CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 24 giugno 2021, n. 18081
Tributi – IVA – Professionista – Compensi incassati dopo la cessazione della partita IVA
Rilevato che
Dall’esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle Entrate aveva notificato a P.M. un avviso di accertamento con il quale aveva contestato l’omessa fatturazione ai fini Iva e la presentazione di dichiarazione infedele; avverso il suddetto atto impositivo il contribuente aveva proposto ricorso, evidenziando di avere cancellato la partita Iva nell’anno 2008 e di avere incassato solo nel 2010, quindi dopo la cancellazione, l’importo a lui spettante per l’attività professionale in precedenza svolta, sicché non aveva assoggettato l’importo ad Iva per carenza del presupposto soggettivo; la Commissione tributaria provinciale di Varese aveva rigettato il ricorso; il contribuente aveva proposto appello;
la Commissione tributaria regionale della Lombardia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: non sussisteva il vizio di motivazione della sentenza di primo grado; la pretesa dell’amministrazione finanziaria era legittima, in quanto, sino a quando il professionista non definisce i rapporti pendenti, compresi gli incassi, è obbligato a tenere aperta la partita Iva, oppure a emettere la fattura indipendentemente dall’effettivo incasso; con riferimento alle sanzioni, non era riscontrabile una condizione di obiettiva incertezza normativa;
il contribuente ha quindi proposto ricorso per la cassazione della sentenza affidato a due motivi di censura, illustrati con successiva memoria, cui ha resistito l’Agenzia delle Entrate depositando controricorso;
Considerato che
con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione degli artt. 5, 6, e 35, n. 4), d.P.R. n. 633/1972, nonché ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per contraddittorietà ed illogicità della motivazione; in particolare, parte ricorrente: a) lamenta, sotto il profilo del vizio di motivazione, che sarebbe illogica l’affermazione del giudice del gravame secondo cui il professionista deve tenere aperta la partita Iva fino a quando non definisce tutti i rapporti giuridici pendenti, ovvero, in alternativa, deve emettere subito la fattura indipendentemente dall’effettivo incasso; b) evidenzia, sebbene come vizio di cui all’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., che la suddetta affermazione sarebbe comunque viziata per violazione di legge, in quanto dal combinato disposto degli artt. 5 e 6, d.P.R. n. 633/1972, deriverebbe il principio che, se il pagamento viene effettuato in un momento in cui il soggetto che lo riceve non esercita più l’attività professionale, l’operazione non è rilevante ai fini Iva, in quanto è il momento del pagamento che individua il tempo di effettuazione delle prestazioni; il motivo è in parte inammissibile in parte infondato; ed invero, con riferimento al profilo di censura prospettato ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), per illogicità della motivazione, va ribadito che l’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., nel testo novellato dall’art. 54, decreto-legge 22 giugno 2012, n. 83, convertito dalla legge n. 134/2012, deve essere interpretato, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al “minimo costituzionale” del sindacato di legittimità sulla motivazione ed è pertanto denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione (Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U, 28 ottobre 2020, n. 23746);
nella fattispecie, parte ricorrente non evidenzia nessuno dei profili entro i cui limiti questa Corte ritiene censurabile la sentenza per vizio di motivazione, rappresentando, solo genericamente, una ritenuta non logicità della motivazione della sentenza del giudice di secondo grado;
peraltro, il ragionamento del giudice del gravame, basato sulla considerazione della sussistenza dell’obbligo del contribuente, professionista, di procedere comunque al versamento dell’Iva anche dopo la cancellazione della partita Iva qualora il corrispettivo della prestazione dallo stesso resa sia successiva alla suddetta cancellazione, non solo è coerente, sotto il profilo logico, ma è anche corretta in considerazione della disciplina normativa di riferimento; sotto quest’ultimo aspetto, viene in considerazione il secondo profilo di censura prospettato dal contribuente con il presente motivo; va osservato, in primo luogo, che, sebbene il profilo di censura sia stato proposto quale error in procedendo, cioè ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., lo stesso può essere riqualificato, tenuto conto del contenuto complessivo del motivo, quale ragione di censura che attiene alla violazione di legge, da prospettarsi ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., atteso che, in sostanza, parte ricorrente sostiene che non correttamente il giudice del gravame avrebbe ritenuto che, ove il pagamento del corrispettivo venga effettuato in data successiva alla chiusura della partita Iva, sarebbe comunque rilevante ai fini Iva; questo profilo di censura, sebbene riqualificato, è tuttavia infondato; questa