CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 giugno 2018, n. 16037
Rapporto di lavoro – Contratto integrativo aziendale – Compensi per lavoro domenicale e festivo – Accertamento
Rilevato
che con sentenza in data 11 gennaio 2013, la Corte d’appello di Lecce rigettava l’appello proposto da O. s.p.a. avverso la sentenza di primo grado, che aveva accertato il diritto di L. C., A. C., F. E. e M. P. ad ottenere i compensi previsti dal contratto integrativo aziendale del 19 settembre 2002 per il lavoro domenicale e festivo e per il trattamento di malattia per il periodo 1 agosto 2006 – 31 dicembre 2007 e condannato la società datrice al relativo pagamento in loro favore, con liquidazione in base a disposta C.t.u. contabile;
che avverso tale sentenza il Gruppo C. (incorporante O.) s.p.a. ricorreva per cassazione con tre motivi, cui resistevano le lavoratrici con controricorso; che la società ha comunicato memoria ai sensi dell’art. 380 bis1 c.p.c.;
Considerato
che la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2112 c.c., 414, 112, 115, 116 c.p.c., 2697 c.c., omesso esame di fatti decisivi e motivazione palesemente inesistente, in riferimento all’obbligo dell’affittuario di azienda di garantire ai dipendenti acquisiti lo stesso trattamento retributivo e normativo goduto presso il datore affittante, con effetto sostitutivo nei contratti collettivi applicati di quelli soli di pari livello, non dovendosi pertanto applicare fin da subito (essendolo stato poi spontaneamente) il contratto integrativo aziendale (C.I.A.) vigente presso la società affittuari, ma non anche presso l’affittante, avendo la prima, lungi dal voler discriminare le nuove dipendenti, anche giustificato (e offerto di provare) le ragioni della sua mancata applicazione, indicate nelle due comunicazioni 19 giugno 2006 e 31 luglio 2006, consistenti nel negativo andamento gestionale dei negozi rilevati, nell’assunzione da O. di tutti i lavoratori in organico non solo di Gieffe s.r.l. (da cui dipendevano le ricorrenti), ma anche di Aligros s.p.a. e nell’impegno economico per la ristrutturazione dei punti di vendita (primo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 6.4. C.I.A. 19 settembre 2002, 1362, 1363, 1368 c.c., 65, 66 CCNL Commercio Terziario, 414, 112, 115, 116 c.p.c., 2697 c.c., omesso esame di fatti decisivi e motivazione palesemente inesistente anche per error in procedendo, per erronea applicazione del C.I.A., esplicitamente riservato ai lavoratori “attualmente in forza” (ossia all’epoca della sua sottoscrizione) e disponibili a prestare attività lavorativa in giornate domenicali o festive infrasettimanali, alle lavoratrici che all’epoca neppure erano dipendenti e che per contratto erano tenute a rendere la propria prestazione in tali giorni (secondo motivo); violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 115, 116, 414, 420, 421, 424 c.p.c., 2697 c.c., omesso esame di fatti decisivi controversi anche per error in procedendo, per apodittica ed erronea liquidazione delle differenze retributive richieste dalle lavoratrici in base al C.I.A., loro non applicabile, sul presupposto di un’affermata C.t.u. contabile mai disposta e di conteggi, fermamente contestati, privi di specificazione dei giorni di malattia né di festività e di domeniche lavorate effettivamente maturati e delle relative indennità spettanti, in difetto assoluto di prova (terzo motivo); che il collegio ritiene che il primo motivo sia infondato;
che, infatti, nell’ipotesi di trasferimento d’azienda, si applica la contrattazione integrativa aziendale del cessionario e non già del cedente: posto che il contratto integrativo aziendale, così come il diritto riconosciuto dall’uso aziendale (parificabile al contratto integrativo aziendale, sul piano dell’efficacia nei rapporti individuali, quale fonte di un obbligo unilaterale di carattere collettivo del datore di lavoro, sostitutivo delle clausole contrattuali e collettive in vigore quelle proprie più favorevoli, a norma dell’art. 2077, secondo comma c.c.), non sopravvive al mutamento della contrattazione collettiva conseguente al trasferimento di azienda; sicché, operando come una contrattazione integrativa aziendale, subisce la stessa sorte dei contratti collettivi applicati dal precedente datore di lavoro e non è più applicabile presso la società cessionaria dotata di propria contrattazione integrativa (Cass. 13 agosto 2009, n. 18300; Cass. 11 marzo 2010, n. 5882);
