CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 15 novembre 2021, n. 34315

Tributi – Accertamento – Frode carosello – Onere dell’Ufficio di provare, anche attraverso elementi presuntivi, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto sapere che partecipava ad una operazione che si inseriva in una frode IVA

Fatti di causa

A seguito di una verifica fiscale eseguita dalla Direzione Regionale della Sicilia dell’Agenzia delle Entrate, conclusa con processo verbale di constatazione – attraverso il quale era emerso che la ditta A. di A. M. aveva acquistato autoveicoli nel corso dell’anno 2008 per l’importo di euro 290.750,00 con conseguente Iva pari ad euro 58.149,00 dalle ditte S. C. Srl e L. S., che erano risultate inesistenti e cioè operatori fittizi sprovvisti di mezzi finanziari e di beni patrimoniali di alcun genere e che non avevano mai presentato le dichiarazioni dei redditi e non avevano effettuato alcun versamento di imposta ed inoltre operavano attraverso meccanismi evasivi consistenti nell’interposizione fittizia nelle transazioni commerciali onde fare ricadere su tali soggetti gli obblighi IVA connessi ad operazioni intracomunitarie, obblighi che poi non venivano adempiuti – la Agenzia delle Entrate accertò a carico del sig. A. M., esercente l’attività di commercio di autoveicoli, per l’anno 2008, ai fini della imposizione diretta e dell’IRAP, un reddito imponibile di euro 302.911,00, a fronte di un reddito dichiarato di euro 12.161,00 ed una maggiore IVA di euro 58.149,00.

L’accertamento fu impugnato dal contribuente sostenendo che le ditte venditrici erano reali e che peraltro i costi sostenuti dal ricorrente per l’acquisto delle vetture erano deducibili ai fini delle imposte sui redditi e che, anche ammesso che i fornitori fossero inesistenti, ciò non pregiudicava in ogni caso il diritto del ricorrente a detrarre l’IVA pagata a monte, ma la Commissione Tributaria Provinciale di Trapani, con sentenza n. 354/2/2016, benchè nel frattempo la Agenzia delle Entrate avesse provveduto ad annullare in autotutela parziale i rilievi ai fini delle imposte sui redditi e dell’IRAP, dichiarò improcedibile il ricorso poiché la documentazione prodotta in giudizio dal ricorrente era “copiosa e confusa”, senza alcun riferimento ai motivi dedotti in ricorso.

L’appello proposto dal contribuente — con cui fu dedotto che la documentazione era pertinente e che il ricorso era procedibile ed altresì fondato con riguardo ai motivi di illegittimità dell’accertamento già proposti in primo grado — fu accolto dalla Commissione Tributaria Regionale della Sicilia, con sentenza n. 80/01/2019, depositata in data 10 gennaio 2019. La CTR, premesso che il ricorso iniziale era procedibile in quanto i documenti prodotti dal contribuente, esplicitamente indicati e numerati, fra cui la sentenza penale di assoluzione dai reati fiscali, erano tutt’altro che confusi e dovevano essere presi in esame dal giudice, lo ritenne altresì fondato nel merito poiché, alla stregua di alcune pronunce della Corte di Cassazione del 2011 e del 2014 e della giurisprudenza comunitaria, nelle cd. “frodi carosello” spettava all’Ufficio dimostrare, sia pure con presunzioni semplici, purchè gravi precise e concordanti, non solo la natura di “cartiera” della ditta fornitrice, ma anche la esistenza di elementi obiettivi tali da porre sull’avviso qualsiasi imprenditore mediamente esperto sulla inesistenza sostanziale del contraente, il  quale avrebbe dovuto rilevarla per il dovere di accortezza e di diligenza insito nell’esercizio di una attività imprenditoriale e commerciale qualificata, mentre nella specie l’Ufficio non aveva assolto al proprio onere probatorio poiché non sussistevano elementi probatori, sia pure di natura indiziaria, idonei a sorreggere la tesi degli accertatori in ordine alla consapevolezza del contribuente di partecipare ad una operazione che si iscriveva in una frode IVA, in presenza di operazioni riconosciute oggettivamente effettive dallo stesso Ufficio che ne aveva ammesso la detraibilità e comprovate dal pagamento delle fatture e dalla consegna della merce ed inoltre in sede penale M. A. era stato assolto dal tribunale di Trapani con sentenza irrevocabile dal corrispondente reato fiscale per l’anno 2008 per insufficienza degli elementi acquisiti e con sentenza non definitiva per gli anni 2005, 2006 e 2007, non essendo stata “rinvenuta alcuna documentazione comprovante l’esistenza di contatti tra la A. dell’A. ed i fornitori stranieri”.

La Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione, con atto notificato per mezzo pec in data 3 luglio 2019, affidato a due motivi. Ha resistito il contribuente con controricorso e successiva memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo la Agenzia delle Entrate ricorrente si duole, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cpc, di violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cpc e degli artt. 654 cpp e 7 del D. Lgs. n. 546 del 1992 per avere la sentenza impugnata erroneamente fondato la propria decisione anche sulla assoluzione del contribuente in sede penale dal reato tributario ascrittogli, benchè nel giudizio tributario non possa essere attribuita alcuna efficacia vincolante alla sentenza penale fosse pure in giudicato, ancorchè i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali la amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, potendo invece il giudice tributario soltanto procedere ad un apprezzamento critico del contenuto della decisione penale, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere probatorio nel giudizio tributario, ponendo a confronto la pronuncia penale con gli altri elementi di prova acquisiti nel giudizio e verificandone la rilevanza nell’ambito specifico in cui essa è destinata ad operare; il che nella specie non era avvenuto, avendo il giudice d’appello acriticamente assunto l’esistenza stessa della pronuncia assolutoria come elemento tale da escludere la fondatezza degli accertamenti impugnati nel giudizio.

2. Con il secondo motivo lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 8, comma 1, del dl. n. 16 del 2012, dell’art. 17 della Direttiva n. 77/288/CEE, dell’art. 19 del Dpr n. 633 del 1972, nonché dell’art. 2697 c.c. alla luce del principio, derivante dalla giurisprudenza interna e comunitaria per cui il cessionario, ai fini dell’esercizio del diritto alla detrazione, ha l’onere di provare non solo la propria estraneità alla frode, ma anche la totale inconsapevolezza della falsità delle fatture; il che non era avvenuto nel caso in esame, onde la piena legittimità dell’accertamento, non essendo sufficiente il fatto che le operazioni fossero effettivamente avvenute e che le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, apparissero regolari.

3. E’ preliminare l’esame del secondo motivo di ricorso poiché aggredisce la sostanziale ratio decidendi della sentenza impugnata con riguardo alla regola iuris di divisione dell’onere della prova nelle cd. frodi carosello in cui rientra il caso in esame.

3.1. La Agenzia ricorrente assume sul punto, sotto il profilo della violazione di legge, la violazione, da parte della sentenza impugnata, della regola di divisione dell’onere probatorio, il che astrattamente potrebbe essere inquadrato nel vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3, cpc., il quale, in tema di ricorso per cassazione, consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 24054 del 12/10/2017 Rv. 646811 —01; Sez. L, Sentenza n. 16698 del 16/07/2010 Rv. 614588 — 01), come nel caso in cui si lamenta, con riguardo alle operazioni ritenute tassabili ai fini delle imposte dirette o da assoggettare ad IVA da parte dell’Ufficio, la violazione o la erronea applicazione della regola che ne disciplina la prova e la divisione dell’onere probatorio, ancor prima ed indipendentemente dalla ricostruzione della fattispecie concreta che spetta esclusivamente al giudice di merito, in assenza, quindi, della mediazione derivante dalla valutazione delle risultanze di causa.

3.2. La ricorrente sostiene, sotto tale profilo, che la sentenza impugnata avrebbe violato, appunto, la regola sulla divisione dell’onere probatorio, in materia di “frodi carosello”, poiché avrebbe addossato all’Agenzia delle Entrate un onere probatorio che spettava invece – in  caso di cessioni poste realmente in essere, ma per le quali l’Amministrazione finanziaria abbia contestato, anche in base ad elementi presuntivi, l’inesistenza del cedente sotto il profilo soggettivo e la partecipazione del cessionario alla frode – al cessionario, il quale aveva l’onere di provare non solo la propria estraneità alla frode ma anche la totale  inconsapevolezza della falsità delle fatture e ciò sulla base di alcune sentenze della Corte di Cassazione e della Corte di Giustizia UE che ponevano a carico del contribuente la prova della legittimità e della correttezza delle detrazioni effettuate.

