CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 settembre 2021, n. 25622
Tributi – IRPEF – Accertamento – Somma percepita a ristoro della perdita del diritto di proprietà di una villa a seguito di transazione – Natura risarcitoria – Importo non imponibile escluso dalla dichiarazione dei redditi
Rilevato
1. La contribuente, socia della società L.R. s.p.a., era attinta da un p.v.c., notificato in data 22.12.1997, ed avente ad oggetto l’omessa dichiarazione della somma di lire 1.250.000.000 a titolo di “redditi diversi” per il periodo d’imposta 1996 ed emerso nel corso di una verifica fiscale avviata nei confronti della società.
2. Invero, il Nucleo di Polizia tributaria accertava che la predetta somma era stata versata alla contribuente dalla società A.A. s.r.l. all’esito di una transazione giudiziale avente ad oggetto una villa sita in Cortina, sicché qualificava l’importo alla stregua di un corrispettivo derivante dall’assunzione di obblighi di “fare, non fare o permettere”, contestandone l’omessa dichiarazione. Ritenute insufficienti le difese medio tempore offerte dalla contribuente, l’Amministrazione finanziaria notificava, in data 10.10.2002, l’avviso di accertamento con conseguente recupero a tassazione ai fini Irpef, Ilor, Cssn e Tassa per l’Europa.
3. I due gradi di merito erano favorevoli alla contribuente. Peraltro, mentre la Commissione tributaria provinciale argomentava le ragioni logico-giuridiche poste a fondamento della decisione di accoglimento, e segnatamente la natura risarcitoria della predetta somma poiché derivante dalla perdita della proprietà della villa cortinese e non quale corrispettivo di una obbligazione di fare, non fare o permette, nulla argomentava il Collegio d’appello, investito del giudizio di riforma: la Commissione tributaria regionale si limitava invero a confermare la decisione impugnata, dichiarando assorbito il ricorso incidentale promosso dalla contribuente.
4. La sentenza di riforma n. 18/2006 era dunque sottoposta allo scrutinio di legittimità di questa Corte che, in accoglimento del ricorso promosso dall’Avvocatura generale dello Stato, la cassava con rinvio perché insufficientemente motivata su un punto decisivo della controversia, ossia la circostanza che la somma di 1.250.000.000 delle vecchie lire fosse stata versata a titolo di risarcimento del danno e non ad altro titolo, quale corrispettivo di una obbligazione di fare, non fare o permette. In particolare, con sentenza n. 635/2012 questo Giudice riteneva insufficiente la motivazione approntata dalla CTR non risultando raggiunta la prova della natura risarcitoria della somma, il cui onere era riconosciuto in capo alla contribuente.
5. Riassunto il ricorso su istanza dell’Amministrazione finanziaria, e costituitasi la contribuente, la Commissione tributaria regionale in diversa composizione respingeva nuovamente la tesi dell’Ufficio. Dopo aver ripercorso la pregressa fase amministrativa e giudiziale, i giudici di secondo grado confermavano la natura risarcitoria della somma anzidetta, poiché percepita a ristoro della perdita del diritto di proprietà sulla villa cortinese a seguito della transazione raggiunta tra la contribuente e la società A.A. s.r.l.. In ogni caso veniva negata, nella fattispecie in esame, la sussistenza di un reddito derivante da attività di lavoro autonomo non abituale o dall’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere, così come invocato dall’Ufficio ai sensi dell’art.67 (ora 81), lett. I) TUIR.
6. Ricorre per la cassazione della decisione di secondo grado l’Avvocatura generale dello Stato, che si affida a tre motivi di ricorso, cui replica la contribuente con tempestivo controricorso.
Considerato
1. Questa Corte ritiene di condividere l’assunto della difesa del contribuente, invertendo l’ordine di scrutinio delle censure, principiando pertanto dal terzo motivo in ragione della sua priorità logica e proseguendo poi con la disamina del secondo e del primo.
2. Con il terzo motivo il patrono erariale denunzia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, infatti, la CTR avrebbe omesso di esaminare tre fatti asseritamente decisivi quali, da un lato, la natura abusiva della condotta imputata al padre della contribuente, e che avrebbe inciso considerevolmente sulla decisione di quest’ultima in merito alla firma della transazione, dall’altro, il motivo per cui dell’obbligazione era stata gravata la A.A. s.r.l. anziché il soggetto responsabile dell’illecito, ossia il padre della contribuente; infine l’assenza di qualsivoglia titolo di proprietà in capo alla contribuente.
2.1 Il motivo è infondato.
È infatti ormai ¡us receptum di questa Corte quello per cui l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. in l. n. 134 del 2012, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia” (Cfr. Cass., n. 18668/2020; idem n. 22361/2019). Non basta, dunque, l’omesso esame di un fatto storico, essendo onere della parte dimostrare – e non meramente dedurre quale linea difensiva – anche la natura decisiva di detti fatti ai fini del giudizio.
