CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 agosto 2022, n. 25290
Licenziamento – Permessi fruiti ex art. 33 L. n. 104/1992 per attività non riconducibili all’assistenza del familiare – Uso improprio – Lesione del vincolo fiduciario
Fatti di causa
1. Con sentenza del 27.5.2019, il Tribunale di Bologna, respingendo l’opposizione principale di A.A.A.ed in accoglimento dell’opposizione incidentale della T. s.p.a., proposte avverso l’ordinanza emessa in data 31.8.2018, all’esito della fase sommaria del procedimento ex art. 1, co. 47 e sss., L. n. 92/2012 (che, in parziale accoglimento del ricorso della lavoratrice, aveva applicato la tutela ex art. 18, co. 5, L. n. 300/1970 ritenendo sproporzionata la sanzione disciplinare espulsiva comminata dalla datrice di lavoro col provvedimento di destituzione ex art. 45 R.D. n. 148/1931 in data 10.8.2016 per avere la dipendente utilizzato i permessi fruiti ex art. 33 L. n. 104/1992 per attività non riconducibili all’assistenza del padre e della zia invalidi), aveva dichiarato legittime la destituzione e l’avvenuta risoluzione del rapporto di lavoro tra la A. e la T., con condanna della prima alle spese processuali.
2. La citata ordinanza, resa all’esito della fase sommaria, richiamata Cass. n. 17968/2016, aveva rilevato che “le circostanze addebitate alla ricorrente, che appaiono sostanzialmente non contestate, fanno emergere che vi sia stato uno sviamento dell’utilizzo dei permessi rispetto all’assistenza del familiare in relazione al quale essi erano stati concessi, ma escludono che la ricorrente abbia impiegato tali permessi per scopi meramente personali. Appare invece che tale utilizzo sia stato, almeno prevalentemente, effettuato al fine di soddisfare esigenze familiari”, derivandone, tenuto conto del disvalore oggettivo della condotta e dell’elemento psicologico, la sproporzione della sanzione disciplinare del licenziamento rispetto all’illecito.
3. La sentenza emessa in sede d’opposizione, per contro, sintetizzate le risultanze dei pedinamenti operati su incarico della T. da investigatore privato di A. s.p.a., nelle giornate di 24, 25, 30 e 31 maggio 2016, di fruizione dei permessi in contestazione, aveva considerato che “tali permessi sono stati utilizzati per un tempo assolutamente prevalente per curare interessi e necessità personali, rispetto al tempo dedicato all’accudimento degli invalidi”, con la conseguenza che “l’uso improprio del permesso, anche soltanto per poche ore, costituisce un abuso del diritto, in forza del disvalore sociale allo stesso attribuitole, tale da determinare nel datore di lavoro la perdita della fiducia nei confronti del lavoratore e legittimare la sanzione del licenziamento per giusta causa (cfr. Cass. n. 17968/2016; Cass. n. 5574/2016)”.
4. Con la sentenza indicata in epigrafe, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della reclamata sentenza di primo grado, annullava il provvedimento di destituzione irrogato da T. s.p.a. all’A. in data 10.8.2016 e condannava la società datrice di lavoro alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e al pagamento dell’indennità risarcitoria commisurata a dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali e assistenziali dal giorno del licenziamento fino a quello della effettiva reintegrazione, maggiorati degli interessi nella misura legale, senza applicazione di sanzioni per omessa o ritardata contribuzione; condannava, inoltre, la T. alla refusione, a favore della A., delle spese processuali, liquidate, per compensi, in € 4.000,00 per la fase sommaria di primo grado, in € 5.000,00 per la fase ordinaria di primo grado, ed in € 8.000,00 per il secondo grado, oltre rimborso C.U., spese generali, IVA e cpa, come per legge.
5. Avverso tale decisione la T. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a sei motivi. Ha resistito l’intimata con controricorso.
6. Entrambe le parti hanno prodotto memorie.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente denuncia nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4), c.p.c. per violazione del d.l. 179/2012, art. 16 bis, comma 7, conv. con mod. dalla L. 221/2012, nella parte in cui la Corte d’appello aveva rigettato, nel capo richiamato nel punto “A”, la sua eccezione di tardivo deposito telematico del reclamo.
2. Col secondo motivo, deduce “Violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. della L. 104/1992, art. 33, comma 3, per avere ritenuto, nei capi richiamati nei punti “D” e “H”, che i permessi previsti dalla predetta norma possono essere utilizzati anche per svolgere incombenze pratiche non improcrastinabili senza la presenza del disabile ovvero per fornirgli conforto spirituale tramite la preghiera in chiesa. Conseguente violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. dell’art. 2119 c.c. e del R.D. 148/1931, all. A, art. 45.
