CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 18 luglio 2022, n. 22487
Lavoro – Baby sitter – Indici di subordinazione – Accertamento – Sussistenza
Rilevato che
Con sentenza dell’8 marzo 2021, la Corte d’Appello di Napoli, in parziale accoglimento dell’appello proposto da R.C., ha condannato M.R.L. e A.C. al pagamento, in favore della appellante, della somma di euro 19.841,02 oltre accessori di legge, a titolo di differenze retributive;
– la Corte, in particolare, andando di contrario avviso rispetto all’iter argomentativo del primo giudice, ha ritenuto di rinvenire nel rapporto intercorso tra le parti (deputato all’assistenza dei figli minori della parte appellata) i caratteri della eterodirezione e della sottoposizione al potere direttivo del datore di lavoro, reputando, quindi, l’emergenza degli invocati indici della subordinazione; – avverso tale pronunzia propone ricorso M.R.L., affidandolo a due motivi;
– resiste, con controricorso, R.C.;
Considerato che
-con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2697, 2739 cod. civ., 116 cod. proc. civ., 132 cod. proc. civ., e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio con riguardo agli indici rivelatori della subordinazione in ordine all’attività di baby sitter svolta dalla controricorrente;
– con il secondo motivo di ricorso si deduce ancora la violazione e falsa applicazione degli artt. 2094, 2697, 2739 cod. civ., 116 cod. proc. civ., 132 cod. proc. civ., e omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio con riferimento alle mansioni svolte;
– i due motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali;
con riferimento alla dedotta violazione dell’art. 360, co. 1, n. 5 cod. proc. civ., va rilevato che si verte nell’ambito di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale;
motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017);
quanto alla dedotta violazione dell’art. 116 cod. proc. civ., va sottolineato che una questione di violazione e falsa applicazione di tale norma non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo ove il giudice abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960) e tali ipotesi non ricorrono, come si vedrà, nel caso di specie;
– relativamente, poi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ., va osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in particolar modo in quanto, pur veicolando parte ricorrente la censura per il tramite della violazione di legge, essa, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità;
nessuna violazione si ravvisa, poi, nella specie, del disposto di cui all’art. 132 cod. proc. civ. atteso che la Corte ha ritenuto essere ravvisabili gli elementi tipici del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e pieno in considerazione di tutti gli elementi probatori acquisiti; tale valutazione, deve ritenersi sottratta al sindacato di legittimità; nel caso di specie, la parte, pur veicolando le proprie censure mediante il profilo della violazione di legge, mira, in realtà, ad una rivisitazione in fatto della vicenda, nonostante la motivazione della Corte in ordine alla sussistenza degli estremi del rapporto di lavoro subordinato;
deve, quindi, concludersi che parte ricorrente non si è conformata a quanto statuito dal Supremo Collegio in ordine alla apparente deduzione di vizi ex artt. 360 co. 1 nn.3 e 5 e, cioè, che è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (cfr., SU n. 14476 del 2021); alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve, quindi, essere dichiarato inammissibile;
le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo si dà atto della sussistenza dei presupposti processuali dì cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 3000,00 per compensi professionali e in euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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