CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 29 settembre 2021, n. 26449
Cessione di ramo d’azienda – Licenziamento – Dirigente – Pagamento di ulteriori emolumenti derivanti dal computo di spettanze retributive sul TFR
Rilevato che
Il Tribunale di Firenze accoglieva in parte le domande proposte da S.G. ex dirigente della A. s.p.a. transitato alle dipendenze della A. Gestioni s.r.l. a seguito di cessione di ramo d’azienda e da quest’ultima licenziato il 1/12/2012, condannando la società al pagamento della – somma di euro 278.064,98 comprensiva di indennità supplementare ex art. 29 c.c.n.l. di settore – ragguagliata a 14 mensilità – nonché di ulteriori importi corrispondenti al computo sul t.f.r. di una serie di compensi (per attività di consigliere svolta presso una società partecipata) ed indennità (di preavviso, di mansione);
tale pronuncia veniva parzialmente riformata dalla Corte distrettuale che rigettava l’appello principale proposto dalla A. Gestioni s.r.l. ed in parziale accoglimento dell’appello incidentale, condannava la società al pagamento di ulteriori emolumenti derivanti dal computo di spettanze retributive sul trattamento di fine rapporto;
la cassazione di tale decisione è domandata dalla società sulla base di otto motivi;
resiste con controricorso S.G. che dispiega ricorso incidentale sostenuto da due motivi, ai quali A. Gestioni s.r.l. oppone difese con controricorso, ai sensi dell’art.371 c.p.c.;
entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art.380 bis c.p.c.;
Considerato che
1. con i primi tre motivi del ricorso principale, si denuncia sotto il profilo di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. (primo motivo), di violazione e falsa applicazione degli artt.1175 e 1375 c.c. (secondo motivo), e degli artt.112, 115 c.c. ex art.360 comma primo n.3 c.p.c. (terzo motivo), la statuizione con la quale i giudici del gravame hanno accertato la ingiustificatezza del licenziamento intimato al dirigente in data 2/12/2012;
detta statuizione era fondata sul rilievo che, dopo il verificarsi dell’evento traslativo del ramo di azienda, nell’ambito di una prospettata “organizzazione invariata”, era stata appena comunicata dalla società la conservazione del posto di lavoro, quando era sopravvenuto il licenziamento in tronco; il carattere estemporaneo del recesso ridondava in termini di violazione dei principi di correttezza e buona fede;
la ricorrente si duole che i giudici di seconda istanza, nel pervenire a tale convincimento, abbiano tralasciato di considerare che nella vicenda traslativa si era imposta l’evidenza dell’interesse dei soci alla assunzione diretta delle funzioni apicali; si argomenta che nello specifico, non si era inteso addivenire ad una mera sostituzione dei tre dirigenti provenienti da A. s.p.a. ma alla dotazione di A. Gestioni di una propria organizzazione, più confacente anche agli interessi dei soci; si imputa, in definitiva, alla Corte distrettuale, di esser pervenuta ad un giudizio di ingiustificatezza del licenziamento per violazione degli obblighi di buona fede e correttezza, sulla base di elementi indiziari inconsistenti, e di aver omesso ogni pronuncia sulla eccezione formulata in sede di gravame, con la quale era stata stigmatizzata l’illogicità ed infondatezza della motivazione dedotta dal giudice di primo grado, perché assunta in mancanza di espletamento di attività istruttoria;
2. i motivi non sono fondati;
occorre premettere che il generale principio etico-giuridico di buona fede nell’esercizio dei propri diritti e nell’adempimento dei propri doveri, gioca un ruolo fondamentale anche in funzione integrativa dell’obbligazione, assunta dal debitore, e quale limite all’esercizio delle corrispondenti pretese;
come rimarcato da avvertita dottrina, attraverso le richiamate norme, può venire più esattamente individuato il contenuto del singolo rapporto obbligatorio, con l’estrapolazione di obblighi collaterali (di protezione, di cooperazione, di informazione), che, in relazione al concreto evolversi della vicenda negoziale, vanno ad individuare la regula iuris effettivamente applicabile e a salvaguardare la funzione obbiettiva e lo spirito del regolamento di interessi che le parti hanno inteso raggiungere; la giurisprudenza di questa Corte ha anche ribadito che il principio di correttezza e buona fede – il quale, secondo la Relazione ministeriale al codice civile, “richiama nella sfera del creditore la considerazione dell’interesse del debitore e nella sfera del debitore il giusto riguardo all’interesse del creditore” deve essere inteso in senso oggettivo ed enuncia un dovere di solidarietà, costituzionalmente garantito, che, operando con criterio di reciprocità, esplica la sua rilevanza nell’imporre a ciascuna delle parti del rapporto obbligatorio il dovere di agire in modo da preservare gli interessi dell’altra, a prescindere dagli specifici obblighi contrattuali o legali, sicché dalla violazione di tale regola di comportamento può discendere, anche di per sè, un danno risarcibile (confr. Cass. 22/1/2009, n. 1618; Cass. S.U. 25/11/2008, n. 28056);
il principio di buona fede, che si specifica nel dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell’interesse della controparte, si pone, dunque, come limite di ogni situazione, attiva o passiva, negozialmente attribuita, determinando così anche in fase integrativa il contenuto e gli effetti del contratto (vedi in motivazione, Cass. 20/4/1994 n. 3775);
orbene, nel caso di specie, deve ritenersi che il giudice di merito abbia esattamente ipotizzato un giudizio di sfavore da parte dell’ordinamento nei confronti del comportamento assunto dalla parte datoriale la quale, dopo aver rassicurato il dirigente a fine novembre, sulla continuazione del rapporto di lavoro e sul conferimento di un ruolo specifico nell’ambito di una Commissione incaricata di redigere la “situazione patrimoniale di riferimento” aziendale nei successivi 120 giorni dalla cessione di ramo d’azienda, il successivo 1° dicembre aveva intimato il licenziamento; la Corte di merito è quindi pervenuta a tali approdi – conformi a diritto per quanto sinora detto – all’esito di valutazioni probatorie e accertamenti di fatto istituzionalmente riservati al giudice di merito, esattamente sovrapponibili a quelli elaborati dal giudice di prima istanza, contro i quali si infrange in particolare, la prima censura, inidonea a superare anche il principio consacrato dall’art.348 ter ultimo comma c.p.c. del divieto di denuncia dei vizi ex art. 360 c.1 n.5 per i giudizi di appello – quale quello in esame – instaurati successivamente alla data del 11/9/2012 (art. 54, comma 2, del richiamato d.l. n.83/2012) definiti con sentenza che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado;
3. il quarto motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art.29 c.c.n.l. dirigenti Confservizi in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si critica la statuizione con la quale è stata determinata l’indennità supplementare sul rilievo che i giudici del gravame non avrebbero esplicato le ragioni per le quali era stata ritenuta equa la valutazione della stessa nella misura di 14 mensilità, incorrendo nella elaborazione di una motivazione apparente, in violazione dell’art.132 c.p.c.;
4. il motivo è privo di fondamento;
il Collegio del merito ha congruamente mostrato di condividere il convincimento già espresso sul punto dal giudice di prima istanza;. nel rimarcare come i termini entro i quali si muoveva il giudizio di quantificazione della indennità disciplinata dall’art.29 c.c.n.l. di settore, spaziavano da un minimo di undici ad un massimo di venti mensilità, ha disatteso il motivo di censura proposto al riguardo dal G., osservando che i paradigmi sui quali conformare il giudizio di liquidazione erano integrati dalla durata quinquennale del rapporto di lavoro inter partes, e dal rapido reperimento di una nuova occupazione presso la società T. di Firenze;
l’incedere argomentativo che connota la ricordata statuizione, si sottrae alla denuncia modulata dalla società sulla violazione dei dettami di cui all’art.132 c.p.c.: secondo i principi affermati da questa Corte, ed ai quali si intende dare continuità, la sentenza pronunziata in sede di gravame è, infatti, legittimamente motivata “per relationem” ove contenga espliciti riferimenti alla pronuncia di primo grado, facendone proprie le argomentazioni in punto di diritto, e fornisca, pur sinteticamente, una risposta alle censure formulate, nell’atto di appello e nelle conclusioni, dalla parte soccombente, risultando così appagante e corretto il percorso argomentativo desumibile attraverso l’integrazione della parte motiva delle due sentenze (ex aliis, vedi Cass. 23/08/2018 n. 21037);
