi, € 200 per esborsi, spese generali al 15%, accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto