CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 22 settembre 2021, n. 25664

Fallimento – Responsabilità – Amministratore di fatto – Mala gestio – Risarcimento danni – Abbandono gestionale – Mancato invio dichiarazioni fiscali – Determinazione del danno – Differenza fra attivo e passivo fallimentare

rilevato che

con sentenza del 21/10/2019 la Corte di appello di Roma – sezione specializzata in materia di impresa, in integrale riforma della sentenza di primo grado resa dal Tribunale di Roma – sezione specializzata in materia di impresa in data 11/9/2017, ha condannato C.P., quale amministratore di fatto della società, dichiarata fallita il 31/7/2012, al risarcimento dei danni, quantificati nella somma di € 2.433.987,90 in favore del Fallimento della s.r.l. A., per atti di mala gestio oltre alla rifusione delle spese del doppio grado di giudizio;

la Corte di appello, ritenuta preliminarmente legittima la produzione di ulteriori documenti prodotti nel giudizio di appello perché di formazione o acquisizione incolpevole successiva al giudizio di primo grado, ha rivalutato gli elementi di prova, documentale e testimoniale, forniti dall’appellante e ha ritenuto in capo a C. P., socia e legale rappresentante della società proprietaria dell’azienda, lo svolgimento del ruolo di amministratore di fatto della società fallita e non già di mera dipendente e capo-reparto della società affittuaria, a ciò non ostando il concorrente ruolo gestorio espletato dalla sorella o da altri familiari;

la Corte di appello ha ravvisato in capo all’amministratrice de facto così individuata una pluralità di gravi condotte omissive e ha ritenuto sussistente una situazione di abbandono gestionale e di inadempimento di ogni norma di corretta amministrazione, tali da giustificare il collegamento causale con l’intero deficit patrimoniale della società fallita;

avverso la predetta sentenza, notificata il 24/10/2019, con atto notificato il 20/12/2019 ha proposto ricorso per cassazione C.P., svolgendo due motivi di ricorso, al quale ha resistito il Fallimento A. s.r.l. con controricorso notificato il 28/1/2020, chiedendone l’inammissibilità o il rigetto;

è stata proposta ai sensi dell’art.380-bis cod.proc.civ. la trattazione in camera di consiglio non partecipata;

la parte controricorrente ha illustrato con memoria ex art.380 bis, comma 2, cod.proc.civ., le proprie difese;

ritenuto che

con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, n. 3, cod. proc. civ., la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 2392 e 2639 cod.civ., nonché dell’art. 2697 cod.civ., non sussistendo in capo alla ricorrente il ruolo di amministratore , neppure di fatto; il motivo appare inammissibile perché, sotto l’apparente egida della dedotta violazione degli artt.2392, 2639 e 2697 cod.civ. e dei criteri di accertamento della qualità di amministratore di fatto di una società, tende a chiedere alla Corte di legittimità la rivalutazione delle risultanze istruttorie e la revisione dell’accertamento di fatto compiuto dalla Corte di appello, con indebita invasione del giudizio di merito;

la Core capitolina, con ampia motivazione, ben più che idonea a soddisfare lo standard del cosiddetto «minimo costituzionale», ha puntualmente e specificamente criticato le valutazioni, ritenute riduttive e atomistiche, espresse dal Tribunale e ha dato conto, in modo articolato e dettagliato, dei convergenti elementi che suffragavano le sue difformi conclusioni con riferimento a elementi presuntivi, deposizioni testimoniali, risultanze documentali, indagini di polizia giudiziaria, intercettazioni telefoniche e elementi indiziari provenienti da notizie di stampa;

con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360, n. 3, cod.proc.civ., la ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge in relazione agli artt.2392, 2393, 2394, 2394 bis e 2697 cod.civ. e si duole del fatto che la Corte di appello abbia liquidato il danno a suo carico utilizzando il criterio della differenza tra attivo e passivo fallimentare;

il motivo è manifestamente infondato e quindi inammissibile ai sensi dell’art.360 bis n.1, cod.civ., perché il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Corte e l’esame dei motivi non offre elementi per mutare orientamento; nel procedere alla liquidazione del danno in misura pari alla differenza fra attivo e passivo fallimentare, la Corte capitolina, infatti, si è attenuta alle indicazioni della sentenza delle Sezioni Unite n.9100 del 6/5/2015; secondo tale pronuncia, il danno risarcibile può essere determinato e liquidato nella misura corrispondente alla differenza tra il passivo accertato e l’attivo liquidato in sede fallimentare, quale plausibile parametro per una liquidazione equitativa, purché sia stato allegato un inadempimento dell’amministratore almeno astrattamente idoneo a porsi come causa del danno lamentato e siano state indicate le ragioni che hanno impedito l’accertamento degli specifici effetti dannosi concretamente riconducibili alla condotta dell’amministratore; nella fattispecie la Corte di appello ha puntualmente soddisfatto tali presupposti, motivando ampiamente al proposito e accertando una situazione di totale abbandono gestionale e di inadempimento di ogni norma di corretta amministrazione, fra cui il mancato invio delle dichiarazioni fiscali, con accertamento in fatto non sindacabile in sede di legittimità circa la corrispondenza integrale tra il riscontrato deficit patrimoniale e le conseguenze delle generalizzate violazioni degli obblighi gestori degli amministratori;

ritenuto pertanto che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile con la condanna della ricorrente al pagamento delle spese, liquidate come in dispositivo;

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore del controricorrente, liquidate nella somma di € 11.300,00 per compensi, € 100,00 per esposti, 15% rimborso spese generali, oltre accessori di legge.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, ove dovuto.