diversamente, il vizio di motivazione previsto dall’art.132, comma 2, n. 4, c.p.c. e dall’art. 111 Cost. sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logicogiuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito (vedi Cass. 14/2/2020 n. 3819); ma detta ipotesi, all’evidenza, e per le considerazioni sinora esposte, non ricorre nella fattispecie sicchè anche sotto tale profilo, la pronuncia resiste alla censura all’esame;
5. con il quinto motivo è denunciata violazione e falsa applicazione dell’art.2948, 1362, 1230, 2120, in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si critica la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha respinto l’eccezione di prescrizione quinquennale formulata dalla società, del diritto azionato dal G., attinente al computo dell’indennità di mansione sulle competenze di fine rapporto; al riguardo, era stata, infatti, esclusa la natura novativa del contratto stipulato in data 15/11/07 sul rilievo che le diverse determinazioni in esso contenute, anche in materia di retribuzioni, assumevano il valore di mere modifiche del rapporto; si rimarca, per contro, che con A. s.p.a. erano intercorsi due rapporti di lavoro, a termine ed a tempo indeterminato: il primo era cessato il 21/11/2007 ed entro il successivo quinquennio il G. avrebbe dovuto azionare il diritto al computo della indennità sul TFR; si deduce che, accertando la continuità del rapporto e l’infrazionabilità della anzianità senza tener conto della effettiva novazione del rapporto, desumibile dal tenore della comunicazione aziendale del 6/8/2007 in cui si manifestava l’interesse a rinegoziare il rapporto, il Collegio di merito ha falsamente applicato l’art.2120 c.c. e violato le disposizioni in tema di novazione del rapporto;
6. la censura soffre di un irredimibile difetto di autosufficienza, non essendo riportato il tenore dell’atto di parte datoriale in relazione al quale si accredita il perfezionarsi di una fattispecie novativa del precedente accordo negoziale;
è bene rammentare che, secondo i principi affermati da questa Corte, ed ai quali va data continuità, i -requisiti di contenuto-forma previsti, a pena di inammissibilità, dall’art. 366, comma 1, c.p.c., nn. 3, 4 e 6, devono essere assolti necessariamente con il ricorso e non possono essere ricavati da altri atti, come la sentenza impugnata o il controricorso, dovendo il ricorrente specificare il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata indicando precisamente i fatti processuali alla base del vizio denunciato, producendo in giudizio l’atto o il documento della cui erronea valutazione si dolga, o indicando esattamente nel ricorso in quale fascicolo esso si trovi e in quale fase processuale sia stato depositato, e trascrivendone o riassumendone il contenuto nel ricorso, nel rispetto del principio di autosufficienza (vedi fra le molte, Cass. 13/11/2018 n. 29093); è stato al riguardo puntualizzato che sono inammissibili, le censure fondate su atti e documenti del giudizio di merito qualora il ricorrente si limiti a richiamare tali atti e documenti, senza riprodurli nel ricorso ovvero, laddove riprodotti, senza fornire puntuali indicazioni necessarie alla loro individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta presso la Corte di cassazione, al fine di renderne possibile l’esame, ovvero ancora senza precisarne la collocazione nel fascicolo di ufficio o in quello di parte e la loro acquisizione o produzione in sede di giudizio di legittimità (vedi Cass. S.U. 27/12/2019 n. 34469);
