CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 23 novembre 2018, n. 30435
Rapporto di lavoro – Inquadramento – Svolgimento di mansioni superiori corrispondenti alla categoria dirigenziale – Accertamento
Rilevato che
1. con sentenza n. 9719 depositata il 13.1.2014 la Corte di appello di Roma, confermando la pronuncia resa dal Tribunale della stessa sede, ha respinto la domanda di E.S. proposta nei confronti di E. s.p.a. per l’accertamento dello svolgimento, in concreto, di mansioni superiori corrispondenti alla categoria dirigenziale sin da giugno 1985 (o, in subordine, da settembre 1992) e per il riconoscimento di un comportamento di demansionamento e mobbing tenuto dal datore di lavoro sin da dicembre 1997, con rigetto delle conseguenti domande economiche, ritenendo, in particolare, intervenuto (in data 15.3.2000) un accordo avente valore transattivo con riguardo alle pretese economiche correlate al superiore inquadramento;
2. avverso la sentenza, il S. propone ricorso per Cassazione, affidato a un motivo e la società resiste con controricorso.
Considerato che
3. il ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod.proc.civ., violazione o falsa applicazione delle norme dettate in materia di interpretazione degli atti negoziali (artt. 1362 e ss c.c.) nonché dell’art. 2113 cod.civ. non possedendo, l’accordo sottoscritto tra le parti in data 15.3.2000, i requisiti necessari per essere qualificato come transazione, essendosi limitato genericamente ad indicare una semplice forma di stile (che viene riportata: “a fronte della corresponsione delle somme di cui al punto 1, il sottoscritto rinunzia – anche in via transattiva – ad ogni ulteriore pretesa, azione, ragione nessuna esclusa, in relazione al pregresso rapporto lavorativo”);
4. il ricorso non è fondato;
5. secondo la prevalente giurisprudenza di questa Corte (v. ex plurimis, Cass. n. 9120 del 2015, Cass. n. 2146 del 2011, Cass. n. 729 del 2003), ai fini della qualificazione di una dichiarazione liberatoria sottoscritta dalla parte come quietanza o piuttosto come transazione, occorre considerare che la quietanza liberatoria rilasciata a saldo di ogni pretesa costituisce, di regola, una semplice manifestazione del convincimento soggettivo dell’interessato di essere soddisfatto di tutti i suoi diritti, e pertanto concreta una dichiarazione di scienza priva di alcuna efficacia negoziale; tuttavia, la stessa giurisprudenza ha chiarito che, nella dichiarazione liberatoria sono ravvisabili gli estremi di un negozio di rinunzia o transazione in senso stretto quando, per il concorso di particolari elementi di interpretazione contenuti nella stessa dichiarazione, o desumibili aliunde, risulti che la parte l’abbia resa con la chiara e piena consapevolezza di abdicare o transigere su propri diritti.
6. nel caso di specie, la sentenza impugnata, con motivazione logicamente coerente (che supera ampiamente il controllo di legittimità consentito dal novellato art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ.), ha interpretato l’atto di “transazione per risoluzione consensuale anticipata del rapporto di lavoro” stipulato il 15.3.2000 tra il ricorrente e la società come negozio di transazione (relativamente alle sole pretese vantate per le differenze retributive connesse al riconoscimento della qualifica superiore dirigenziale) alla stregua di alcuni riferimenti testuali contenuti nello stesso accordo (ossia il riferimento ad una fase di “confronto tra lavoratore e Azienda” che ha investito fra l’altro le “competenze” a vario titolo connesse al rapporto, e in particolare le “retribuzioni”), attraverso i quali, unitariamente interpretati, è stato possibile ricostruire, in un modo chiaro, che l’intenzione delle parti sottesa a tale accordo era quella di definire, in via transattiva “tutto ciò che sarebbe spettato a titolo di eventuali maggiori emolumenti stipendiali (che alla qualifica sono direttamente connessi)”, emergendo la causa transattiva (reciproche concessioni, rappresentato, da parte datoriale, in un consistente incentivo economico);
7. non è, pertanto, rinvenibile, nella sentenza impugnata alcuna violazione dei canoni di interpretazione negoziale né, d’altra parte, il ricorrente ha assolto l’onere, su di lui gravante a pena di inammissibilità del ricorso, di indicare specificamente il punto ed il modo in cui l’interpretazione fornita dalla Corte territoriale all’atto di transazione si è discostata dai canoni di ermeneutica (cfr. Cass. n. 2512 del 2013, Cass. n. 16376 del 2006);
8. il ricorso va, dunque, rigettato e le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza ex art. 91 cod.proc.civ.;
9. il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, e sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato;
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi ed in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
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