CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 20 luglio 2021, n. 20728

Intera anzianità contributiva di 52 settimane annue – Part-time verticale ciclico – Accredito contributivo per l’accesso alla pensione – Periodi non lavorati, da non escludere dal calcolo dell’anzianità contributiva – Diritto alla pensione – Logica conseguenza della perduranza del rapporto di lavoro durante i periodi di sosta

Rilevato in fatto

Che, con sentenza depositata il 19.1.2015, la Corte d’appello di Milano ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva riconosciuto a S.S. il diritto ad aver computata l’intera anzianità contributiva di 52 settimane annue per i periodi in cui aveva prestato servizio in regime orario di part-time verticale ciclico;

che avverso tale pronuncia l’INPS ha proposto ricorso per cassazione, deducendo due motivi di censura; che S.S. ha resistito con controricorso;

Considerato in diritto

Che, con il primo motivo, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 288 TFUE, della sentenza CGUE 10.6.2010, C-395-396/08, e degli artt. 115 e 116 c.p.c., per avere la Corte ritenuto che l’interpretazione che la citata sentenza della Corte di Giustizia aveva dato della direttiva 97/81/CE relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale dovesse condizionare anche l’interpretazione della legislazione nazionale in tema di accredito contributivo per l’accesso alla pensione, laddove il sistema di sicurezza sociale non è soggetto alle regole del diritto comunitario, prevedendo l’art. 48 TFUE soltanto il coordinamento delle legislazioni nazionali e non la loro armonizzazione;

che, con il secondo motivo, l’Istituto ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 9, d.lgs. n. 61/2000, 5, comma 11°, d.l. n. 726/1983, e 7, comma 1°, d.l. n. 463/1983 (conv. con I. n. 638/1983), nonché della sentenza CGUE di cui al primo motivo, per non avere la Corte territoriale debitamente valorizzato la componente letterale delle disposizioni citate, dalle quali si evince che la copertura previdenziale sussiste soltanto per i periodi di attività lavorativa effettiva ovvero di contribuzione figurativa; che i due motivi possono essere trattati congiuntamente, in considerazione dell’intima connessione delle censure svolte; che, al riguardo, questa Corte ha già chiarito che l’art. 5, comma 11°, d.l. n. 726/1984 (in forza del quale ai fini della determinazione del trattamento di pensione l’anzianità contributiva «inerente ai periodi di lavoro a tempo parziale» va calcolata «proporzionalmente all’orario effettivamente svolto») va inteso nel senso che l’ammontare dei contributi versati ai sensi dell’art. 7, d.l. n. 463/1983 (conv. con I. n 638/1983) e delle successive ed identiche previsioni di cui all’art. 9, comma 4, d. Igs. n. 61/2000, debba essere riproporzionato sull’intero anno cui i contributi stessi ed il rapporto si riferiscono, non potendosi quindi escludere dal calcolo dell’anzianità contributiva utile per acquisire il diritto alla pensione nei confronti dei lavoratori con rapporto a tempo parziale c.d. verticale ciclico i periodi non lavorati nell’ambito del programma negoziale lavorativo concordato con il datore di lavoro (così da ult. Cass. nn. 26824 del 2018 e 16255 del 2020);

che è stato parimenti chiarito che, sebbene tale affermazione sia stata argomentata (anche in precedenti pronunce di questa Corte) sulla scorta di CGUE, 10.6.2010, C-395-396/08, Bruno et al., essa appare in realtà risolvibile – e va risolta – sulla scorta dei principi immanenti nel nostro ordinamento in tema di rapporto di lavoro a tempo parziale, atteso che il principio secondo cui, per i lavoratori a tempo parziale di tipo verticale ciclico, non si possono escludere i periodi non lavorati dal calcolo dell’anzianità contributiva necessaria per acquisire il diritto alla pensione, costituisce logica conseguenza della perdurarla del rapporto di lavoro durante i periodi di sosta, come si desume dal fatto che ai lavoratori impiegati secondo tale regime orario non spettano per i periodi di inattività né l’indennità di disoccupazione, né l’indennità di malattia, e nemmeno possono iscriversi nelle liste di collocamento (così Cass. nn. 21207 e 22936 del 2016);

che, pertanto, corretta negli anzidetti termini la motivazione della sentenza impugnata, il ricorso va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, giusta il criterio della soccombenza; che, in considerazione del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso;

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 5.200,00, di cui € 5.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.