si è poi ben chiarito che la disciplina del ricorso per cassazione, nella parte in cui prevede – all’art. 366, comma 1, n. 6), c.p.c. – requisiti di ammissibilità di contenuto-forma, non contrasta con il principio di effettività della tutela giurisdizionale sancito dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, giacché essi sono individuati in modo chiaro (tanto da doversi escludere che il ricorrente in cassazione, tramite la difesa tecnica, non sia in grado di percepirne il significato e le implicazioni) ed in armonia con il principio della idoneità dell’atto processuale al raggiungimento dello scopo, sicchè risultano coerenti con la natura di impugnazione a critica limitata propria del ricorso per cassazione e con la strutturazione del giudizio di legittimità quale processo privo di momenti di istruzione (vedi Cass. 3/1/2020 n.27);
nello specifico la ricorrente ha omesso di riportare il contratto a tempo determinato del 2004 – se non nella clausola relativa alla comunicazione in caso di mancato rinnovo – e di richiamare il contenuto della comunicazione 6/8/2007 con la quale A. s.p.a. avrebbe comunicato al G. la sua volontà di non rinnovare il contratto a termine alla sua scadenza, limitandosi a riprodurre in minima parte, il tenore del contratto a tempo indeterminato del 15/11/2007; in tal guisa è rimasta inadempiente agli oneri posti a suo carico dalle summenzionate disposizioni del codice di rito;
da ultimo, non va sottaciuto che, secondo l’insegnamento di questa Corte, in tema di interpretazione del contratto o di un atto unilaterale ex art.1324 cod. civ., il sindacato di legittimità deve essere condotto non sulla- ricostruzione della volontà delle parti, o dell’unica parte – che costituisce un accertamento di fatto non consentito in sede di legittimità – ma soltanto sulla individuazione dei criteri ermeneutici del processo logico del quale il giudice di merito si sia avvalso per assolvere i compiti a lui riservati, al fine di riscontrare errore di diritto o vizi del ragionamento (vedi Cass. 16/9/2002 n.13543, Cass. 26/2/2009 n.4670, Cass. 8/6/2018 n.14882); sicché, per far valere una violazione sotto tale profilo, occorre non solo fare puntuale riferimento alle regole legali d’interpretazione (mediante specifica indicazione dei canoni asseritannente violati ed ai principi in esse contenuti), ma altresì precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice del ‘merito se ne sia discostato; con l’ulteriore conseguenza dell’inammissibilità del motivo di ricorso che si fondi sull’asserita violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione e si risolva, in realtà, (come nella specie) nella proposta di una interpretazione diversa (Cass. 26/10/2007, n. 22536); d’altra parte, per sottrarsi al sindacato di legittimità, quella data dal giudice del merito al contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili e plausibili interpretazioni (tra le altre: Cass. 12/7/2007, n. 15604; Cass.22/2/2007, n. 4178); da ciò consegue che non può trovare ingresso in sede di legittimità la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che si traduca esclusivamente nella prospettazione di una diversa valutazione degli stessi elementi già dallo stesso esaminati;
quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass.6/12/2016, n. 24958, Cass. 9/8/2018 n.20694, Cass. 3/11/2020 n. 24395);
sotto tutti i profili delineati, la-statuizione resiste alla critica formulata;
7. con il sesto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell’art.2113, 1362, 2120, in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.; si censura la statuizione con la quale l’indennità di mansione annuale è stata inserita nell’ambito della retribuzione imponibile ai fini del T.F.R.;
si deduce che nel caso di specie l’accordo individuale del 17/4/2007 non aveva escluso il compenso di euro 25.000,00 dalla base di calcolo del TFR ma aveva stabilito che detto compenso fosse comprensivo anche della incidenza sulla retribuzione differita, con esclusione di oneri aggiuntivi a carico di A.; in tal senso si palesava la violazione dell’art.1362 c.c. non avendo il giudicante tenuto conto della lettera della clausola contrattuale;
8. il motivo è privo di fondamento;