3.3. In proposito è vero che il vizio di violazione di legge è configurabile con riguardo alla violazione degli artt. 2727 e 2697 c.c. che si configura nell’ipotesi in cui il giudice abbia erroneamente disconosciuto la prova presuntiva ed attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (v., da ultimo, Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018 Rv. 650892 — 01; Sez. 3 -, Sentenza n. 13395 del 29/05/2018 Rv. 649038 – 01), però la regola di valutazione e di distribuzione dell’onere della prova, in tema di frodi carosello, come risultante dalla elaborazione giurisprudenziale interna e comunitaria, non è quella invocata dalla Agenzia delle Entrate con il secondo motivo di ricorso.

3.4. In proposito occorre premettere che è inconferente il richiamo operato dalla Agenzia delle Entrate all’art. 8, comma 1, del dl. n. 16 del 2012, convertito dalla legge n. 44 del 2012 (per cui: Nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni  di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’articolo 424 del codice di procedura penale ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’articolo 157 del codice penale. Qualora intervenga una sentenza definitiva di assoluzione ai sensi dell’articolo 530 del codice di procedura penale ovvero una sentenza definitiva di non luogo a procedere ai sensi dell’articolo 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza di motivi diversi dalla causa di estinzione indicata nel periodo precedente, ovvero una sentenza definitiva di non doversi procedere ai sensi dell’articolo 529 del codice di procedura penale, compete il rimborso delle maggiori imposte versate in relazione alla non ammissibilità in deduzione prevista dal periodo precedente e dei relativi interessi), poiché è pacifico che sia intervenuta nella specie sentenza definitiva di assoluzione del contribuente dal reato fiscale, tanto è vero che la Agenzia delle Entrate, già prima della sentenza della Commissione Tributaria Provinciale, aveva annullato in autotutela i rilievi per i costi relativi ad operazioni soltanto soggettivamente inesistenti ai fini delle imposte dirette e dell’IRAP, restando quindi in contestazione solo l’accertamento relativamente all’IVA, quanto alla doglianza relativa alla violazione delle regole sulla divisione dell’onere probatorio in tema di IVA con riguardo alle cd. frodi carosello.

