CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 febbraio 2022, n. 6031
Accertamento – Procedure – Attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale – Amministrazione finanziaria – Elementi di valore indiziario – Inutilizzabilità per specifica disposizione della legge tributaria
Rilevato che
1. La Commissione tributaria regionale del Lazio, con sentenza n. 99 del 2004, depositata l’11 aprile 2005, accoglieva l’appello proposto dalla società E. Telecomunicazioni s.p.a. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale, che aveva respinto il ricorso presentato dalla contribuente contro l’avviso di accertamento notificato il 7 dicembre 1998 per il recupero di maggiori Irpeg e ILOR relativi all’anno di imposta 1992. Il giudice d’appello evidenziava che la ripresa a tassazione di lire 508.080.000 per l’asserita inesistenza di rapporti commerciali con la società C. S. era illegittima (con inesistenza dei costi sostenuti), sia in forza dei giudicati esterni formatisi sulla medesima questione con decisioni di merito sull’Iva, per gli anni 1991 e 1992, e sul Irpeg, per l’anno 1991, sia in considerazione della circostanza che l’Amministrazione non aveva più coltivato le proprie tesi con ulteriori impugnazioni. Inoltre, il recupero a tassazione per interessi attivi di lire 40.173.487, maturati su rimborsi fiscali era illegittimo, non essendo i relativi crediti certi, liquidi ed esigibili. La Corte di cassazione, con sentenza n. 19702/2011, depositata il 27 settembre 2011, cassava la sentenza d’appello, in quanto in relazione all’emissione di fatture per operazioni ritenute inesistenti, non assumeva rilevanza preclusiva il giudicato esterno formatosi in controversie, aventi ad oggetto l’impugnazione di avvisi di rettifica Iva, definite nel senso dell’infondatezza della contestazione del Fisco. Non poteva il giudice d’appello applicare alla contribuente, per Irpeg e ILOR relativi all’anno di imposta 1992, il favorevole giudicato di merito formatosi in materia di Iva per gli anni 1991 e 1992. Inoltre, quanto alla ripresa tassazione degli interessi attivi su rimborsi di imposta, la Corte di cassazione accoglieva il motivo proposto dall’Agenzia delle entrate in quanto gli interessi sui crediti di imposta concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui vengono a maturazione, secondo la regola generale del criterio di competenza; nessuna norma di legge autorizzava una deroga per gli interessi sui crediti di imposta e sui criteri di imputazione per competenza fissati dall’art. 56 del d.P.R. n. 917 1986 e dall’art. 75 del medesimo d.P.R.; tuttavia, precisava la Corte di cassazione che, poiché tali interessi trovavano titolo e criterio di determinazione, quanto al tasso applicabile, nella legge, non era configurabile un’incertezza che giustificasse l’applicazione della seconda parte della norma; tutti gli interessi attivi concorrevano a formare il reddito per l’ammontare maturato nell’esercizio, non essendo previsto il criterio di cassa in questa materia.
2. La Commissione tributaria regionale del Lazio, in sede di rinvio, rigettava l’appello presentato dalla società contribuente; in particolare, evidenziava che la violazione dell’art. 360, terzo comma, c.p.p., riguardava esclusivamente il processo penale ed era posta a garanzia e nell’esclusivo interesse del dichiarante a cui competeva far valere l’eventuale violazione; si trattava delle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della C. S., con sede in Milano, che avevano confermato l’inattività dell’azienda che aveva emesso le fatture contestate, cui faceva riferimento l’avviso di accertamento impugnato. Trattandosi, quindi, di prove a carico dell’indagato era evidente la carenza di interesse da parte di terzi a far valere un’eventuale violazione delle norme di garanzia poste a presidio della difesa dell’indagato e della corretta formazione delle prove in sede penale. Tra l’altro, tali dichiarazioni erano state rese alla Guardia di Finanza nella veste di polizia tributaria, ossia di organo amministrativo incaricato dell’indagine e della repressione degli illeciti fiscali, e non quale polizia giudiziaria. Erano state invece rispettate le normali procedure amministrative di autorizzazione, in adesione all’art. 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, essendo stata rilasciata l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria richiesta per la trasmissione agli uffici dell’Amministrazione finanziaria degli atti del processo penale. L’avviso di accertamento era stato correttamente motivato, in relazione al processo verbale notificato alla parte 13 dicembre 1984 ed allegato all’atto impugnato. Il processo verbale di constatazione redatto dalla polizia di Milano era stato riprodotto per sintesi, in quanto la società emittente aveva emesso fatture, pur non essendo attiva dal 1987 al 1993, anche nei confronti di altre ditte. Inoltre, la società emittente le fatture per l’anno in discussione aveva dichiarato ai fini Iva un volume d’affari pari a zero, come risultava dall’anagrafe tributaria; infine, pur volendo aderire alla tesi della contribuente, escludendo le dichiarazioni del legale rappresentante della C. S., l’avviso di accertamento era comunque motivato “anche sulla base dei rilievi, oggettivi, derivanti dai dati reperiti dall’anagrafe tributaria”. Inoltre, quanto agli interessi su rimborso d’imposta, si faceva riferimento alla sentenza della Corte di cassazione intervenuta tra le parti, nella quale era stato affermato, quale principio di diritto, quello per cui gli interessi sui crediti di imposta concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui vengono a maturazione, secondo la regola generale del principio di competenza.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la società, depositando memoria scritta.
4. Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Considerato che
1. Con il primo motivo di impugnazione (rubricato sub 5 a pagina 11 del ricorso per cassazione) la società deduce “sul primo rilievo: violazione dell’art. 350 c.p.p. (Art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)”. Per la società ricorrente è del tutto irrilevante la veste formale assunta dalla Guardia di Finanza nel momento in cui sono state raccolte sommarie informazioni; vi era stata, comunque, violazione dell’art. 350 c.p.p., in quanto il legale rappresentante della società C. S. aveva reso sommarie informazioni, senza essere stato avvisato della facoltà di nominare un proprio difensore di fiducia e, quindi, senza le garanzie cui agli articoli 63 e 64 c.p.p.; d’altro canto, la garanzia di cui all’art. 350 c.p.p. è posta a garanzia dell’indagato ed è funzionale a consentire la formazione di una prova attendibile la prova; dunque quest’ultima, se non è validamente formata diventa una prova inattendibile in ogni caso, a prescindere dal fatto che sia utilizzata in un processo penale o che sia posta a fondamento di un avviso di accertamento emesso dall’Amministrazione finanziaria. Le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della C. S. avevano sicuramente rilevanza penale in quanto da esse era stata desunta l’emissione di fatture relative ad operazioni inesistenti, sicché tali dichiarazioni erano inutilizzabili ai sensi dell’art. 191 c.p.p.
1.1. Il motivo è inammissibile.
1.2. Anzitutto, si rileva che il motivo è inammissibile, in quanto la sentenza della Commissione regionale, in sede di rinvio, si fondava su due autonome rationes decidendi. Il giudice d’appello, infatti, ha ritenuto che la prova che la società C. S. avesse emesso fatture per operazioni inesistenti anche nei confronti della società contribuente E. Telecomunicazioni, emergeva sia dalle dichiarazioni rese dal legale rappresentante della società C. S., ma anche dagli atti presenti nell’anagrafe tributaria; anzi precisava il giudice d’appello che già soltanto i dati presenti nella anagrafe tributaria erano idonei a dimostrare che la società C. S. aveva emesso fatture per operazioni inesistenti (” pur a voler aderire alla tesi di parte ed escludere le dichiarazioni del legale rappresentante della C. S., che come si è visto sono state legittimamente assunte ed utilizzate, sta di fatto che l’avviso di accertamento non cadrebbe motivato come anche sulla base dei rilievi, oggettivi, derivanti dai dati reperiti dall’anagrafe tributaria”). Pertanto, pur volendo utilizzare esclusivamente i dati oggettivi riportati nell’anagrafe tributaria, da cui emergeva che la C. S. aveva dichiarato redditi pari a zero nel 1992, rimarrebbe provata la circostanza che la società C. S. ha emesso fatture per operazioni inesistenti nei confronti della società contribuente.