3. Con un terzo motivo, deduce la “Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. per violazione degli artt. 112, 115, 345, 414 e 421 c.p.c. nonché della L. 92/2012, art. 1, commi 48 ss., nella parte in cui ha ritenuto provato, nel capo richiamato nel punto “D”, che tutte le commissioni siano state compiute nell’interesse dei disabili nonostante controparte, con riferimento al 24 maggio, non abbia mai allegato o non abbia comunque tempestivamente allegato la predetta circostanza.
4. Con il quarto motivo, deduce “Violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. della L. 104/1992, art. 33, comma 3, per avere ritenuto, nei capi richiamati nei punti “C”, “E”, “che possa avere rilievo ai fini della fruizione dei permessi anche un’attività di assistenza prestata al di fuori dell’orario di permesso”.
Conseguente violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. dell’art. 2119 c.c. e del R.D. 148/1931, all. A, art. 45.
5. Con il quinto motivo, deduce la “Nullità della sentenza ex art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c. per violazione degli artt. 112, 115, 345, 414 e 421 c.p.c. nonché della L. 92/2012, art. 1, commi 48 ss., nella parte in cui la Corte d’appello ha ritenuto provato, nel capo richiamato nel punto “E”, che la lavoratrice abbia prestato assistenza ai familiari al di fuori dell’orario di permesso anche nei giorni contestati nonostante controparte non abbia mai allegato o non abbia comunque tempestivamente allegato la predetta circostanza.
6. Con il sesto motivo, denuncia “Violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. della L. 104/1992, art. 33, comma 3, per avere ritenuto la Corte d’appello, nei capi richiamati nei punti “E”, “F”, ed “I”, che la fruizione dei permessi previsti dalla predetta norma debba essere considerata legittima anche a fronte di un parziale uso degli stessi per esigenze personali del tutto estranee alle finalità assistenziali cui sono preposti. Omesso esame ex art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. del tempo trascorso dalla lavoratrice con la madre per cui non usufruiva dei permessi previsti dalla L. 104/1992. Conseguente violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. dell’art. 2119 c.c. e del R.D. 148/1931, all. A, art. 45.
7. Il primo motivo è privo di fondamento.
Premesso che i punti A), B), C), D), E), F), G), H), I) ed L), come richiamati nell’esposizione dei motivi di ricorso, si riferiscono a parte dello stesso atto nella quale si dà conto, appunto per paragrafi così distinti per lettere dell’alfabeto, di quanto, secondo la ricorrente, ritenuto e statuito nella sentenza qui impugnata (cfr. pagg. 10-12 dell’atto di ricorso), la stessa nella sua preliminare censura di rito si duole del fatto che detta sentenza abbia “ritenuto, nel capo richiamato nel precedente punto “A”, che ai sensi dell’art. 16 bis, comma 7, del D.L. 179/2012, conv. con mod. dalla L. 221/2012, il ricevimento della seconda PEC garantisca la tempestività del deposito anche in un caso, come quello in esame, in cui il deposito telematico non sia andato a buon fine, essendo stato rifiutato dalla cancelleria per un errore commesso dal ricorrente (N.d.R.: rectius, dall’allora reclamante innanzi alla Corte d’appello), e sia stato nuovamente effettuato quando erano ormai decorsi i termini per l’impugnazione della sentenza”. Deduce in tal senso che: “Nel caso di specie controparte ha tentato il deposito del suo reclamo in data 26.6.2019, vale a dire in quello che, ai sensi dell’art. 1 comma 58 della L. 92/2012, era l’ultimo giorno utile per impugnare la sentenza del Tribunale di Bologna comunicata in data 27.5.2019 (v. docc. IV e V allegati al presente ricorso e docc. 3 e 4 fascicoletto). Il predetto deposito non è andato a buon fine. La cancelleria lo ha infatti rifiutato il giorno successivo per un errore di controparte, precisando, nella quarta PEC con cui ha comunicato il rifiuto della busta, che “il fascicolo ATP/Fornero selezionato non è presente in questo ufficio”, con conseguente impossibilità di inserire l’atto nel fascicolo corretto (v. doc. 5 avv. Depositato con l’istanza di rimessione in termini proposta alla Corte d’Appello, che si produce sub doc. XI in allegato al presente ricorso e doc. 19 fascicoletto). Quello stesso giorno, quando era ormai scaduto il termine di impugnazione, controparte ha ridepositato l’atto con successo (v. doc. XII allegato al presente ricorso e doc. 20 fascicoletto), presentando successivamente un’istanza di rimessione in termini (v. doc. XIII allegato al presente ricorso e doc. 21 fascicoletto). T. si è costituita eccependo l’inammissibilità del reclamo avversario per tardività del relativo deposito (v. mem. cost. reclamo, pag. 25 ss., nel fascicolo della fase di reclamo sub doc. III e doc. 18 fascicoletto).