3.5. Ciò posto, occorre rilevare che l’approdo giurisprudenziale ampiamente consolidato – al contrario di quanto sostenuto dalla Agenzia delle Entrate ricorrente – è nel senso che spetta alla Agenzia delle Entrate l’onere di provare, non solo l’oggettiva fittizietà del fornitore, ma anche la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta, dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi e specifici, che il contribuente era a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo, usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; soltanto ove l’Amministrazione assolva a detto onere istruttorio, grava poi sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto, non assumendo rilievo, a tal fine, né la regolarità della contabilità e dei  pagamenti, né la mancanza di benefici dalla rivendita delle merci o dei servizi (v. Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 — 01 e successive conformi: Sez. 5 -, Ordinanza n. 27555 del 30/10/2018 Rv. 651004 — 01; Sez. 5 -, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020 Rv. 658429 — 01; Cass. 27/02/2020 n. 5339; Cass. 24/08/2018 n. 21104; Cass. 15/05/2018, n. 11873; Cass. 19/04/2018, n. 9721; da ultimo v. Sez. 5-, Ordinanza n. 15369 del 20/07/2020 Rv. 658429 — 01 secondo cui “In tema di IVA, qualora l’Amministrazione finanziaria contesti che la fatturazione attiene ad operazioni soggettivamente inesistenti, inserite o meno nell’ambito di una frode carosello, incombe sulla stessa l’onere di provare la consapevolezza del destinatario che l’operazione si inseriva in una evasione dell’imposta dimostrando, anche in via presuntiva, in base ad elementi oggettivi specifici, che il contribuente fosse a conoscenza, o avrebbe dovuto esserlo usando l’ordinaria diligenza in ragione della qualità professionale ricoperta, della sostanziale inesistenza del contraente; ove l’Amministrazione assolva a detto incombente istruttorio, grava sul contribuente la prova contraria di avere adoperato, per non essere coinvolto in un’operazione volta ad evadere l’imposta, la diligenza massima esigibile da un operatore accorto, secondo criteri di ragionevolezza e di proporzionalità in rapporto alle circostanze del caso concreto“; conforme Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 12590 del 2020). E in siffatte ipotesi – fondate sul mancato versamento dell’imposta incassata da società “cartiere” a seguito di acquisti intracomunitari, o altrimenti esenti, e successive rivendite anche attraverso l’interposizione di una o più società filtro (“buffers”) – solo qualora l’Ufficio abbia assolto al proprio onere probatorio, come sopra indicato, in applicazione del relativo principio sancito dall’art. 17 della direttiva 17 maggio 1977, n. 77/388/CEE, l’IVA assolta dal beneficiario nelle operazioni commerciali con la società filtro non è detraibile ai sensi dell’art. 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, anche se le predette operazioni siano state effettivamente compiute e le relative fatture, al pari dell’intera documentazione contabile, sembrino perfettamente regolari trattandosi di mezzi normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (v. Cass. Sez. 5, Sentenza n. 867 del 20/01/2010 Rv. 611768— 01; v. ancora, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 9851 del 20/04/2018 Rv. 647837 — 01; Cass. Sez. 5-, Sentenza n. 27566 del 30/10/2018 Rv. 651269, e, da ultimo, Cass. Sez. 5 -, Sentenza n. 5339 del 27/02/2020 Rv. 657341 – 01).

3.6. Anche nella giurisprudenza della Corte di Giustizia (Corte giustizia 22 ottobre 2015, c- 277/14) è consolidato il principio per cui, in tema di detrazione dell’IVA correlata ad operazioni inesistenti, la prova che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta sul valore aggiunto deve essere fornita dalla Amministrazione finanziaria, anche mediante presunzioni, come espressamente prevede l’art. 54, comma 2, d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633. Analogamente, con la sentenza 21 giugno 2012 nelle cause riunite C-80/11 e C-142/11 (Mahagében Kft e Péter Dàvid) la Corte di Giustizia ha ritenuto che: «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), 220, punto 1, e 226 della direttiva 2006/112/CE del Consiglio, del 28 novembre 2006, relativa al sistema comune d’imposta sul valore aggiunto, devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega ad un soggetto passivo il diritto di detrarre, dall’importo dell’imposta sul valore aggiunto di cui egli è debitore, l’importo dell’imposta dovuta o versata per i servizi che gli sono stati forniti, con la motivazione che l’emittente della fattura correlata a tali servizi, o uno dei suoi fornitori, ha commesso irregolarità, senza che detta amministrazione dimostri, alla luce di elementi oggettivi, che il soggetto passivo interessato sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in un’evasione commessa dal suddetto emittente o da un altro operatore intervenuto a monte nella catena di prestazioni». Inoltre, «Gli articoli 167, 168, lettera a), 178, lettera a), e 273 della direttiva 2006/112 devono essere interpretati nel senso che ostano a una prassi nazionale in base alla quale l’amministrazione fiscale nega il diritto a detrazione con la motivazione che il soggetto passivo non si è assicurato che l’emittente della fattura correlata ai beni a titolo dei quali viene richiesto l’esercizio del diritto a detrazione avesse la qualità di soggetto passivo, che disponesse dei beni di cui trattasi e fosse in grado di fornirli e che avesse soddisfatto i propri obblighi di dichiarazione e di pagamento dell’imposta sul valore aggiunto, o con la motivazione che il suddetto soggetto passivo non dispone, oltre che di detta fattura, di altri documenti idonei a dimostrare la sussistenza delle circostanze menzionate, benché ricorrano le condizioni di sostanza e di forma previste dalla direttiva 2006/112 per l’esercizio del diritto a detrazione e sebbene il soggetto passivo non disponga di indizi che giustifichino il sospetto dell’esistenza di irregolarità o evasioni nella sfera del suddetto emittente».