1.3. Il motivo è anche infondato nel merito; infatti, per questa Corte l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, richiesta dall’art. 33, terzo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, per la trasmissione, agli uffici delle imposte, dei documenti, dati e notizie acquisiti dalla Guardia di finanza nell’ambito di un procedimento penale, è posta a tutela della riservatezza delle indagini penali, non dei soggetti coinvolti nel procedimento medesimo o di terzi, con la conseguenza che la mancanza dell’autorizzazione, se può avere riflessi anche disciplinari a carico del trasgressore, non tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi, ne’ implica l’invalidità dell’atto impositivo adottato sulla scorta degli stessi (Cass., sez. 5, 17 dicembre 2001, n. 15914; Cass. sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320, per il caso in cui l’autorizzazione sia stata rilasciata dal pubblico ministero anziché dal giudice per le indagini preliminari; Cass., sez. 5, 6 novembre 2002, n. 15538, per cui nessuna conseguenza può derivare dall’incompetenza dell’organo inquirente che l’ha concessa, atteso che neppure l’eventuale mancanza dell’autorizzazione tocca l’efficacia probatoria dei dati trasmessi). La mancata osservanza delle prescrizioni del codice di procedura penale, rilevante al fine della possibilità di utilizzare in sede penale i risultati dell’indagine, non incide, purché non siano violate le disposizioni degli articoli 33 del d.P.R. n. 600 del 1973, e 52 e 63 del d.P.R. n. 633 del 1972, sul potere degli uffici finanziari e del giudice tributario di avvalersene a fini meramente fiscali, senza che ciò costituisca violazione dell’art. 24 della Costituzione (Cass., sez. 5, 16 aprile 2007, n. 8990; Cass., sez. 5, 17 gennaio 2018, n. 959).
1.4. Invero, per questa Corte, nel giudizio tributario, il materiale probatorio acquisito nel corso delle indagini preliminari con strumenti propri del procedimento penale è utilizzabile ai fini della prova della pretesa fiscale, in quanto l’atto legittimamente assunto in sede penale, poi trasmesso all’Amministrazione finanziaria, rientra tra gli elementi che il giudice deve valutare ai sensi dell’art. 63 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass.,sez. 5, 5 aprile 2019, n. 9593; Cass., sez. 5, 29 maggio 2003, n. 8602).
1.5.Per questa Corte, poi, nel processo tributario il divieto di prova testimoniale posto dall’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 non osta alla produzione sia da parte dell’Amministrazione finanziaria che, in ragione dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., del contribuente, di dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale che assumono valenza indiziaria sul piano probatorio (Cass., sez. 6-5, 20 maggio 2020, n. 9316; Cass. sez. 5, 27 maggio 2020, n. 9903; Cass., sez. 6-5, 19 novembre 2018, n. 29757; Cass., sez. 5, 30 settembre 2011, n. 20028; Cass., 20 aprile 2007, n. 9402;). Le dichiarazioni extra processuali rese da soggetti terzi rispetto alle parti in causa costituiscono prove “atipiche”, le quali, oltre che soggette alla generale valutazione di attendibilità intrinseca e di compatibilità logica tra le stesse, hanno in ogni caso il valore probatorio proprio degli elementi indiziari; sicché, mentre possono concorrere a formare il convincimento del giudice, non sono idonei a costituire, da soli, il fondamento della decisione, secondo l’espressa affermazione contenuta nella pronuncia della Corte costituzionale n. 18 del 2000 (Cass., sez. 5, n. 26140 del 2017). Per la Corte costituzionale n. 18/2000 la limitazione probatoria stabilita dall’art. 7, comma 4, del d.lgs. n. 546 del 1992 non comporta l’inutilizzabilità, in sede processuale, delle dichiarazioni di terzi eventualmente raccolte dall’Amministrazione nella fase procedimentale. Tali dichiarazioni, rese al di fuori e prima del processo, sono essenzialmente diverse della prova testimoniale, che è necessariamente orale e di solito ad iniziativa di parte, richiede la formulazione di specifici capitoli, comporta il giuramento dei testi e riveste, conseguentemente, un particolare valore probatorio. Il valore probatorio delle dichiarazioni raccolte dalla Amministrazione finanziaria nella fase dell’accertamento è, infatti, solamente quello proprio degli elementi indiziari. Del resto, il contribuente può, nell’esercizio del proprio diritto di difesa, contestare la veridicità delle dichiarazioni di terzi raccolte dall’amministrazione nella fase procedimentale.
1.6. Inoltre, nell’ambito del principio espresso dall’art. 116 cod. proc. civ., il giudice tributario ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti dalla confessione resa in sede penale dall’imputato, ricorrente avverso l’atto impositivo, e ciò al fine di trarne non solo semplici indizi ma anche valore di prova esclusiva (Cass., sez. 5, 11 giugno 2003, n. 9320; Cass., sez. 5, 5 maggio 2001, n. 9876).