Corte (Cass. Sez. U., 21 aprile 2016, n. 8059) ha affermato il seguente principio di diritto: «il compenso di prestazione professionale è imponibile a fini Iva, anche se percepito successivamente alla cessazione dell’attività, nel cui ambito la prestazione è stata effettuata, ed alla relativa formalizzazione»; il suddetto principio, in particolare, muove dalla necessaria contrapposizione concettuale tra la nozione di imponibilità a fini Iva e quella di esigibilità, nel senso che, mentre il primo è da porsi in stretta relazione con il “fatto generatore dell’imposta”, cioè con l’evento che costituisce la scaturigine dell’obbligazione tributaria e dell’imponibilità ai fini Iva, cui vanno ricollegati l’operatività della disciplina del tributo ed i relativi effetti, il secondo attiene al diverso profilo della “esigibilità” dell’imposta, cioè dell’attitudine attuale dell’imposta ad essere pretesa in riscossione dall’erario; è, dunque, in relazione al fatto generatore dell’imposta, cioè all’esecuzione della prestazione di servizi, e non anche al pagamento del corrispettivo, ove successivo alla esecuzione della prestazione, che occorre ragionare al fine di valutare quando sia sorto il presupposto impositivo e, con esso, l’insorgenza dell’imponibilità ai fini Iva;
sicché, con il conseguimento del compenso si determina non l’evento generatore del tributo, bensì, per esigenze di semplificazione funzionali alla riscossione, solo la sua condizione di esigibilità e l’individuazione dell’estremo limite temporale entro cui deve essere adempiuto l’obbligo di fatturazione;
per tali ragioni, con la pronuncia citata, questa Corte ha quindi precisato che: «Ciò comporta, quale indefettibile corollario, che i compensi di prestazioni da attività imprenditoriale o professionale, conseguiti dopo la cessazione dell’attività medesima, devono ritenersi assoggettati ad iva, risultandone lo “statuto” impositivo definito dalla contestuale ricorrenza, all’atto del manifestarsi del fatto generatore dell’imposta (e suo presupposto oggettivo) anche del relativo presupposto soggettivo»;
la pronuncia censurata, che ha ritenuto che il contribuente era comunque tenuto al versamento dell’Iva in relazione al pagamento del corrispettivo ricevuto in data successiva alla chiusura della partita Iva, è quindi conforme ai principi sopra indicati; con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 8, decreto legislativo n. 546/1992, dell’art. 6, decreto legislativo n. 472/1997 e dell’art. 10, legge n. 212/2000, nonché ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per contraddittorietà ed illogicità della motivazione; il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato; con riferimento al vizio di motivazione della sentenza, il ricorrente evidenzia che la sentenza censurata sarebbe “apodittica” e slegata da ogni riferimento ai dati normativi ed alla valutazione della buona fede del contribuente rispetto alla condotta tenuta; la stessa, inoltre, sarebbe “contraddittoria”, per avere ritenuto, da un lato, che non vi fosse incertezza normativa e, dall’altro, che la peculiarità della questione costituiva giusto motivo per la compensazione delle spese di lite;
si è già avuto modo di segnalare, in sede di esame del primo motivo di ricorso, entro quali limiti può essere prospettato il vizio di motivazione della sentenza a seguito dell’intervento modificativo dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ.; sotto tale profilo, il vizio di contraddittorietà della sentenza non è censurabile secondo il parametro di riferimento sopra indicato, tenuto conto del fatto che non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di contraddittorietà e insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111 Cost., comma 6 individuabile nelle ipotesi – che si convertono in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e danno luogo a nullità della sentenza – di “mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale”, di “motivazione apparente”, di “manifesta ed irriducibile contraddittorietà” e di “motivazione perplessa od incomprensibile”, al di fuori delle quali il vizio di motivazione può essere dedotto solo per omesso esame di un “fatto storico”, che abbia formato oggetto di discussione e che appaia “decisivo” ai fini di una diversa soluzione della controversia” (Cass. civ., 25 settembre 2020, n. 20202);
con riferimento, poi, alla ritenuta natura “apodittica” della pronuncia del giudice del gravame, che potrebbe essere presa in considerazione sotto il profilo della mera apparenza della motivazione, deve, invece, ritenersi che il giudice del gravame ha chiaramente esplicitato le ragioni della non applicabilità al caso di specie dell’esimente in esame, evidenziando che ai fini della definizione della questione non erano ravvisabili situazioni di incertezza normativa, non riscontrandosi “le cause sintomatiche dell’oggettiva incertezza quali, ad esempio, la contraddittorietà, l’equivocità della norma, i contrasti giurisprudenziali, etc.”, profili in ordine ai quali, secondo il giudice del gravame, lo stesso contribuente non aveva dedotto alcunché;
