CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 25 settembre 2019, n. 23918
Rapporto di lavoro – Mutamento dell’orario – Illegittimità del trasferimento – Accertamento del demansionamento
Rilevato
Che con ricorso al Tribunale di Roma D.B. chiedeva la declaratoria di illegittimità del mutamento di orario disposta nei suoi confronti dalla datrice di lavoro T.I. s.p.a. nel luglio 2007, nonché l’illegittimità del trasferimento disposto dalla società il 18.10.07; l’accertamento del suo demansionamento a partire dal 25.9.07, nonché la disparità di trattamento da lei subito rispetto agli altri colleghi uomini ammessi al telelavoro notturno e la discriminazione sessuale posta in essere nei suoi confronti da T.; chiedeva dunque che la stessa venisse condannata al pagamento della somma di € 33.000, pari alle differenze retributive maturate da ottobre 2007 a luglio 2009, nonché al pagamento di € 50.000 a titolo di risarcimento del danno da demansionamento, da illegittimo trasferimento, da disparità di trattamento e discriminazione sessuale, oltre al pagamento della somma di € 80.000 a titolo di danno pensionistico permanente; al pagamento di € 20.000 a titolo di risarcimento del danno biologico; € 20.000 per mobbing, oltre ad € 5.000 per indennità sostitutiva del preavviso (essendo le dimissioni rassegnate assistite da giusta causa).
A fondamento delle domande, la B. aveva dedotto di aver lavorato con la qualifica di primo grado di commutazione notturna come addetta al servizio ’12’ presso il C.L.S. di Acilia e di essere stata assegnata a turni notturni; ha asserito di aver subito un demansionamento in quanto come operatrice notturna si era occupata di risolvere ‘problematiche internazionali’ dei servizi 1240 e 170, di fornire assistenza relativa a carte prepagate, di gestire le chiamate a carico, di fornire informazioni su hotel, etc., mentre in qualità di centralinista unico doveva soltanto contattare clienti T. che avevano perso la linea per aver scelto di passare ad altro operatore.
Lamentava inoltre che dal 18.10.07 la T. dispose il suo trasferimento in Roma, V.O.R., col detto mutamento della qualifica, ed orario di lavoro diurno di 38 ore e 10′, con diminuzione della retribuzione ed aumento delle spese di viaggio, ciò che le causò un disturbo ansioso depressivo, anche a causa del diniego di proseguire, come altri suoi colleghi uomini, nel telelavoro notturno sicché, pur continuando a lavorare per altri quattro anni, fu costretta a dimettersi con riduzione dell’importo pensionistico.
Che il Tribunale di Roma accoglieva solo parzialmente le domande.
Che avverso tale sentenza proponeva appello la T., resistendo la B. che proponeva altresì appello incidentale per l’integrale accoglimento delle domande.
Che con sentenza depositata il 14.4.15, la Corte d’appello di Roma, ritenuta la legittimità del trasferimento e del conferimento delle nuove mansioni, giudicate non inferiori alle precedenti; che la nuova retribuzione corrisposta era pertanto legittima, sicché non sussisteva alcun danno pensionistico; che non sussisteva pertanto il diritto della B. all’indennità sostitutiva del preavviso, essendosi essa peraltro dimessa dopo quattro anni dal dedotto demansionamento, né era emersa alcuna convincente prova del dedotto mobbing, in riforma della sentenza impugnata rigettava l’originaria domanda della lavoratrice, respingendo conseguentemente il suo appello incidentale.
Che per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la B., affidato a sei motivi, cui resiste T.I. s.p.a. con controricorso, poi illustrato con memoria.
Considerato che
1. – Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e\o falsa applicazione dell’art. 2103 c.c. (oltre che degli artt. 2086, 2094 e 2104 c.c.), nonché dell’art. 23 del c.c.n.l. di categoria quanto all’escluso demansionamento, lamentando che la sentenza impugnata ritenne erroneamente equivalenti le mansioni svolte prima e dopo l’estate 2007, anche in contrasto col predetto art. 23 del c.c.n.l.
Il motivo è inammissibile per plurime ragioni. Innanzitutto per la mancata adeguata esposizione dei fatti di causa (quanto all’indicazione dell’inquadramento posseduto e quello superiore eventualmente conseguito, cui si accenna nell’odierno ricorso a pag. 22); in secondo luogo per la mancata produzione del c.c.n.l. di categoria; in terzo luogo in quanto diretto a contrastare accertamenti di fatto compiuti dal giudice di merito in contrasto col novellato n. 5 dell’art. 360, co. 1, c.p.c.
2. – Con secondo e terzo motivo la B. denuncia la violazione degli artt. 2103 e 2697 c.c., 115 e 116 c.p.c. per avere la sentenza impugnata ritenuto giustificato il mutamento di mansioni in base al verbale congiunto- accordo sindacale del 9.7.07, che invece non prevedeva l’eliminazione del lavoro notturno ma solo la sua ottimizzazione; per aver ritenuto legittima la mancata erogazione, dopo il mutamento delle modalità di svolgimento del lavoro, dell’indennità di lavoro notturno in contrasto con l’art. 2103 c.c. e per aver dunque ricevuto un danno pensionistico.
I motivi, congiuntamente esaminabili per ragioni di connessione, sono inammissibili relativamente alla contestata interpretazione del verbale di accordo 9.7.07, non essendo questo stato prodotto ex art. 369, co. 2, n. 4 c.p.c. Quanto alla mancata erogazione dell’indennità citata, deve rammentarsene la legittimità trattandosi di indennità cd. estrinseche, non connesse cioè alla qualità della prestazione o della persona del lavoratore (cd. indennità intrinseche), e dunque eliminabili col mutamento delle modalità di esecuzione della prestazione ed il venir meno della ragione per cui essa veniva erogata (lavoro notturno), cfr., ex aliis, Cass. n. 6763/02.
4. – Con il quarto motivo la B. lamenta la violazione dell’art. 2119 c.c., quanto alla ritenuta insussistenza della giusta causa di dimissioni.
Il motivo è infondato in quanto basato sulla già esaminata legittimità del mutamento delle modalità orarie di esecuzione della prestazione lavorativa, con conseguente perdita dell’indennità per lavoro notturno.
5. – Col quinto motivo la ricorrente lamenta il mancato riconoscimento del danno da mobbing, ritenendo lo stesso provato in giudizio.
Il motivo è inammissibile in quanto diretto ad una rivalutazione dei fatti compiuta dalla sentenza impugnata che ha evidenziato come nessuna prova del necessario elemento intenzionale (e vessatorio) del datore di lavoro fosse stata fornita dalla lavoratrice. Al riguardo va chiarito che seppure tale prova può essere fornita attraverso presunzioni, esse debbono essere gravi, precise e concordanti, laddove la B. si è limitata a dedurre che mentre ai colleghi (non meglio specificati) fu consentito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno, solo a lei ciò fu impedito.
6. – Con sesto motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo e controverso e cioè la sussistenza e risarcibilità del lamentato danno biologico.
La doglianza, basata evidentemente e necessariamente sulla illegittimità del comportamento datoriale è stata conseguentemente correttamente respinta dalla sentenza impugnata dopo aver accertato la legittimità di quest’ultimo, come sopra osservato.
Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi, € 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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