Si è anche affermato che, in tema di contenzioso tributario, l’utilizzazione da parte del giudice tributario, a fini probatori, della confessione resa in sede penale dal rappresentante legale della società ricorrente, non viola il divieto di prova testimoniale nel processo tributario, atteso che il rapporto di immedesimazione organica, che lega il rappresentante legale con la società rappresentata, esclude che il primo possa essere qualificato come testimone, con riferimento ad attività poste in essere dalla società (Cass., sez. 1, 23 luglio 1999, n. 7964; Cass., sez. 5, 4 aprile 2008, n. 8772).
1.7. Si è, peraltro, ritenuto che, in materia tributaria, gli elementi raccolti a carico del contribuente dai militari della Guardia di Finanza senza il rispetto delle formalità di garanzia difensiva prescritte per il procedimento penale, non sono inutilizzabili nel procedimento di accertamento fiscale, stante l’autonomia del procedimento penale rispetto a quello di accertamento tributario, secondo un principio oltre che sancito dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. 10 luglio 1982, n. 429 successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74), desumibile anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 cod. proc. pen., ed espressamente previsto dall’art. 220 disp. att. cod. proc. pen., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale, quando nel corso di attività ispettive emergano indizi di reato, ma soltanto ai fini della “applicazione della legge penale” – in applicazione del principio, la S.C. ha ritenuto legittimo un avviso di accertamento fondato su elementi acquisiti in violazione degli artt. 63, 64, 65 e 369 c.p.p. – (Cass., sez. 5, 12 novembre 2010, n. 22984; Cass., sez. 5, 24 novembre 2017, n. 28060).
In tale decisione si è chiarito che la rilevanza penale degli accertamenti tributari non comporta l’affievolimento del loro valore probatorio in sede civile o tributaria, mentre le regole e le garanzie previste per il giudizio penale hanno valore soltanto all’interno dello stesso.
Questa Corte ha, poi, confermato tale assunto, rilevando che l’Amministrazione finanziaria, nell’attività di contrasto e accertamento dell’evasione fiscale, può, in linea di principio, avvalersi di qualsiasi elemento di valore indiziario, anche unico, ancorché acquisito illegittimamente secondo l’ordinamento processuale penale, con esclusione di quelli la cui inutilizzabilità discenda da una specifica disposizione della legge tributaria o dal fatto di essere acquisiti in violazione di diritti fondamentali di rango costituzionale, stante la netta differenziazione tra processo penale e tributario, secondo un principio sancito non solo dalle norme sui reati tributari (art. 12 del d.l. n. 429 del 1982, successivamente confermato dall’art. 20 del d.lgs. n. 74 del 2000), ma anche dalle disposizioni generali dettate dagli artt. 2 e 654 c.p.p. ed espressamente dall’art. 220 disp. att. c.p.p., che impone l’obbligo del rispetto delle disposizioni del codice di procedura penale quando, nel corso di attività ispettive, emergano indizi di reato ma soltanto ai fini dell’applicazione della legge penale – nella specie, la S.C. ha ritenuto ininfluente l’avvenuta distruzione, su ordine del giudice penale, dei documenti concernenti l’illegale raccolta di informazioni ai danni dell’indagato – (Cass., sez. 5, 29 novembre 2019, n. 31243).
1.8. Si è anche chiarito che un atto legittimamente assunto in sede penale – nella specie, sommarie informazioni testimoniali della Guardia di Finanza ed intercettazioni telefoniche – e trasmesso all’amministrazione tributaria entra a far parte, a pieno titolo, del materiale probatorio che il giudice tributario di merito deve valutare, così come previsto dall’art. 63 del d.P.R. n. 633 del 1972; tale norma, infatti, non contrasta né con il principio di segretezza delle comunicazioni di cui all’art. 15 Cost., perché le intercettazioni che hanno permesso il reperimento dell’atto sono autorizzate da un giudice, né con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., perché, se è vero che il difensore non partecipa alla formazione della prova, è anche vero che nel processo tributario l’atto acquisito ha un minor valore probatorio rispetto a quello riconosciutogli nel processo penale (Cass., sez. 5, 7 febbraio 2013, n. 2916). In questa pronuncia si è evidenziato che, a differenza che nel processo penale, nel procedimento tributario il difensore del contribuente non è chiamato a partecipare alla formazione della prova racchiusa nell’atto trasmesso, in quanto, nel processo tributario, l’atto acquisito non è destinato ad assumere il valore probatorio che ad esso è riconosciuto nel processo penale: il minor tasso di garanzia del diritto al contraddittorio nel procedimento tributario si riverbera sulla minore attendibilità sul piano probatorio dell’atto”.