3.7. Successivamente, questa Corte (cfr. Cass. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 5873 del 28/02/2019, Rv. 653071 – 01) ha fatto espressa applicazione di siffatta giurisprudenza unionale elaborando il principio di diritto secondo cui «non può revocarsi in dubbio che tale prova possa essere fornita anche mediante presunzioni, come espressamente prevede il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 (analoga previsione è contenuta, per le imposte dirette, nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 39, comma 1, lett. d)» (cfr. Cass. 21953/07, che fa riferimento alla possibilità che l’amministrazione produca elementi anche indiziari, a sostegno della pretesa fiscale azionata; Cass. 9108/12, Cass. 15741/12, che osserva con chiarezza – in motivazione – come costituisca principio di carattere generale che la prova dei fatti possa essere data anche mediante presunzioni).

3.8. Alla luce di tali consolidati princìpi, cui si ritiene di dare continuità in questa sede, spettava quindi all’Ufficio dimostrare che il soggetto passivo sapeva o avrebbe dovuto sapere che la cessione dei beni si iscriveva in un’evasione dell’imposta posta in essere con operazioni commerciali preordinate, anche se vere, ad eludere l’imposizione fiscale, sulla base di elementi presuntivi sufficienti ed adeguati a ritenere provato lo scopo fraudolento; ma la sentenza impugnata ha fatto applicazione proprio di tali princìpi correttamente menzionati a pagine da 4 a 6 ed altrettanto correttamente applicati poiché ha preso in esame gli elementi della fattispecie dedotta in giudizio con riguardo alle operazioni fatturate ed ha escluso che l’Ufficio avesse dimostrato, sia pure attraverso elementi presuntivi, che il contribuente sapeva o avrebbe dovuto che partecipava ad una operazione che si inseriva in una frode IVA, il che consentiva di escludere che spettasse al contribuente dare la prova contraria.

3.9. Orbene, la Agenzia ricorrente, a fronte della sentenza impugnata che ha fatto corretta applicazione di princìpi giuridici consolidati, si è limitata con il ricorso per cassazione – senza peraltro neppure indicare gli elementi concreti della fattispecie e senza trascrivere, ai fini dell’autosufficienza, la motivazione della sentenza impugnata e quella dell’accertamento impugnato nel giudizio e degli atti su cui l’accertamento si basava, il che consente pure di prospettare un vizio di genericità del motivo di ricorso – a sostenere che il contribuente non avrebbe offerto la prova della propria inconsapevolezza della frode IVA, con ciò attribuendo alla sentenza impugnata un errore di diritto che non può essere imputato alla stessa ed invocando un erroneo principio giuridico che è eccentrico rispetto alla giurisprudenza unionale e di questa stessa Corte sopra richiamata.

3.10. Il secondo motivo di ricorso è quindi infondato.

4. Stante la infondatezza del secondo motivo di ricorso, il primo motivo – con cui la Agenzia ricorrente aggredisce la sentenza della Commissione Tributaria Regionale sotto il profilo che avrebbe errato nel fondare la propria decisione anche sulla intervenuta assoluzione del contribuente in sede penale dal reato tributario ascrittogli – si appalesa in conseguenza inammissibile.