la tesi accreditata da parte societaria, non consente di ritenere superato il divieto di esclusione dal t.f.r. del computo di indennità corrisposte in via continuativa, consacrato nel disposto di cui all’art.2120 c.c. nella elaborazione resa dai consolidati dicta di questa Corte, alla cui stregua il diritto al trattamento di fine rapporto sorge, a norma dell’art. 2120 cod. civ., al momento della cessazione del rapporto ed in conseguenza di essa, essendo irrilevante, al fine di ipotizzare una diversa decorrenza, l’accantonamento annuale della quota del trattamento, che costituisce una mera modalità di calcolo dell’unico diritto che matura nel momento anzidetto, ovvero l’anticipazione sul trattamento medesimo, che è corresponsione di somme provvisoriamente quantificate e prive del requisito della certezza, atteso che il diritto all’integrale prestazione matura, per l’appunto, solo alla fine del rapporto lavorativo (vedi per tutte Cass.. 18/2/2010 n.3894);
la censura incorre, poi, nello stigma della novità, con riferimento alla eccezione di decadenza ex art.2113 c.c., laddove si deduce che il dirigente non avrebbe potuto eccepire l’invalidità del patto di conglobamento, non essendovi nella pronuncia impugnata alcun riferimento alla dedotta eccezione (cfr. Cass. 9/8/2018 n. 20694, Cass. 24/01/2019 n. 2038);
9. la settima e la ottava critica attengono alla violazione e falsa applicazione dell’art.132 e 112 c.p.c. (settimo motivo) e degli artt. 2094, 2099, 2120, 2121 c.c. 29 e 35 c.c.n.l. di settore in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.;
si deduce che i giudici di seconda istanza, nel richiamare la statuizione con cui il primo giudice ha incluso nel computo del TFR anche i compensi percepiti come consigliere della T. s.p.a., abbiano reso una motivazione meramente apparente in violazione dei dettami di cui all’art.132 c.p.c.; si rimarca che A. s.p.a. non aveva assunto alcuna
obbligazione avente ad oggetto la retribuzione della attività svolta dal dirigente in favore della società T. di Firenze, sussistendo invece un interesse precipuo e diretto di tale società alla prestazione del dirigente come consigliere;
10. i motivi, che possono congiuntamente trattarsi per presupporre la soluzione di questioni giuridiche connesse, sono infondati; la Corte distrettuale ha ampiamente argomentato in ordine al rapporto instaurato dal G. con la società T. di Firenze, specificando che l’attività di consigliere delegato a far tempo dal 2008, era stata espletata “dietro richiesta e nell’interesse di A. s.p.a.” di talchè il suo espletamento rientrava nella prestazione resa in favore della stessa;
ha altresì rimarcato come nella autorizzazione del 4/4/2008 A. menzionasse “la regola generale secondo la quale il dirigente avrebbe dovuto riversare alla stessa A. gli emolumenti percepiti da terzi per la veste di consigliere in c.d.a. di società diverse e anche precisava che la speciale deroga era concessa in quanto …l’attività prestata all’esterno da G. S. rispondeva ad un interesse (e pure ad un risparmio) per A.” ; il contratto di lavoro inter partes, prevedeva poi “espressamente che il compenso pattuito fosse remunerativo dell’eventuale affidamento di incarichi in società enti ed organizzazioni partecipate da A. s.p.a.”; coerentemente con le suddette pattuizioni, i compensi per gli incarichi presso le società partecipate, venivano fatturati direttamente ad A.;
nell’ottica descritta la Corte territoriale ha convalidato il giudizio espresso dal giudice di prima istanza in ordine alla natura retributiva degli emolumenti considerati, con pronuncia che non risponde alla nozione della mera apparenza della motivazione nella interpretazione resa dalla giurisprudenza di legittimità, perché connotata da un percorso motivazionale esaustivo e coerente, con il quale si è fornita al ricorrente una risposta appagante in ordine alle censure svolte, mediante l’argomentato richiamo alle statuizioni oggetto della pronuncia di primo grado;
in tale prospettiva, priva di pregio si palesa anche la doglianza espressa con l’ultimo motivo di ricorso mediante il quale, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione e falsa applicazione di legge, si degrada in realtà verso l’inammissibile richiesta a questa Corte di una rivalutazione dei fatti storici da cui è originata l’azione (cfr. Cass., Sez. Un., 17/12/2019, n. 33373); la complessiva censura traligna dal modello legale di denuncia di un vizio riconducibile all’art. 360 cod. proc. civ., perché pone a suo presupposto una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti,senza neppure confrontarsi con la ratio decidendi; alla luce delle sinora esposte argomentazioni, il ricorso principale va, pertanto, respinto;