2. Con il secondo motivo di impugnazione (rubricato sub 6 a pagina 15 del ricorso per cassazione) la società deduce “ancora sul primo rilievo: violazione dell’art. 42, comma 2 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione ratione temporis applicabile (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)”. L’Ufficio, nell’avviso di accertamento, ha motivato l’atto facendo esclusivamente rinvio al processo verbale redatto dal Nucleo centrale di Roma della Guardia di Finanza in data 13 dicembre 1994. Tale processo verbale, però, fa a sua volta riferimento alle attività di indagine del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano, mai rese note alla società. Il giudice d’appello, di fronte alla doglianza della contribuente per la mancata allegazione del processo verbale di constatazione redatto dalla polizia finanziaria di Milano, si è limitata ad affermare che “in questo caso giustamente il PVC di Milano è stato riprodotto per sintesi atteso che la società emittente aveva emesso fatture, pur non essendo attiva dal 1987 al 1993, anche nei confronti di altre ditte e quindi l’autorità procedente ha messo a disposizione dell’attuale ricorrente solo parte del verbale di sua pertinenza con ciò assolvendo all’obbligo sia di motivazione che di riproduzione degli atti richiamati”. In realtà, però, l’avviso di accertamento è stato emesso e notificato alla società nel 1998, e cioè prima delle modifiche apportate all’art. 42, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973 dallo statuto dei diritti del contribuente. La possibilità di richiamare il contenuto essenziale dell’atto richiamato nell’avviso di accertamento è stata introdotta solo con il decreto legislativo n. 32 del 2001, in vigore dal 20 marzo 2001. In assenza di una previsione normativa, non è soddisfatto l’obbligo di motivazione quando l’atto a cui si rinvia è riprodotto solo nel contenuto essenziale e non nella sua integrità.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. Invero, l’art. 43 del d.P.R. n. 600 del 1973, nella versione vigente sino al 19 marzo 2001, si limitava a prevedere, al secondo comma, che “l’avviso di accertamento deve recare l’indicazione dell’imponibile o degli imponibili accertati, delle aliquote applicate e delle imposte liquidate…e deve essere motivato in relazione a quanto stabilito dalle disposizioni di cui ai precedenti articoli che sono state applicate, con distinto riferimento ai singoli redditi delle varie categorie…”.
L’art. 1 del decreto legislativo n. 32 del 2001, emanato in sede di attuazione dell’art. 7 della legge n. 212 del 2000, ha modificato l’originario contenuto della norma prevedendo a favore dell’Amministrazione, in luogo dell’obbligo di allegazione del documento richiamato la facoltà di riprodurne il contenuto essenziale (” se la motivazione fa riferimento ad un altro atto non conosciuto né ricevuto dal contribuente, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama salvo che quest’ultimo non riproduca il contenuto essenziale”).
Tuttavia, anche la giurisprudenza di legittimità che si è pronunciata sul contenuto dell’avviso di accertamento, prima delle modifiche introdotte dal decreto legislativo n. 32 del 2001 all’art. 42, secondo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, ha ritenuto possibile per l’Amministrazione la motivazione dell’avviso di accertamento per relationem, purché fosse consentito l’accesso agli atti al contribuente dei provvedimenti indicati nell’avviso.
Si è ritenuto, infatti, che, in tema di motivazione “per relationem” degli atti d’imposizione tributaria, nel regime delineato dall’art. 3, terzo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241 – applicabile agli atti posti in essere anteriormente all’entrata in vigore dell’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 ed alla modifica successivamente introdotta, in materia d’imposte sui redditi, dall’art. 1, comma primo, lettera c), del d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32, che ha sostituito l’ultimo periodo dell’art. 42, secondo comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – il rinvio ad altri atti del procedimento comporta per l’Amministrazione finanziaria l’obbligo d’indicare specificamente l’atto richiamato, nonché quello di renderlo disponibile al contribuente, cioè di consentirgli, ai sensi degli artt. 22 e ss. della stessa legge, l’accesso al documento che lo incorpori – in applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto legittimo l’avviso di accertamento relativo ad imposte sui redditi motivato attraverso il richiamo di un precedente verbale di constatazione, che a sua volta recepiva il contenuto di un verbale di sequestro redatto dalla Guardia di Finanza – (Cass., sez. 5, 30 novembre 2005, n. 26119; Cass., sez. 5, 8 settembre 2004, n. 18117).