2.2 Ciò premesso, dall’esame della pronuncia impugnata, trascritta dal patrono erariale ai fini dell’autosufficienza, risulta chiaramente come la CTR abbia trattato il profilo inerente le malversazioni paterne (cfr. nota n. 2 – pag. 4), che sono state pertanto oggetto di approfondito esame. Parimenti sono stati oggetto di disamina sia la traslazione dell’illecito su un soggetto non obbligato (cfr. note 1 e 2, pagg. 3 e 4), sia il profilo dominicale in capo alla contribuente (lett. c) e nota 1 a pag. 3 e nota 2 a pag. 4).
2.3 Peraltro, la valutazione della natura meramente reintegrativa o di mancata percezione di redditi derivanti da un atto di transazione stipulato dal contribuente al fine della sua soggezione a imposizione fiscale è rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito e, se congruamente motivata, non è sindacabile da questa Corte. La CTR ha peraltro evidenziato che la transazione prevedeva il pagamento di una somma di danaro come ristoro della rinuncia alla titolarità della villa in Cortina e che, pertanto, la stessa doveva essere qualificata come danno emergente (la sentenza in scrutinio parla di “lucro cessante”, tuttavia rigetta il motivo proposto dalla parte pubblica, descrivendo adeguatamente la vicenda come “danno emergente”, in tal senso dovendosi correggere il testo). Si tratta di motivazione esente da vizi logici e giuridici e conforme all’indirizzo consolidato secondo cui “In tema di imposte sui redditi, in base al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 6, comma 2, (nel testo applicabile “ratione temporis”), le somme percepite dal contribuente a titolo risarcitorio sono soggette a imposizione soltanto se, e nei limiti in cui, risultino destinate a reintegrare un danno concretatosi nella mancata percezione di redditi, mentre non costituiscono reddito imponibile nell’ipotesi in cui esse tendano a riparare un pregiudizio di natura diversa (ex plurimis Sez. 5 – , Sentenza n. 10244 del 26/04/2017)” (Cass., V, n. 24055/2015).
Il motivo è dunque infondato e va respinto.
3. Con la seconda censura la difesa erariale lamenta il vizio di motivazione apparente e, quindi, la nullità della sentenza in relazione all’art. 360 n. 4 c.p.c.. In particolare la parte ricorrente prospetta la nullità della sentenza per essere la sua motivazione meramente apparente. Omettendo di chiarire le ragioni per cui la somma in esame non possa essere considerata come la remunerazione per l’assunzione di obblighi di fare, non fare e permettere, la sentenza sarebbe affetta da una motivazione meramente apparente e come tale nulla.
3.1 Il motivo è infondato.
Questa Corte ha più volte affermato che “il vizio di motivazione meramente apparente della sentenza ricorre allorquando il giudice, in violazione di un preciso obbligo di legge, costituzionalmente imposto (Cost., art. 111, sesto comma), e cioè dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. (in materia di processo civile ordinario) e dell’omologo art. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992 (in materia di processo tributario), omette di esporre concisamente i motivi in fatto e diritto della decisione, di specificare o illustrare le ragioni e l’iter logico seguito per pervenire alla decisione assunta, e cioè di chiarire su quali prove ha fondato il proprio convincimento e sulla base di quali argomentazioni è pervenuto alla propria determinazione, in tal modo consentendo anche di verificare se abbia effettivamente giudicato iuxta alligata et probata; l’obbligo del giudice “di specificare le ragioni del suo convincimento”, quale “elemento essenziale di ogni decisione di carattere giurisdizionale” è affermazione che ha origine lontane nella giurisprudenza di questa Corte e precisamente alla sentenza delle sezioni unite n. 1093 del 1947, in cui la Corte precisò che “l’omissione di qualsiasi motivazione in fatto e in diritto costituisce una violazione di legge di particolare gravità” e che “le decisioni di carattere giurisdizionale senza motivazione alcuna sono da considerarsi come non esistenti” (in termini, Cass. n. 2876 del 2017; v. anche Cass., Sez. U., n. 16599 e n. 22232 del 2016 e n. 7667 del 2017 nonché la giurisprudenza ivi richiamata). Alla stregua di tali principi consegue che la sanzione di nullità colpisce non solo le sentenze che siano del tutto prive di motivazione dal punto di vista grafico (che sembra potersi ritenere mera ipotesi di scuola) o quelle che presentano un “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e che presentano una “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass. S.U. n. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 21257 del 2014), ma anche quelle che contengono una motivazione meramente apparente, del tutto equiparabile alla prima più grave forma di vizio, perché dietro la parvenza di una giustificazione della decisione assunta, la motivazione addotta dal giudice è tale da non consentire “di comprendere le ragioni e, quindi, le basi della sua genesi e l’iter logico seguito per pervenire da essi al risultato enunciato” (cfr. Cass. n. 4448 del 2014), venendo quindi meno alla finalità sua propria, che è quella di esternare un “ragionamento che, partendo da determinate premesse pervenga con un certo procedimento enunciativo”, logico e consequenziale, “a spiegare il risultato cui si ; perviene sulla res deciderteli” (Cass. n. 21296/2020; v. anche Cass., Sez. un., n. 22232 del 2016 e la giurisprudenza ivi richiamata).