La Corte d’Appello, come si è detto, ha ritenuto infondata la predetta eccezione affermando che ai sensi dell’art. 16 bis, comma 7, del D.L. 179/2012 il deposito telematico degli atti si perfeziona, ai fini della verifica della tempestività, nel momento in cui viene generata la seconda PEC.
Tale statuizione non è corretta. Questa Suprema Corte, con la pronuncia n. 28982/2019, ha infatti di recente chiarito che il perfezionamento del deposto con la seconda PEC costituisce un “effetto anticipato e provvisorio rispetto all’ultima PEC, cioè subordinatamente al buon fine dell’intero procedimento di deposito, che è quindi fattispecie a formazione progressiva”, e solo con l’accettazione dell’atto da parte della cancelleria “si consolida l’effetto provvisorio anticipato di cui alla seconda PEC” (così Cass. 28982/2019; cfr. Cass. 17328/2019″.
8. Ebbene, di recente questa Corte ha statuito che, in tema di protezione internazionale, il deposito telematico del ricorso avverso il provvedimento di diniego della Commissione territoriale, ancorché avvenuto presso un ufficio di cancelleria non competente per l’iscrizione (nel caso di specie, mediante invio al registro di volontaria giurisdizione, anziché registro contenzioso civile), si perfeziona al momento della ricevuta di avvenuta consegna, non rilevando, invece, che a seguito del rifiuto la parte abbia indirizzato un secondo deposito al registro corretto; ciò in quanto il deposito telematico degli atti si perfeziona nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata, ai sensi dell’art. 16 bis, comma 7, del d.l. n. 179 del 2012 (conv. con mod. in l. n. 221 del 2012), e non a seguito del messaggio di esito dei controlli manuali di accettazione della busta telematica della cancelleria (così Cass. civ., sez. I, 10.3.2021, n. 6743, in fattispecie analoga a quella che ci occupa, in cui era stata ricevuta la quarta PEC in termini non positivi, ma questa Corte aveva considerato che: “il ricorso è pervenuto presso l’organo giudiziario competente, la cancelleria ha aperto la busta e ha comunicato l’errore di individuazione del registro, dopodiché la procedura è stata ripetuta e la seconda volta con esito di accettazione. Pertanto, posto che la parte ha comunque ripreso il procedimento e lo ha condotto a buon fine indirizzando il (secondo) deposito al registro corretto, il giudice per verificare la tempestività del deposito non avrebbe dovuto valorizzare la data del secondo deposito telematico (3.12.2015) eseguito dopo il rifiuto della “busta”, ma la data della seconda PEC o ricevuta di avvenuta consegna del primo deposito, quello erroneamente indirizzato al registro di volontaria giurisdizione“. Sotto altro profilo, ma analogamente, Cass. civ., sez. III, 11.11.2020, n. 25289, ha deciso che, ai sensi del d.l. n. 179/2012, art. 16-bis, comma 7, conv. con modificazioni, nella L. n. 221/2012, il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia, sicché da quel momento, essendosi perfezionato il deposito, non residua pertanto alcuno spazio per un rifiuto di ricezione degli atti per irregolarità fiscale degli stessi, ai sensi del d.P.R. n. 115/2002, art. 285.
Per altro verso, nella sua motivazione Cass. civ., sez. VI, 28.1.2021, n. 1956, aveva rilevato che <questa Corte ha già avuto modo di osservare, ponendo l’accento sul momento e sul rilievo dei controlli automatici (terza pec) e dei controlli manuali (quarta pec), che: “Con tale accettazione, e solo a seguito di essa, si consolida l’effetto provvisorio anticipato di cui alla seconda Pec e, inoltre, il file viene caricato sul fascicolo telematico, divenendo così visibile alle controparti”>, richiamando in proposito un passo della motivazione di Cass. civ., sez. I, 8.11.2019, n. 28982, ossia, la decisione cui fa segnatamente riferimento la ricorrente nel motivo ora in esame.
9. Tanto considerato, appare opportuno, per ragioni di chiarezza, premettere che, sul piano effettuale del processo civile telematico (in sigla PCT), e prescindendo per adesso da richiami normativi, la parte che esegue un deposito in via telematica riceve ben quattro messaggi PEC: la ricevuta di accettazione (in sigla RdA), c.d. prima ricevuta, che viene rilasciata dal gestore PEC utilizzato dalla parte depositante a fronte dell’invio della busta telematica contenente l’atto da depositare; la ricevuta di avvenuta consegna (RdAC), c.d. seconda ricevuta, che viene rilasciata nel momento in cui il messaggio contenente la busta telematica è ricevuto nella casella PEC del Ministero della Giustizia; il messaggio di esito dei controlli automatici svolti sulla busta telematica dal gestore dei servizi telematici del Ministero della Giustizia, c.d. terza PEC; il messaggio di esito dei controlli c.d. manuali (umani) a seguito dell’intervento della cancelleria di destinazione quando viene accettata (o meno) la busta telematica, ossia, la c.d. quarta PEC.
