CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 27 febbraio 2019, n. 5761
Rapporto di lavoro – Contratto a tempo determinato – Mancata indicazione delle causali – Nullità
Rilevato che
La Corte di appello di Potenza, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava la nullità del clausola appositiva del termine di cui al contratto del 1.1.1995 intercorso tra la s.p.a. ANAS e R.D.T. e, per l’effetto, la sussistenza tra le parti, di un contratto a tempo indeterminato, con decorrenza dal 1.1.1995, condannando l’A. al pagamento, in favore del lavoratore, di un’indennità pari a dieci mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre accessori di legge.
Richiamati l’impianto originario della I. 230/62 e le sue successive evoluzioni, a fondamento del decisum ed in estrema sintesi, la Corte evidenziava che l’indicazione della causale del contratto era da ritenere affatto generica, riferendosi all’espletamento di mansioni di cantoniere ai sensi dell’art. 1, comma 2, lett. a) o c) della L. 230/62, trovando, poi, applicazione, quanto al profilo risarcitorio, l’art. 32 L. 183/2010.
Per la cassazione di tale decisione ricorre l’A. s.p.a., affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, l’intimato.
Considerato che
1. Con il primo motivo, viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 434 c.p.c e inammissibilità del ricorso in appello per difetto di motivazione derivante dalla mancata indicazione degli elementi di cui ai punti 1) e 2) dell’art. 434 c.p.c.
2. Con il secondo motivo, viene denunziato omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, e viene lamentata l’omessa valutazione da parte del giudice di prime cure della circostanza che tra i rapporti a termine oggetto di causa sono intercorsi ampi archi temporali, con conseguente ricorrenza della risoluzione per mutuo consenso dei rapporti a tempo determinato in contestazione.
3. Con il terzo motivo, si ascrive alla decisione impugnata errore di diritto e violazione e falsa applicazione dell’art. 1 L. 230/62, contestandosi la ritenuta genericità della causale rispetto alla previsione della L. 230/62, laddove, al contrario, il riferimento ad eventi stagionali, il riferimento alle mansioni specifiche da assegnare al lavoratore dovevano ritenersi consentire la previsione di una duplice esigenza rispetto a quelle previste dall’art. 1 comma 2 L.230/62, stante la stagionalità dell’attività di sgombero della neve e il carattere straordinario delle esigenze stesse per le quali si rendeva necessaria l’attività di sgombraneve.
4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato con riferimento alla condanna al pagamento dell’indennità omnicomprensiva di cui all’art. 32 commi 3 e 5, della L. 183/2010.
5. Il primo motivo è da disattendersi.
E’ stato chiarito da questa Corte che “la norma, di cui all’art. 434 c.p.c., nel testo introdotto dall’art. 54 c. 1 lett. c) bis del D.L. 22 giugno 2012 n. 83, conv. nella L. 7 agosto 2012 n. 134, in coerenza con il paradigma generale contestualmente introdotto nell’art. 342 c.p.c. non richiede che le deduzioni della parte appellante assumano una determinata forma o ricalchino la decisione appellata con diverso contenuto, ma, in ossequio ad una logica di razionalizzazione delle ragioni dell’impugnazione, impone al ricorrente in appello di individuare in modo chiaro ed esauriente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, il quantum appellatum e di circoscrivere l’ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza del Tribunale, ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono“.
Ha aggiunto la Corte che “sotto il profilo qualitativo, le argomentazioni che vengono formulate devono proporre le ragioni di dissenso rispetto al percorso adottato dal primo Giudice ed esplicitare in che senso tali ragioni siano idonee a determinare le modifiche della statuizione censurata chieste dalla parte” (v. Cass.5.2.2015 n. 2143).
Nella citata pronuncia è stato poi anche rilevato “che, con il motivo di ricorso con il quale si lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 434 I. c. c.p.c., si denuncia un vizio che attiene alla corretta applicazione delle norme da cui è disciplinato il processo che ha condotto alla decisione dei giudici di merito, vizio che è pertanto ricompreso nella previsione dell’art. 360 comma 1) n. 4 c.p.c.” e che “Poiché in tali casi il vizio della sentenza impugnata discende direttamente dal modo in cui il processo si è svolto, ossia dai fatti processuali che quel vizio possono aver procurato, si spiega il consolidato orientamento di legittimità secondo il quale, in caso di denuncia di errores in procedendo del giudice di merito, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto, inteso come fatto processuale (v. Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 14098 del 2009; Cass. n. 11039 del 2006; Cass. n. 15859 del 2002; Cass. n. 6526 del 2002)”.
Ove i vizi del processo si sostanzino nel compimento di un’attività deviante rispetto alla regola processuale rigorosamente prescritta dal legislatore, così come avviene nel caso in cui si tratti di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale di introduzione del giudizio, questa Corte, con così come avviene nel caso in cui si tratti di stabilire se sia stato o meno rispettato il modello legale di introduzione del giudizio, questa Corte, con pronuncia a Sezioni Unite n. 8077 del 2012, ha affermato che il giudice di legittimità non deve limitare la propria cognizione all’esame della sufficienza e logicità della motivazione con cui il giudice di merito ha vagliato la questione, ma è investito del potere-dovere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda. Tuttavia, affinché possa procedersi a riscontrare mediante l’esame diretto degli atti l’intero fatto processuale, è necessario comunque che la parte ricorrente indichi gli elementi caratterizzanti il fatto processuale di cui si chiede il riesame, nel rispetto delle disposizioni contenute negli artt. 366, primo comma, n. 6, e 369, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. (ex Cass. n. 24481 del 2014, Cass. n. 8008 del 2014, Cass. n. 896 del 2014, Cass. Sez. Un. n. 8077 del 2012, cit.).