4.1. E’ consolidato il principio per cui, in tema di impugnazioni, qualora la sentenza del giudice di merito si fondi, in ipotesi, su più ragioni autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente idonea a sorreggere la decisione, l’omessa impugnazione, con ricorso per cassazione, anche di una soltanto di tali ragioni determina l’inammissibilità, per difetto di interesse, anche del gravame proposto avverso le altre, in quanto l’eventuale accoglimento del ricorso non inciderebbe sulla “ratio decidendi” non censurata, con la conseguenza che la sentenza impugnata resterebbe, pur sempre fondata, del tutto legittimamente, su di essa (v. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9057 del 28/08/1999 Rv. 529500 — 01; conformi Sez. L, Sentenza n. 10173 del 25/07/2001 Rv. 548484 — 01; Sez. 1 -, Sentenza n. 18641 del 27/07/2017 Rv. 645076 – 01; Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 16314 del 18/06/2019 Rv. 654319 – 01). Analogamente, però, anche qualora siano impugnate entrambe le ragioni giustificatrici della sentenza d’appello ma sia respinto il ricorso per cassazione con riguardo ad una delle ragioni che è autonomamente idonea a sorreggere tale sentenza, l’eventuale accoglimento del ricorso per cassazione con riguardo al diverso motivo che aggredisce una seconda ragione giustificatrice – anche qualora si volesse ritenere che il riferimento al giudicato penale in merito al reato tributario possa integrare una autonoma ratio decidendi – diventa privo di interesse per la ricorrente Agenzia delle Entrate poiché la sentenza impugnata resterebbe pur sempre fondata del tutto legittimamente sulla autonoma ratio per cui era infondato l’appello dell’Agenzia con riguardo al principale motivo proposto, poiché quest’ultima non aveva assolto al proprio onere probatorio della pretesa fiscale, con conseguente annullamento della stessa per tale assorbente e decisivo argomento.

4.2. In tema di ricorso per cassazione, qualora la motivazione della pronuncia impugnata sia basata su una pluralità di ragioni, convergenti o alternative, autonome l’una dall’altra, e ciascuna da sola idonea a supportare il relativo “dictum”, la resistenza di una di esse  all’impugnazione rende infatti del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l’eventuale accoglimento di tutte o di una di esse mai condurrebbe alla cassazione della pronuncia suddetta (v. per tutte Cass. Sez. L -, Sentenza n. 3633 del 10/02/2017 Rv. 643086 – 01). E ciò in base al principio per cui, nel giudizio di legittimità, per palesi ragioni di economia e ragionevole durata del processo, la fondatezza di uno dei motivi non può portare all’accoglimento del ricorso ogni qual volta il diritto ultimo rivendicato sia comunque giuridicamente insussistente; in tali evenienze il giudizio di legittimità va comunque definito alla luce dei principi di economia processuale e della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c., cosicchè la Corte di cassazione può evitare la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito sempre che si tratti di questione di diritto che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (v., per tutte, Cass. Sez. L -, Ordinanza n. 29880 del 18/11/2019 Rv. 655857 – 01; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 21968 del 28/10/2015 Rv. 637020 01).

4.3. Nella fattispecie in esame, la argomentazione della sentenza impugnata, laddove richiama il giudicato penale con riguardo al reato tributario, integra in ogni caso non tanto una autonoma ratio decidendi, quanto piuttosto un tema svolto ad abundantiam, come dimostrato dall’incipit della frase “peraltro in sede penale…..”, che dimostra trattarsi di un fatto non decisivo, evidenziato in via meramente aggiuntiva, il che rende irrilevante la sua erroneità in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte secondo cui, in effetti, l’imputato assolto in sede penale, anche con formula piena, per non aver commesso il fatto o perché il fatto non sussiste, può essere ritenuto responsabile fiscalmente qualora l’atto impositivo risulti fondato su validi indizi, insufficienti per un giudizio di responsabilità penale,  ma adeguati, fino a prova contraria, nel giudizio tributario, attesa l’autonomia dei due giudizi, la diversità dei mezzi di prova acquisibili e dei criteri di valutazione (v. Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 27814 del 04/12/2020 Rv. 659817 – 01; conformi Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 28174 del 24/11/2017 Rv. 646971 -01; Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 16262 del 28/06/2017 Rv. 644927 – 01).

5. Il ricorso deve essere pertanto rigettato. Fermo restando il carico delle spese già disposto dal giudice del merito, anche le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della Agenzia delle Entrate e devono essere liquidate come in dispositivo, mentre non sussistono i presupposti per l’applicazione dell’art. 1.17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, con il quale è stato modificato l’art. 13 DPR 30 maggio 2002, n. 115, mediante l’inserimento del comma 1-quater, poiché tale disposizione non può trovare applicazione nei confronti delle Amministrazioni dello Stato, che, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, sono esentate dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (v., per tutte, Cass. Sez. 6 – L, Ordinanza n. 1778 del 29/01/2016 Rv. 638714 -01)

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in euro 7.200,00, oltre ad euro 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie ed accessori.