che il secondo motivo è in parte improcedibile ed in parte inammissibile; che non risulta, infatti, sotto il primo profilo, la produzione del CCNL di settore, tanto meno nel testo integrale (ritenuto dalla giurisprudenza di questa Corte adempimento rispondente alla propria funzione nomofilattica e necessario per l’applicazione del canone ermeneutico previsto dall’art. 1363 c.c.), comportante gli effetti previsti dall’art. 369, secondo comma, n. 4 c.p.c. (Cass. 15 ottobre 2010, n. 21358; Cass. 4 marzo 2015, n. 4350; Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 23 novembre 2017, n. 27493);
che, in disparte, sotto il secondo profilo, un preliminare rilievo di inammissibilità in difetto del requisito di specificità prescritto dall’art. 366, primo comma, n. 4 e n. 6 c.p.c., sub specie di violazione del principio di autosufficienza per la mancata produzione del C.N.I. del 19 settembre 2002 (Cass. 21 settembre 2011, n. 19227), nella palese insufficienza, per la ragione sopra indicata, della sola trascrizione del p.to 6.4. (al p.to 47 di pg. 53 del ricorso), il motivo è pure inammissibile sotto ulteriori ed assorbenti ragioni;
che infatti a questa Corte non è consentito procedere direttamente all’interpretazione censurata della clausola di un contratto collettivo integrativo, in quanto il vizio previsto dall’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c. riguarda esclusivamente i contratti collettivi nazionali di lavoro (Cass. 3 dicembre 2013, n. 27062; Cass. 17 febbraio 2014, n. 3681): neppure essendo stata prospettata, ai fini di un’interpretazione non già in via diretta, bensì mediata dalla denuncia di violazione dei canoni ermeneutici contrattuali, un’adeguata specificazione dei canoni in concreto assunti violati, né il punto ed il modo in cui il giudice del merito se ne sarebbe discostato, non potendo le censure risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. 28 luglio 2005, n. 15798; Cass. 15 novembre 2013, n. 25728); sicché, anche per questa ragione, è insindacabile l’interpretazione del giudice di merito, che, in virtù delle argomentazioni esposte (per relationem, al penultimo capoverso di pg. 2 della sentenza, alla motivazione della sentenza di primo grado, nel passaggio trascritto dal penultimo capoverso di pg. 26 al primo di pg. 27 del ricorso e pertanto adeguata, in quanto chiaramente fatta propria: Cass. 7 aprile 2005, n. 7251; Cass. 2 febbraio 2006, n. 2268; Cass. 11 maggio 2012, n. 7347), ne ha resa una sicuramente plausibile (neppure essendo necessario che essa sia l’unica interpretazione possibile o la migliore in astratto: Cass. 22 febbraio 2007, n. 4178); che il terzo motivo, relativo alla censurata liquidazione di differenze retributive, è parimenti inammissibile, in via derivata, quale conseguenza dell’applicazione del C.I.A.
non integralmente prodotto, già viziante di mancanza di autosufficienza il secondo motivo;
che comunque esso si risolve in una contestazione dell’accertamento in fatto e della valutazione probatoria della Corte territoriale, adeguatamente argomentati, al di là dell’evidente refuso del riferimento ad una C.t.u. non esperita: chiaro essendo l’essenziale riferimento all’esercizio dei poteri istruttori del tribunale, per rinvio (al primo capoverso di pg. 3 della sentenza) alla più che adeguata motivazione del primo giudice (nella trascrizione, per quanto d’interesse, al secondo capoverso di pg. 26 e al secondo di pg. 27 del ricorso);
che è pertanto inammissibile la sottesa ma evidente sollecitazione di un riesame del merito, insindacabile in sede di legittimità (Cass. 16 dicembre 2011, n. 27197; Cass. 18 marzo 2011, n. 6288; Cass. 19 marzo 2009, n. 6694), tanto più nei rigorosi limiti devolutivi prescritti dal novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis;
che dalle superiori argomentazioni discende il rigetto del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna Gruppo C. s.p.a. alla rifusione, in favore delle controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 4.000,00, per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente , dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13.
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