Si è anche chiarito che, anteriormente alle modifiche operate prima dall’art. 7 della legge 27 luglio 2000, n. 212 e poi, per le imposte sui redditi, dall’art. 1 del d.lgs. 26 gennaio 2001, n. 32 (i quali hanno introdotto l’obbligo di allegazione dell’atto richiamato, o, comunque, di riproduzione del suo contenuto nell’atto notificato), il requisito motivazionale dell’avviso di accertamento poteva essere assolto “per relationem”, cioè mediante il riferimento ad elementi di fatto offerti da altri documenti, a condizione che gli stessi fossero conosciuti dal destinatario. Mentre, peraltro, tale presupposto è “in re ipsa” quando il riferimento attiene a verbali d’ispezione o verifica compiuti alla presenza del contribuente, o a lui notificati o comunicati nei modi di legge, quando i verbali oggetto di “relatio” riguardano un soggetto diverso, l’Amministrazione deve dimostrare – sia pure, eventualmente, tramite presunzioni – l’effettiva e tempestiva conoscenza dei documenti da parte del contribuente, non essendo sufficiente il riferimento ad un atto del quale il contribuente stesso possa semplicemente “procurarsi la conoscenza”, poiché ciò comporterebbe una più o meno accentuata e non giustificata riduzione del lasso di tempo a lui concesso per valutare la fondatezza dell’atto impositivo, con indebita menomazione del diritto di difesa (Cass., sez. 5, 12 luglio 2006, n. 15842).
Nella specie, dunque, poiché era pacifico che la società C. S. non aveva operato negli anni dal 1987 al 1993, dichiarando nel 1992 un reddito pari a “zero”, sicché le fatture da essa emesse non potevano che attenere a prestazioni oggettivamente inesistenti, con la conseguente piena consapevolezza da parte della società contribuente, fittiziamente acquirente, della falsità delle fatture emesse, l’avere riportato nell’avviso di accertamento il contenuto essenziale del processo verbale di constatazione redatto dal nucleo operativo di Milano, ha consentito alla società contribuente la piena possibilità di difesa, ben potendo chiedere l’accesso agli atti con riferimento al verbale redatto dalla polizia tributaria di Milano.
Del resto, la giurisprudenza di legittimità ha ormai pienamente sdoganato la motivazione dell’avviso di accertamento per relationem, in quanto l’Ufficio, richiamando le conclusioni contenute nel verbale redatto dalla Guardia di Finanza nell’esercizio dei poteri di polizia tributaria, compie comunque un’autonoma valutazione degli elementi acquisiti; ciò significa che l’Amministrazione, condividendone le conclusioni, ha inteso realizzare una economia di scrittura che, avuto riguardo alla circostanza che si tratta di elementi già noti al contribuente, non arreca alcun pregiudizio al corretto svolgimento del contraddittorio (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2018, n. 32957).
Di recente si è anche affermato che, sempre nella linea evolutiva che caratterizza la motivazione dell’avviso di accertamento che, in tema di IRPEF, è legittimamente motivato per relationem l’avviso di accertamento facente rinvio a valori di cessione desunti dall’Ufficio da una ricerca universitaria (nella specie non allegata all’atto impositivo né ivi riprodotta nel suo contenuto essenziale ma menzionata assieme ad altri documenti accessibili da internet) laddove risulti pubblicata e, quindi, agevolmente conoscibile al contribuente destinatario dell’avviso (Cass., sez. 5, 15 gennaio 2021, n. 593).
Inoltre, il riferimento alla riproduzione del contenuto essenziale di altro documento, deve intendersi come l’insieme di quelle parti (oggetto, contenuto e destinatario) dell’atto o del documento che risultino necessarie e sufficienti per sostenere il contenuto del provvedimento adottato, e la cui indicazione consente al contribuente-ed al giudice in sede di eventuale sindacato giurisdizionale-di individuare i luoghi specifici dell’atto richiamato nei quali risiedono quelle parti del discorso che formano gli elementi della motivazione del provvedimento (Cass., sez. 5, 25 marzo 2011, n. 6914; Cass., sez. 5, 25 luglio 2012, n. 13110; Cass., sez. 6-5, 15 aprile 2013, n. 9032).