nella motivazione della sentenza, dunque, è stata espressamente presa in considerazione la questione dell’applicabilità dell’esimente in esame, ma il giudice del gravame, dopo avere esaminata nel merito la vicenda ed avere ritenuta fondata la pretesa dell’amministrazione finanziaria, ha ritenuto non riscontrabile una condizione di obiettiva incertezza normativa, sicché sul punto la stessa ha chiaramente espresso le ragioni del proprio convincimento;
il vizio di motivazione della sentenza è, dunque, inammissibile in relazione alla ritenuta contraddittorietà della motivazione e infondato in relazione alla ritenuta natura “apodittica” della stessa; con riferimento, poi, al secondo profilo di censura, anche in questo caso va osservato, in primo luogo, che, sebbene il profilo di censura sia stato censurato quale error in procedendo, cioè ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., lo stesso può essere riqualificato, tenuto conto del contenuto complessivo del motivo, quale ragione di censura che attiene alla violazione di legge, da prospettarsi ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., atteso che, in sostanza, parte ricorrente sostiene che il giudice del gravame avrebbe erroneamente posto a carico del contribuente l’onere di dimostrare le cause di incertezza della norma di riferimento e, inoltre, che l’esistenza di una situazione di obiettiva incertezza normativa poteva essere individuato nella stessa ordinanza interlocutoria con la quale era stata rimessa alle Sezioni unite analoga questione;
il profilo di censura in esame è infondato;
va osservato, in primo luogo, che, laddove il contribuente ritiene che a suo favore possa trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 8, decreto legislativo n. 546/1992, lo stesso deve indicare al giudice gli elementi sui quali basa la considerazione della esistenza di una condizione di obiettiva incertezza normativa, non potendo la stessa essere genericamente prospettata, senza alcuna specificazione in merito, come invece ravvisato dal giudice del gravame; sicché, il giudice del gravame, ha, da un lato, definito la controversia ritenendo fondata la pretesa dell’amministrazione finanziaria facendo applicazione delle previsioni di legge di riferimento e, dall’altro, ha ritenuto che non sussistevano i presupposti per cui dovesse essere applicata l’esimente in oggetto, tanto più che parte ricorrente non aveva indicato profili specifici da cui potere pervenirsi ad una diversa conclusione, sicché la pronuncia non può dirsi viziata per violazione di legge;
d’altro lato, va osservato che anche in questa sede parte ricorrente, nel prospettare il presente motivo di ricorso, non individua su quali presupposti avrebbe dovuto trovare applicazione l’esimente di cui all’art. 8, decreto legislativo n. 546/1992, dunque quali fossero gli elementi da cui potere pervenire alla considerazione della sussistenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle disposizioni in esame, limitandosi ad una generica contestazione in merito;
né può rilevare il profilo, in ultimo evidenziato, e su cui parte ricorrente ha ulteriormente dedotto in sede di memoria, della rimessione alle Sezioni unite, con ordinanza interlocutoria n. 24432/14, della questione dell’imposizione Iva dei compensi per prestazioni professionali percepiti dopo la cessazione dell’attività e la dismissione della partita Iva;
invero, la questione, su cui poi si sono pronunciate le Sezioni unite con la citata sentenza n. 8059/2016, è stata dalla stessa definita “per l’esigenza nomofilattica di rimuovere incertezze e prevenire contrasti interpretativi
va quindi precisato che in tema di sanzioni amministrative per violazioni di norme tributarie, l’incertezza normativa oggettiva, causa di esenzione del contribuente dalla responsabilità amministrativa tributaria, alla stregua dell’art. 10, comma 3, decreto legislativo n. 212/2000 e dell’art. 8, decreto legislativo n. 546/1992, postula una condizione di inevitabile incertezza sul contenuto, oggetto e destinatari della norma tributaria, riferita non già ad un generico contribuente, né a quei contribuenti che, per loro perizia professionale, siano capaci di interpretazione normativa qualificata, né all’Ufficio finanziario, ma al giudice, unico soggetto dell’ordinamento cui è attribuito il potere-dovere di accertare la ragionevolezza di una determinata interpretazione (Cass. civ., 23 novembre 2016, n. 23845; Cass. civ., 22 febbraio 2013, n. 4522); ne consegue che la disposizione richiamata non può trovare applicazione in una fattispecie in cui la Suprema Corte è intervenuta a Sezioni Unite non già a dirimere un contrasto interpretativo, ma solo perché la questione è stata ritenuta di massima importanza, perché tesa a disciplinare una molteplicità di ipotesi similari (per analogo precedente, Cass. civ., 4 maggio 2018, n. 10662); ne consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente; si dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in complessive euro 2.000,00, oltre spese prenotate a debito;
dà atto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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