10. Orbene, rileva anzitutto questo Collegio che l’unica norma di rango primario era all’epoca del contestato deposito del reclamo, e rimane tuttora, l’art. 16 bis, comma 7, d.l. n. 179/2012, conv. Con mod. in L. n. 221/2012, che al primo periodo recita: “Il deposito con modalità telematiche si ha per avvenuto al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica del ministero della giustizia”, vale a dire, la c.d. seconda PEC, cui fanno riferimento tutti i precedenti di legittimità a riguardo; norma, questa, che neppure si occupa della terza e della quarta PEC. Con tale previsione risultava a posteriori coerente l’anteriore art. 13, comma 2, D.M. 21.2.2011, n. 44 (trattasi, infatti, di norma di natura regolamentare introdotta prim’ancora dell’emanazione del d.l. n. 179/2012), a termini del quale: “i documenti informatici di cui al comma 1 (n.d.r.: tra i quali sono compresi atti del processo) si intendono ricevuti dal dominio giustizia nel momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del Ministero della giustizia”. Peraltro, il comma 3, primo periodo, dello stesso art. 13 cit. specificava che: “Nel caso previsto dal comma 2 la ricevuta di avvenuta consegna attesta, altresì, l’avvenuto deposito dell’atto o del documento presso l’ufficio giudiziario competente”. Il seguente comma 4 sempre dell’art. 13 cit. del D.M., per la parte residua rimasta vigente, recita: “il rigetto del deposito da parte dell’ufficio non impedisce il successivo deposito entro i termini assegnati o previsti dalla vigente normativa processuale”. Tale essendo, allora, il quadro normativo da considerare (ovviamente non hanno rango di norme primarie o secondarie le apposite Specifiche tecniche sul PCT), si può senz’altro confermare che il perfezionamento del deposito telematico va cronologicamente fissato al momento della generazione della c.d. seconda PEC, come stabilisce l’art. 16 bis, comma 7, d.l. n. 179 del 2012, poi conv. in L. n. 221/2012 (come da tempo insegnato da questa Corte), nondimeno specificandosi che solo a seguito dell’accettazione della quarta ed ultima PEC, si consolida l’effetto provvisorio anticipato di cui alla seconda PEC.
Occorre, tuttavia, precisare che gli esiti sia dei controlli automatici che di quelli finali c.d. manuali (del personale di cancelleria), quali che siano (anche quindi in ipotesi di risultato apparentemente positivo dei controlli), restano a loro volta soggetti al vaglio del giudice procedente, nel caso in cui tali esiti formino oggetto di contestazioni tra le parti, o anche d’ufficio (quando trattasi, come nel caso di specie, di verificare la tempestività di un’impugnazione); non diversamente da un comune deposito in cancelleria “tradizionale” su carta o rifiuto dello stesso da parte della cancelleria, che pure sarebbero soggetti comunque al controllo giudiziale.
I precedenti di legittimità richiamati al precedente § 8 di questa motivazione sono appunto espressivi del principio secondo il quale le ragioni di eventuali rifiuti del deposito telematico (per warn o error, magari fatal error, secondo le varie declinazioni dei tipi di errore nel gergo informatico, o di natura fiscale, come nel caso deciso da Cass. n. 1956/2021 cit.) non sono insindacabili, ma restano soggette all’ultimativo controllo del giudice procedente, allo scopo di verificare se “errori” rilevati in automatico dal sistema oppure dalla cancelleria destinataria del suo ufficio possano effettivamente reputarsi ostativi ad un definitivo consolidamento degli effetti del deposito stesso, il cui perfezionamento dall’unica norma primaria vigente a riguardo è ricollegato esclusivamente “al momento in cui viene generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia”.
11. Tornando allora al caso che ci occupa, appare corretta la decisione gravata laddove, nel respingere l’eccezione di intempestività del reclamo, ha fatto riferimento appunto al disposto di cui all’art. 16-bis, comma 7, d.l. cit., ed ha ritenuto che, ai fini della tempestività del reclamo, occorreva far capo al momento in cui era stata generata la ricevuta di avvenuta consegna da parte del gestore di posta elettronica certificata del ministero della giustizia (c.d. seconda PEC).