Non risulta che le prescrizioni poste da tali articoli siano state nella specie rispettate, posto che nel presente ricorso, in dispregio dei richiamati canoni dispecificità, non vengono puntualmente illustrati i passaggi argomentativi della sentenza con riferimento al contenuto del ricorso in appello ed alla correlata sentenza di primo grado.
6. Quanto al secondo motivo, con il quale si deduce in relazione alla pronunzia sulla risoluzione per mutuo consenso, l‘omesso esame su un fatto decisivo, deve rilevarsi che, affinché possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicché la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto (Cass. sez. lav. n. 5887 del 1/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; Cass. sez. lav. n.17150 del 24/6/08; Cass. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; Cass. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; Cass. sez. lav. n. 17674 dell’1/12/02). Nella specie le censure si fondano sulla diversa rilevanza attribuita al tempo trascorso anche tra un contratto e l’altro, con ciò discostandosi dai principi richiamati.
In ogni caso le conclusioni cui è pervenuta la Corte territoriale appaiono sorrette da un iter argomentativo che resiste alla doglianza prospettata, modulata in relazione all’art.360 cornma primo n.5 c.p.c. nel testo novellato costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sè, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrastoirriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”.
Come questa Corte ha avuto modo di rimarcare (vedi Cass. S.U. n. 8054 del 2014) il nuovo testo della disposizione introduce nell’ordinamento un vizio specifico che concerne l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia) con la precisazione che l’omesso esame di elementi istruttori non integra di per se vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie.
7. Nello specifico la motivazione, fondata sulla accurata disamina dei fatti rilevanti, si presenta completa alla luce dei canoni innanzi descritti, interpretando il fatto storico rilevante in causa con motivazione perfettamente comprensibile ed in equilibrio fra le sue componenti,che si sottrae, pertanto, alle censure all’esame. Nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato che la società non aveva dedotto alcuna circostanza significativa rispetto al mero decorso del tempo, essendo il lasso temporale di non attuazione del rapporto non rilevante, e non potendo attribuirsi significatività alla percezione del t.f.r. senza riserve o a ipotetiche prestazioni lavorative presso terzi.
Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito, risulta aderente al principio sopra richiamato e resiste alle censure della società ricorrente che, in sostanza, si incentrano genericamente sulla proposizione di una diversa lettura della inerzia, pur prolungata, del lavoratore e della riscossione senza riserve, da parte della stessa, delle indennità di fine rapporto.
8. Il terzo motivo è anch’esso infondato. Come affermato da questa Corte in precedenti arresti relativi a questioni sovrapponibili a quelle qui scrutinate ed ai quali va data continuità (vedi Cass. n.22523 del 2016), la nullità del termine è stata ricondotta alla genericità della causale, collegata alla previsione delle ipotesi previste dalle lettere a) e c) 1 comma 2 della legge, poste addirittura in alternativa tra loro, a conferma della mancanza di ogni necessaria specificazione del carattere stagionale della prestazione o della sua natura straordinaria o eccezionale. La legittimità dell’apposizione del termine al contratto di lavoro ha sempre richiesto – sia nel regime della L. n. 230 del 1962, art. 1 che nella disciplina successiva – l’esistenza di una condizione legittimante. Pure essendo stata reputata legittima la previsione nel caso concreto di due ragioni legittimanti concorrenti (cfr. Cass. 17.6.2008 n.16396, Cass. 28.3.2014 n. 7371), tale legittimità è esclusa qualora sussista incompatibilità o intrinseca contraddittorietà,come nel caso di specie, in ragione della evidente incertezza della causa giustificatrice dell’apposizione del termine. Ed invero, correttamente, nel caso all’esame, è stato evidenziato che, oltre ad essere inesistente ogni specificazione del carattere stagionale della prestazione o della sua natura straordinaria od eccezionale (essendo la causale promiscuamente riferita ad esigenze previste dalla legge genericamente, senza il riferimento ad elementi circostanziali che ne consentissero una connotazione idonea a ricondurla alla astratta tipizzazione normativa), la duplicità di causali previste alternativamente rendeva affatto generica la esigenza che si intendeva soddisfare con la stipulazione a termine.
9. In ordine al quarto motivo, deve richiamarsi il principio della rilevabilità, anche d’ufficio, dello “ius superveniens” e della sua applicabilità nei giudizi in corso, che non opera, tuttavia, indiscriminatamente, dovendo essere coordinato con quello che regola l’onere dell’impugnazione e le relative preclusioni, con la conseguenza che la sua operatività trova ostacolo nel giudicato interno formatosi in relazione alle questioni su cui avrebbe dovuto incidere la normativa sopravvenuta, e nella conseguente inesistenza di controversie in atto sui relativi punti. Non è questo il caso verificatosi nella specie, in cui il gravame aveva investito la questione della nullità del termine e le conseguenze connesse alla relativa declaratoria. Alla stregua di tali osservazioni, il ricorso va respinto.
Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza nella misura indicata in dispositivo, con attribuzione al difensore avv. D.V., dichiaratosi antistatario.
La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228 (Cfr. Cass., Sez. Un., n. 22035/2014).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 100,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15%, ed accessori di legge da distrarsi in favore dell’avv.V.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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