11. con il ricorso incidentale si denuncia omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art.360 comma primo n.5 c.p.c. (primo motivo), violazione e falsa applicazione degli artt.29 e 35 c.c.n.l. dirigenti Confservizi e 132 c.p.c. in relazione all’art.360 comma primo n.3 c.p.c.; si stigmatizza la statuizione con la quale la Corte distrettuale ha determinato l’entità dell’indennità supplementare sotto il profilo della intima contraddittorietà; ci si duole, infatti, che la Corte di merito, dopo aver rimarcato che l’agire della parte datoriale, nella fase risolutiva del rapporto, non si era conformato ai canoni generali di correttezza e buona fede, aveva poi, in sede di quantificazione della indennità, trascurato ogni riferimento proprio ai parametri suddetti, in violazione dei canoni sanciti dalla disposizione contrattual-collettiva (art.29 c.13) che richiamava quale paradigma, gli elementi che caratterizzano il caso concreto; in particolare, quanto al requisito della anzianità di servizio, si evidenzia che di detto elemento, richiamato al fine di definire la continuità del rapporto inter partes sin dal novembre 2004 (conseguente al diniego di riconoscimento della novazione del rapporto nel 2007), il giudice di seconda istanza si- sia avvalso per contenere l’entità della indennità di fonte collettiva a lui spettante;
12. i motivi, da trattarsi congiuntamente per connessione, sono privi di pregio;
secondo il costante orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, il giudizio sulla misura dell’indennità supplementare spettante in base alla contrattazione collettiva in caso di licenziamento non giustificato di dirigenti è rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito e non è censurabile se non per vizio di motivazione (vedi ex aliis Cass. 16/3/2015 n.5175, Cass. 17/1/1998 n. 389); osserva il Collegio che nella specie la Corte di merito ha determinato l’indennità nella misura (superiore a quella minima), di quattordici mensilità basata sia sulla anzianità di servizio, con particolare riferimento alla anzianità maturata a far tempo dalla stipula del contratto di lavoro a tempo indeterminato, sia dalla circostanza incontestata, che egli avesse prontamente reperito una nuova occupazione presso la T. s.p.a. di Firenze, rimarcando come ciò denotasse la mancata effettiva compromissione dell’immagine professionale del cittadino in ambito territoriale; tale decisione, congruamente motivata, resiste alla censura del G.,
non patendo alcun vizio di intrinseca contraddittorietà quanto al riferimento del parametro della anzianità, tale da ridondare in termini di inammissibilità del giudizio espresso; il criterio descritto, quale paradigma di riferimento per la liquidazione della indennità considerata, pur considerando parzialmente il periodo di lavoro prestato alle dipendenze A. s.p.a., riferito al contratto a tempo indeterminato stipulato fra le parti, si combina con quello del pronto reperimento di nuova collocazione lavorativa, refluendo in un apprezzamento congruo, che esula dagli angusti limiti di sindacato introdotti dal novellato comma primo n.5 dell’art.360 c.p.c. nella interpretazione resa dalle Sezioni Unite di questa Corte (vedi Cass. 7/4/2014 n.8054);
nell’ottica descritta la critica si limita a sollecitare una non consentita revisione del ragionamento decisorio, inammissibile in questa sede; entrambi i ricorsi devono, pertanto, essere rigettati;
in ragione della soccombenza reciproca, le spese vanno compensate tra le parti;
trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ed il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
P.Q.M.
rigetta il ricorso principale ed il ricorso incidentale.
Compensa fra le parti le spese del presente giudizio.
Trattandosi di giudizio instaurato successivamente al 30 gennaio 2013 sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi del comma 1 quater all’art. 13 DPR 115/2002 – della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale ed il ricorso incidentale a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, ove dovuto.
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