Nel motivo di ricorso per cassazione si ammette che il contenuto essenziale del PVC di Milano è stato riprodotto per sintesi nell’avviso di accertamento. L’unica contestazione attiene a profili formali, cioè alla circostanza che essendo stato l’avviso di accertamento emesso e notificato alla società nel 1998, era indefettibile l’allegazione del provvedimento richiamato nell’avviso di accertamento, e segnatamente del PVC della polizia tributaria di Milano.
3. Con il terzo motivo di impugnazione (rubricato sub 6 del ricorso per cassazione a pagina 17) la ricorrente lamenta “ancora sul primo rilievo: violazione dell’art. 2697 c.c.”. Il giudice d’appello ha ritenuto che la pretesa dell’Ufficio fosse risultata pienamente provata, in ragione delle presunzioni gravi, precise e concordanti richieste per l’accertamento induttivo. Il riferimento sarebbe, ancora una volta, alle risultanze del processo verbale di constatazione del Nucleo regionale della Guardia di Finanza di Milano, cui rinvia il PVC del Nucleo centrale di Roma. Non è stato però prodotto in giudizio il PVC del Nucleo regionale della Guardia di Finanza di Milano.
3.1. Il motivo è infondato.
3.2. Invero, l’inesistenza delle operazioni fatturate emergeva dalla circostanza inequivocabile che la società emittente C. S. non aveva svolto alcuna attività dal 1987 al 1993, come emergeva dall’anagrafe tributaria. Pertanto, gli elementi presuntivi gravi, precise e concordanti risultavano proprio dai dati oggettivi dell’anagrafe tributaria, da cui emergeva che nell’anno 1992 la società aveva dichiarato un reddito pari a “zero”, anche senza voler considerare le dichiarazioni rese dal legale rappresentante della C. S. ed il PVC redatto dal nucleo operativo di Milano della Guardia di Finanza.
4. Con il quarto motivo di impugnazione (rubricato sub 8 a pagina 18 del ricorso per cassazione) la società deduce “sul terzo rilievo: omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti (art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c.)”. Il giudice d’appello avrebbe dovuto stabilire se gli interessi derivanti dal rimborso d’imposta dovessero essere assoggettati a tassazione nel periodo di imposta in cui la società aveva presentato l’istanza di rimborso (tesi dell’ufficio) o se invece dovessero essere assoggettati a tassazione nel momento, successivo, in cui l’Ufficio avesse emanato un provvedimento di accoglimento dell’istanza di rimborso (tesi della società). La Corte di cassazione, con la sentenza n. 19702 del 2011, si è limitata ad affermare che gli interessi collegati al diritto al rimborso dovevano essere oggetto di deduzione secondo il principio di competenza e non per cassa; pertanto occorreva stabilire se, in base al principio di competenza, la tassazione degli interessi dovesse avvenire nel periodo di imposta in cui il contribuente presentava l’istanza di rimborso o nel momento, successivo, in cui l’Ufficio avesse emanato un provvedimento di accoglimento dell’istanza di rimborso. Il giudice d’appello ha omesso ogni verifica del caso, limitandosi ad affermare, quanto già sostenuto dalla Corte di cassazione, e cioè che doveva farsi applicazione al caso di specie del principio di competenza.
5. Con il quinto motivo di impugnazione (rubricato sub 9 a pagina 24) la ricorrente lamenta “ancora sul terzo rilievo: in subordine rispetto al motivo fatto valere nel precedente paragrafo 8, violazione dell’art. 75, comma 1 ratione temporis vigente (art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c.)”. Il giudice d’appello, nell’affermare che “tale assunto non è condivisibile va respinto”, riferendosi alla tesi della società sulla illegittimità dell’avviso di accertamento in relazione alla assoggettabilità a tassazione degli interessi sin dalla data di richiesta di rimborso da parte della società, ha violato la norma indicata, in quanto gli interessi sono fiscalmente rilevanti solo se sussiste in capo al contribuente un diritto certo alla loro corresponsione; il credito per interessi, quindi, dipende da un’attività di accertamento e di liquidazione del credito nella quota capitale, dall’estensione di tale attività alla linea interessi e dalla sua trasposizione in un atto amministrativo da portarsi a conoscenza del contribuente, ossia il provvedimento di rimborso. La rilevanza contabile fiscale degli interessi emerge solo dopo la conferma ad opera di un atto amministrativo di accoglimento della richiesta di rimborso; da tale momento in poi, il credito per interessi soggiace a rilevazione contabile fiscale per competenza, e quindi in progressione con la sua maturazione giuridica.