Invero, trattandosi di dedotto error in procedendo, questa Corte può prendere diretta cognizione degli atti da considerare, per constatare che la ragione esclusiva del postumo rifiuto al deposito dell’atto di reclamo, opposto dalla Cancelleria del giudice a quo (con la c.d. quarta PEC), era che nell’invio della reclamante era stato indicato anche il numero del fascicolo relativo al procedimento c.d. Fornero del grado precedente; fascicolo all’evidenza “non presente” nell’ufficio di secondo grado, come constatato dalla Cancelleria, perché solo appunto il deposito dell’atto d’impugnazione della A. avrebbe introdotto un procedimento (di reclamo) del tutto nuovo per la Corte d’appello. Risulta, del resto, ex actis che la stessa Cancelleria della Corte d’appello, precisando che il fascicolo era visibile e completo, suggeriva l’invio di un’istanza di rimessione in termini che consentisse di forzare il sistema, ed espungere il riferimento al rito Fornero.
12. Alla luce, dunque, di tali piani rilievi, pur essendo l’erronea indicazione del fascicolo “selezionato” imputabile alla parte reclamante, detto errore non aveva impedito già alla Cancelleria di comprendere quale fosse l’atto che era stato ricevuto, la sua natura e a chi fosse rivolto, così come sia la controparte della reclamante che la Corte d’appello adita non hanno potuto nutrire dubbi che si trattasse appunto di un reclamo proposto a seguito di giudizio svoltosi in prime cure secondo il rito c.d. Fornero, e rivolto alla competente Corte territoriale.
Pertanto, l’errore in questione non ostava assolutamente a far reputare già perfezionato il deposito del reclamo all’atto della generazione della seconda PEC, di talché il secondo deposito, in ipotesi tardivo, non assume la benché minima rilevanza, essendo semplicemente confermativo della venialità dell’errore iniziale (il secondo deposito fu identico al precedente, fatta eccezione per l’espunzione dell’indicazione del fascicolo ATP Fornero), in quanto non in grado di fuorviare alcuno circa forma, contenuto, natura e destinatario dell’atto oggetto del deposto telematico e, quindi, non produttivo tra l’altro di alcuna nullità. Né in siffatto contesto la reclamante era tenuta a percorrere con successo la strada di un’istanza di rimessione in termini (istanza di fatto proposta, ma neppure, a quanto consta, presa in considerazione dal giudice a quo, non essendovene bisogno), sicché sono perfettamente ininfluenti le considerazioni svolte dalla ricorrente circa tale ulteriore sviluppo della vicenda processuale.
13. Passando all’esame degli ulteriori cinque motivi, essi possono essere anzitutto congiuntamente vagliati, essendo all’evidenza strettamente connessi.
Anzi a quest’ultimo proposito va sottolineato che la moltiplicazione di motivi, riferiti ognuno a singole quote della motivazione dell’impugnata sentenza, rivela una strategia d’attacco parcellizzata a quest’ultima, che finisce col non coglierne e tradirne l’effettiva ed unitaria ratio decidendi in fatto e in diritto.
14. Ciò per ora rilevato, per pacifica giurisprudenza di questa Corte può costituire giusta causa di licenziamento l’utilizzo, da parte del lavoratore che fruisca di permessi ex lege n. 104 del 1992, in attività diverse dall’assistenza al familiare disabile, con violazione della finalità per la quale il beneficio è concesso (Cass. n. 4984 del 2014; Cass. n. 8784 del 2015; Cass. n. 5574 del 2016; Cass. n. 9749-del 2016; ancora di recente: Cass. n. 23891 del 2018 e Cass. n. 8310 del 2019).
In coerenza con la ratio del beneficio, l’assenza dal lavoro per la fruizione del permesso deve porsi in relazione diretta con l’esigenza per il cui soddisfacimento il diritto stesso è riconosciuto, ossia l’assistenza al disabile. Tanto meno la norma consente di utilizzare il permesso per esigenze diverse da quelle proprie della funzione cui la norma è preordinata: il beneficio comporta un sacrificio organizzativo per il datore di lavoro, giustificabile solo in presenza di esigenze riconosciute dal legislatore (e dalla coscienza sociale) come meritevoli di superiore tutela. Ove il nesso causale tra assenza dal lavoro ed assistenza al disabile manchi del tutto non può riconoscersi un uso del diritto coerente con la sua funzione e dunque si è in presenza di un uso improprio ovvero di un abuso del diritto (cfr. Cass. sez. VI, 16.6.2021, n. 17102; id., sez. lav., 19.7.2019, n. 19580; id., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310; id., sez. lav., 13.9.2016, n. 17968), oppure, secondo concorrente o distinta prospettiva, di una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede sia nei confronti del datore di lavoro (che sopporta modifiche organizzative per esigenze di ordine generale) che dell’ente assicurativo (anche ove non si volesse seguire la figura dell’abuso di diritto che comunque è stata integrata tra i principi della Carta dei diritti dell’unione Europea (art. 54), dimostrandosi così il suo crescente rilievo nella giurisprudenza Europea: in termini v. Cass. n. 9217 del 2016).