3.2 Tanto premesso, è opportuno richiamare in questa sede quanto già in parte argomentato in merito al motivo precedente, ossia che secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli articoli 1362 c.c. e segg.. E’ pertanto onere del ricorrente, al fine di far valere la violazione dei richiamati profili, non solo di fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma anche di precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità” (Cfr. Cass. 22.09.2016 n. 18585; cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass., 4 giugno 2010, n. 13587; 31 maggio 2010, n. 13242).
3.3 La sentenza impugnata, lungi dall’essere viziata da una motivazione apparente, appare a questa Corte congruamente e logicamente motivata e come tale insindacabile in questa sede di legittimità. Non può invero condividersi l’assunto secondo cui la CTR avrebbe sic er simpliciter affermato che quel pagamento rappresentava il risarcimento del danno patito dalla contribuente. I giudici d’appello, ancorché in un circoscritto quadro sinottico, hanno invero riassunto i punti salienti della vicenda giudiziaria affrontata dalla contribuente che si è conclusa con la sottoscrizione di un accordo transattivo il quale prevedeva la percezione della somma quale mera riparazione del danno emergente.
4. Con la prima censura l’Avvocatura dello Stato si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 81, comma 1, lett. I), TUIR (oggi art. 67) in parametro all’art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c..
In buona sostanza il patrono erariale censura la sentenza per aver la CTR vagliato solo una delle due ipotesi di cui all’art. 81 (ora 67), comma 1, lett. I) TUIR e, segnatamente, il reddito occasionale di lavoro autonomo e non anche l’ulteriore ipotesi relativa all’assunzione di obblighi di fare, non fare o permettere. Afferma, infatti, che la norma prevederebbe due fattispecie alternative e che la CTR avrebbe vagliato solo la prima di esse e non la seconda.
4.1 Il motivo è inammissibile.
Invero l’Amministrazione finanziaria svolge il motivo di ricorso sotto il profilo della violazione di legge in parametro all’art. 360 co. 1 n. 3 c.p.c., ma nella sostanza lamenta che la CTR abbia eluso il disposto dell’art. 81 citato, non valutando l’intero “ambito applicativo della norma in questione” e quindi, in sostanza, per non essersi espressa su entrambi i profili ivi previsti, di fatto censurando la sentenza sotto il profilo dell’omessa pronuncia sul punto, denunziabile ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4 c.p.c..
4.2 In ogni caso il motivo è anche infondato alla luce del risalente orientamento di questa Corte, secondo cui che “non ricorre vizio di omessa pronuncia su punto decisivo qualora la soluzione negativa di una richiesta di parte sia implicita nella costruzione logico-giuridica della sentenza, incompatibile con la detta domanda (v. Cass., 18/5/1973, n. 1433; Cass., 28/6/1969, n. 2355), quando cioè la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte comporti necessariamente il rigetto di quest’ultima, anche se manchi una specifica argomentazione in proposito (v. Cass., 21/10/1972, n. 3190; Cass., 17/3/1971, n.748; Cass., 23/6/1967, n. 1537). Secondo il risalente insegnamento di questa Corte, al giudice di merito non può invero imputarsi di avere omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi, giacché né l’una né l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento, come nella specie, risulti da un esame logico e coerente, non già di tutte le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, bensì solo di quelle ritenute di per sé sole idonee e sufficienti a giustificarlo. In altri termini, non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata dell’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla, ovvero la carenza di esse (cfr. Cass. V, 9/3/2011, n. 5583)” (cfr. Cass., V, n. 7662/2020).
4.3 Tanto premesso, dalla lettura della sentenza si evince come la CTR abbia espressamente preso in esame la tesi dell’Ufficio avendone dato atto nella decisione impugnata (lett. e) – pag. 4 sentenza). Infatti, da una semplice e non preconcetta lettura della sentenza, si evince agevolmente come la CTR, nel valutare il merito dell’appello, non abbia omesso la pronuncia sul profilo in parola, ma l’abbia implicitamente rigettato, non avendo ravvisato l’esistenza di quella fonte produttiva di reddito che, sola, avrebbe legittimato l’imposizione fiscale (lett. d – pag. 6 sentenza).
Il motivo è pertanto infondato e va disatteso.
In conclusione il ricorso è infondato e dev’essere rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna l’Agenzia delle Entrate al pagamento delle spese del presente giudizio in favore della Sig.a R.H., che liquida in €.diecimila/00, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso nella misura forfettaria del 15%, Iva e Cpa come per legge.