5. I motivi quarto e quinto, che vanno esaminati congiuntamente per strette ragioni di connessione, sono infondati.
5.1. Invero, questa Corte, con la sentenza n. 19702 del 2011, depositata il 27 settembre 2011, che ha cassato la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio, depositata l’11 aprile 2005, ha affermato che, quanto agli interessi attivi sui crediti di imposta, gli stessi dovessero essere dichiarati dalla società proprio nell’anno 1992, in base al principio di competenza. In particolare, si legge nella sentenza n. 19702 del 211 che “nessuna norma di legge autorizza una deroga, per gli interessi sui crediti d’imposta, ai criteri di imputazione per competenza fissati dall’art. 56 TUIR per gli interessi e dall’art. 75 TUIR per tutti i compenti positivi e negativi sul reddito d’impresa”. Si è precisato che “già nell’art. 74 del d.P.R. 597/73, i proventi – tra i quali si annoverano anche gli interessi attivi sui crediti e in particolare sui crediti d’imposta – concorrono a formare il reddito d’impresa nell’esercizio di competenza, a meno che la loro esistenza non sia ancora certa o il loro ammontare non sia ancora determinabile in modo oggettivo”; con l’ulteriore precisazione, che risulta poi fondamentale per la decisione della controversia in oggetto che “poiché detti interessi trovano titolo e criterio di determinazione (quanto al tasso applicabile) nella legge, non è configurabile un’incertezza che giustifichi l’applicazione della seconda parte della norma”; a chiarimento si evidenzia, poi, che “tale previsione è meglio esplicitata, con riguardo agli interessi, proprio nel Tuir, che all’art. 75, comma 1, conferma il criterio di competenza per tutti i componenti positivi e negativi del reddito di impresa, e all’art. 56, comma 3, stabilisce che tutti gli interessi attivi concorrono a formare il reddito per l’ammontare maturato nell’esercizio; nulla v’è, pertanto, che prevede il criterio di cassa in questa materia”.
Il giudice del rinvio, dunque, del tutto correttamente si è limitato ad applicare il principio di diritto di questa Corte, rigettando l’appello proposto dalla società, e ribadendo che gli interessi sui crediti di imposta erano assoggettabili a tassazione, secondo il principio di competenza e, quindi, nell’anno 1992 (“La Suprema corte nella sentenza qui riassunta ha affermato un principio di diritto al quale il giudice di merito deve attenersi ossia che <<in tema di determinazione del reddito di impresa-ai sensi degli articoli 56, comma terzo e 75, comma primo, del d.P.R. 917 del 1986-gli interessi sui crediti di imposta concorrono a formare il reddito nell’esercizio in cui vengono a maturazione, secondo la regola generale del criterio di competenza>>”); con l’aggiunta che tale “principio” era stato peraltro “correttamente affermato anche dalla sentenza di prime cure impugnata”.
In tal modo, il giudice del rinvio ha applicato il principio di diritto nella sua interezza.
Tra l’altro, in altro precedente di questa Corte si è ribadito quanto agli interessi attivi sui crediti di imposta che, poiché trovano titolo e criterio di determinazione – quanto al tasso applicabile – nella legge, non è per essi configurabile un’incertezza che giustifichi l’applicazione della seconda parte dell’art. 74 del d.P.R. n. 917 del 1986, all’epoca vigente (Cass., sez. 5, 20 dicembre 2002, n. 18173).
Va, peraltro, osservato che la società non ha indicato, né nel ricorso per cassazione, né nella memoria scritta, l’anno, diverso dal 1992, in cui avrebbe dichiarato tali interessi al Fisco.
6. Deve, però, essere accolta la doglianza della società, articolata nella memoria scritta, in ordine all’applicazione, quanto alla sanzione irrogata, dello ius superveniens costituito dal d.lgs. n. 158 del 2015. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata limitatamente alla determinazione dell’importo della sanzione.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; cassa la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della sanzione, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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