15. Tutto ciò premesso la verifica in concreto, sulla base dell’accertamento in fatto della condotta tenuta dal lavoratore in costanza di beneficio, dell’esercizio con modalità abusive difformi da quelle richieste dalla natura e dalla finalità per cui il congedo è consentito appartiene alla competenza ed all’apprezzamento del giudice di merito (in termini: Cass. n. 509 del 2018; v. anche Cass. n. 29062 del 2017; Cass. n. 30676 del 2018).
Nondimeno, in relazione a fattispecie concrete più simili a quella che ci occupa, questa Corte ha sancito che deve ritenersi illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore per abuso dei permessi assistenziali ex art. 33 L. n. 104 del 1992 allorché sia emerso in corso di causa che il lavoratore aveva utilizzato tali permessi per attendere a finalità assistenziali in favore della ex moglie presso la propria abitazione (cfr. Cass. sez. lav., 20.8.2019, n. 21529, in cui fu respinta la tesi datoriale secondo cui vi era, quantomeno, un inadempimento parziale da parte del lavoratore, atteso che una parte della giornata in cui aveva fruito del permesso non era stata dedicata all’assistenza al disabile); ovvero che la condotta del lavoratore nella fruizione dei permessi retribuiti previsti dalla L. 5 febbraio 1992, n. 104, consistente nell’aver svolto l’attività assistenziale soltanto per una parte marginale del tempo totale concesso, concreta un abuso in grave violazione dei principi di correttezza e buona fede nell’esecuzione del contratto di cui agli artt. 1175 c.c. e 1375 c.c. e costituisce pertanto giusta causa di recesso del datore di lavoro (così Cass. sez. lav., 22.3.2016, n. 5574, già cit.).
16. Ebbene, la Corte bolognese non ha mai affermato nella sua pronuncia il “principio” che la ricorrente, invece, le attribuisce nel secondo motivo, e, cioè, che i permessi previsti dall’art. 33, comma 3, L. n. 104/1992 possano essere utilizzati anche per svolgere incombenze pratiche non improcrastinabili senza la presenza del disabile ovvero per fornirgli conforto spirituale tramite la preghiera in chiesa; così come non ha mai ritenuto, come invece sostenuto nel quarto motivo, che “possa avere rilievo ai fini della fruizione dei permessi anche un’attività di assistenza prestata al di fuori dell’orario di permesso”. Neppure ha affermato che “la fruizione dei permessi previsti dalla predetta norma debba essere considerata legittima anche a fronte di un parziale uso degli stessi per esigenze personali del tutto estranee alle finalità assistenziali cui sono preposti”, come invece ad essa Corte di merito è ascritto nel sesto motivo di ricorso.
17. La Corte distrettuale ha, piuttosto, considerato quanto segue:
“La prova ha avuto chiaro esito favorevole alle tesi della reclamante, confermando gli elementi indiziari di carattere documentale ab initio prodotti dalla lavoratrice in punto d’inerenza all’attività assistenziale dei suoi soggiorni presso l’agenzia assicuratrice (dell’auto della zia), presso l’officina meccanica e il gommista (per interventi sull’auto della zia, unica idonea al trasporto degli invalidi), presso farmacia e supermercato (per i relativi approvvigionamenti per i congiunti non autosufficienti e non deambulanti), presso il bancomat e l’ufficio postale (attività da svolgersi in supplenza degli inabilitati).
Le testimonianze di P.L., residente presso l’abitazione del padre, M.L.religionaria degli A., O.E.L. vicino di casa, e R.M.G., agente assicurativo, hanno chiarito l’assiduità della presenza presso i congiunti della A. nell’arco dell’intera giornata (v. in particolare O., che si riferisce con nettezza a tutti i giorni nella buona stagione), l’assiduità dello svolgimento delle suddette commissioni per conto dei congiunti e l’autenticità e profondità della fede religiosa di tutti i prefati A..
Ne discende che, per un verso, le risultanze delle prove documentali e testimoniali acclarano l’inerenza all’attività assistenziali, in aggiunta alle 9 ore di presenza personale, delle 10 ore e 16 minuti impiegati in commissioni e di parte delle ore d’intrattenimento della A. in chiesa – posto che, entro ragionevoli limiti, prestare i “conforti religiosi” a chi è impossibilitato a recarvisi integra attività di sostegno psicologico e morale per chi li invoca (e tale considerazioni va fatta in termini strettamente sociologici, senza arbitraria sovrapposizione delle personali convinzioni dell’interprete).
Ne discende che, per altro verso, è provato che nell’arco della giornata, e anche di quelle giornate in specifico, la A. si è intrattenuta presso i congiunti invalidi in orari diversi da quelli – unici monitorati dagli investigatori – corrispondenti alle prestazioni orarie di lavoro sopperite coi permessi, con la conseguenza che, parametrato su base giornaliera l’obbligo assistenziale, la permanenza presso la propria abitazione per un certo tempo perde il connotato dell’abusività (e l’attività effettivamente estranea si riduce alle ore dedicate dalla A. ai propri “esercizi spirituali”).
La risultante è che anche sull’arco delle trentadue ore preso a riferimento da T. l’attività assistenziale svolta dalla A. è prevalente, per presenza personale e per inerenza, e, soprattutto, è decisamente minoritaria e suvvalente l’attività estranea o incompatibile con la funzione dei permessi.
Va tuttavia stigmatizzato con nettezza, a questo punto, il parametro abnorme in senso tecnico, assunto a riferimento da T. per il controllo circa la correttezza fruizione dei permessi, che va inteso su base giornaliera e non per corrispondenza all’orario di lavoro che in difetto del permesso il lavoratore avrebbe prestato.
Va tuttavia stigmatizzato con nettezza, a questo punto, l’ulteriore presupposto della tesi sviluppata da T. e cioè che l’assistenza agli invalidi vada identificata, con la presenza personale dell’assistente presso l’assistito, di talché sinonimo di assistenza sarebbero indefettibilmente il piantonamento e la scorta dell’invalido: invero la locuzione normativa e l’intero ordito della legge 104 non autorizzano tale inferenza che collide col buon senso e con l’evidenza sanitaria per cu i permessi sono concessi per un ventaglio di gravi patologie che non comportano l’allettamento dell’invalido ed implicano dunque variabili e variegate attività di supporto, sia diretto che indiretto, da parte di chi l’assiste. La teorica proposta dalla reclamata si rivela dunque strumentale e fuori di luogo, a fronte della fattispecie in esame, l’uso di locuzione enfatiche nell’insistita qualificazione di abusività e di rilevanza penale della condotta della A.” (così alle pagg. 7-8 dell’impugnata sentenza).
18. Tali considerazioni sviluppate dalla Corte territoriale sono anzitutto, per una prima parte, squisitamente riferibili al terreno probatorio.
Infatti, si tratta evidentemente di una ricostruzione della vicenda fattuale che non può essere rimessa in discussione innanzi a questa Corte di legittimità.
Del resto, ribadito che il grado di sviamento della condotta concreta rispetto al legittimo esercizio del congedo spetta al giudice del merito, la prospettiva di parte ricorrente denuncia una visione meramente quantitativa dell’assistenza rispetto alla quale occorre invece che risultino complessivamente salvaguardati i connotati essenziali di un intervento assistenziale (v. Cass. n. 29062/2017 cit.) che deve avere carattere permanente e globale nella sfera individuale e di relazione del disabile, tenuto altresì conto dei valori di rilievo costituzionale coinvolti dalla disciplina in esame che postulano una peculiare e rafforzata tutela degli interessi regolati (v. Corte Cost. n. 232 del 2018).
La Corte di merito, quindi, nelle sue valutazioni giuridiche delle risultanze acquisite non ha violato alcuna delle norme di diritto sostanziale, richiamate dalla ricorrente. In particolare, l’esclusione dei parametri o presupposti che dir si voglia, che la stessa ha affermato, sfugge a qualsiasi censura sul duplice rilievo che i permessi ex art. 33, comma 3, L. n. 104/1992, da un lato, sono delineati quali permessi giornalieri (tre al mese), e non su base oraria o cronometrica, e, dall’altro, possono essere fruiti “a condizione che la persona handicappata non sia ricoverata a tempo pieno”, ma per assistere, in forme non specificate, segnatamente in termini infermieristici o di accompagnamento, una “persona con handicap in situazione di gravità”.
19. In seno al secondo motivo, la ricorrente chiede che questa Corte, <nell’esercizio della funzione nomofilattica …, chiarisca se la preghiera in chiesa per i propri cari possa rientrare nel perimetro applicativo dell’art. 33, comma 3, della L. 104/1992, così regolando una fattispecie concreta che, per riprendere le parole di Cass. 34108/2019, sarà sicuramente “idonea a fungere da modello generale di comportamento in una serie indeterminata di casi analoghi”>.
Ritiene, però, il Collegio che il caso in esame non si presti assolutamente all’intervento nomofilattico immaginato dalla ricorrente.
S’è già visto, infatti, che la Corte bolognese, previa una corretta presa di distanza laica in punto di dedizione alla religione osservata dalla lavoratrice e dai familiari assistiti, aveva considerato effettivamente estranee all’area assistenziale tutelata solo le <ore dedicate dalla A. ai propri “esercizi spirituali”> (alludendo ovviamente ai tempi di raccoglimento religioso della lavoratrice a titolo individuale), mentre aveva considerato solo in parte a favore della stessa i tempi di trattenimento in chiesa.
20. La decisione gravata non aveva mancato di concludere che:
“La giurisprudenza chiamata ad esprimersi su consimili fattispecie ha espresso indirizzi di giusto rigore rispetto al noto fenomeno dell’abusiva fruizione di provvidenze assistenziali a carico della collettività a scopi personali, ma i parametri di rilevazione restano sempre incardinati al dato normativo e quindi alla sanzione dello svolgimento di attività incompatibili o estranee al dovere di assistenza, prevalenti o significativamente incidenti sull’arco della giornata di astensione al lavoro, ovvero della fruizione dei permessi in funzione soltanto astrattamente compensativa della presunta assistenza prestata” (così a pag. 8).
Tale approdo rispetto al caso, come approfonditamente valutato dai giudici di secondo grado, è conforme ai più recenti precedenti di questa Corte in subjecta materia, i quali, quando hanno confermato le decisioni di merito che avevano ritenuto legittimi i licenziamenti intimati per contestati abusi circa i permessi in questione, lo hanno fatto in relazione a casi concreti significativamente difformi rispetto a quello che qui ci occupa (cfr. Cass., sez. VI, 16.6.2021, n. 17102, relativa a conferma di licenziamento del lavoratore che durante i permessi ex lege 104 aveva svolto attività incompatibili con l’assistenza alla madre, essendosi recato prima presso il mercato, poi al supermercato e infine al mare con la famiglia, piuttosto che presso l’abitazione della madre; Cass., sez. lav., 25.3.2019, n. 8310, relativa a fattispecie in cui il dipendente di una municipalizzata aveva chiesto ed ottenuto alcuni permessi per assistere il padre, che, invece, risultava essere regolarmente operativo nella stessa azienda del figlio).
21. Infine, rilievo comune a tutti i motivi di ricorso ulteriori rispetto al primo è che, come ben risulta dagli estesi sviluppi di ognuno di essi, la ricorrente propone anzitutto una propria rivalutazione della fattispecie concreta sul piano probatorio, preclusa ovviamente in questa sede.
In ogni caso, con precipuo riferimento ai motivi di ricorso terzo e quinto, che concernono appunto le risultanze processuali, le allegazioni e le prove rispettivamente indotte o richieste dalle parti, i giudici di secondo grado anzitutto hanno dato estesamente conto anche di tutto questo, compreso il dato che l’allora reclamante A. avesse censurato la sentenza di primo grado perché “alla lavoratrice non è stato consentito dimostrare il collegamento delle incombenze svolte durante i permessi con l’assistenza ai parenti disabili”, con conseguente reiterazione delle prove testimoniali già dedotte (cfr. pagg. 2-5 dell’impugnata sentenza). Indi, la Corte aveva osservato “che l’onere della prova della giusta causa del licenziamento, cioè dell’utilizzo abusivo dei permessi ex legge n. 104 da parte della A., grava su T., la quale ha fornito, tramite le risultanze non contestate della relazione investigativa, elementi in tal senso di sicuro valore indiziario. Ma tali elementi non integrano in sé la prova dell’abuso, comportando piuttosto l’inversione dell’onere della prova in capo alla lavoratrice, quando oggetto di contestazione è l’inerenza all’assistenza agli invalidi di parte assai significativa (pari a circa il 72% del tempo complessivo, secondo il minutaggio offerto da T.) delle attività svolte nelle giornate in questione dalla A.”; e che: “Rimediando alla carenza d’istruttoria in primo grado, questa Corte, con ordinanza in data 24.9.2019, escluse le prove, richieste anche dalla reclamata, afferenti circostanze irrilevanti ovvero documentate ovvero non contestate, ha ammesso testi e capitoli indotti dalla reclamante principale sul sopra delineato punto effettivamente controverso e rilevante ai fini della decisione della causa: lo svolgimento da parte della A. dell’attività di assistenza al padre e alla zia nell’arco temporale di osservazione da parte dell’agenzia investigativa e sul complessivo arco temporale delle giornate di fruizione dei permessi” (così a pag. 6 della sua sentenza).
Detti motivi, pertanto, erano anche privi di fondamento in termini di violazione dei principi di allegazione, di non contestazione e di distribuzione dell’onere della prova, segnatamente con riferimento al permesso fruito nel giorno 24 maggio 2016 ed all’assistenza prestata ai familiari al di fuori dell’orario di permesso anche nei giorni contestati, in quanto i cennati aspetti certamente rientravano nel dibattito processuale ed avevano infatti formato oggetto delle prove testimoniali ammesse ed assunte solo in secondo grado, poi globalmente considerate dalla Corte d’appello insieme alle ulteriori risultanze processuali, comprese quelle di natura documentale.
22. La ricorrente, pertanto, di nuovo soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuta al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 200,00 per esborsi e Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% e I.V.A e C.P.A. come per legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.
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