CORTE DI CASSAZIONE – Ordinanza 31 gennaio 2019, n. 2862
Tributi – Accertamento – Riscossione – Maggior reddito imputato per trasparenza – Contenzioso tributario
Rilevato che
C. Sas di C.G. & C. (ora C. Srl) impugnava l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2004 ai fini Iva, Ires e Irap, emesso dall’Agenzia delle entrate in relazione ad operazioni inesistenti di cui disconosceva i costi e recuperava l’Iva;
– L.A., A.M. e C.G., soci della Sas, impugnavano, a loro volta, gli avvisi di accertamento emessi nei loro confronti in relazione al maggior reddito imputato per trasparenza;
– la Commissione provinciale tributaria di Napoli rigettava tutti i ricorsi; il giudice d’appello, riuniti i procedimenti, confermava la decisione di primo grado;
– i contribuenti ricorrono per cassazione con quattro motivi, cui resiste l’Agenzia delle entrate con controricorso;
Considerato che
– il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 14 e 29 d.lgs. n. 546 del 1992, 5 d.P.R. n. 600 del 1973, 101 c.p.c. e 111 Cost. per aver la sentenza omesso di rilevare la nullità del giudizio per mancata originaria instaurazione del contraddittorio tra società e soci, limitandosi a disporre la riunione dei giudizi;
– il motivo è infondato;
– questa Corte, infatti, ha affermato «Nel processo di cassazione, in presenza di cause decise separatamente nel merito e relative, rispettivamente, alla rettifica del reddito di una società di persone ed alla conseguente automatica imputazione dei redditi stessi a ciascun socio, non va dichiarata la nullità per essere stati i giudizi celebrati senza la partecipazione di tutti i litisconsorti necessari (società e soci) in violazione del principio del contraddittorio, ma va disposta la riunione quando la complessiva fattispecie, oltre che dalla piena consapevolezza di ciascuna parte processuale dell’esistenza e del contenuto dell’atto impositivo notificato alle altre parti e delle difese processuali svolte dalle stesse, sia caratterizzata da: (1) identità oggettiva quanto a “causa petendi” dei ricorsi; (2) simultanea proposizione degli stessi avverso il sostanzialmente unitario avviso di accertamento costituente il fondamento della rettifica delle dichiarazioni sia della società che di tutti i suoi soci e, quindi, identità di difese; (3) simultanea trattazione degli afferenti processi innanzi ad entrambi i giudici del merito; (4) identità sostanziale delle decisioni adottate da tali giudici. In tal caso, la ricomposizione dell’unicità della causa attua il diritto fondamentale ad una ragionevole durata del processo (derivante dall’art. 111, secondo comma, Cost. e dagli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali), evitando che con la (altrimenti necessaria) declaratoria di nullità ed il conseguente rinvio al giudice di merito, si determini un inutile dispendio di energie processuali per conseguire l’osservanza di formalità superflue, perché non giustificate dalla necessità di salvaguardare il rispetto effettivo del principio del contraddittorio» (Cass. n. 2907 del 10/2/2010 e n. 3830 del 17/02/2010; v. da ultimo Cass. n. 26648 del 10/11/2017; Cass. n. 29843 del 13/12/2017; Cass. 12734 del 23/05/2018), principio pienamente applicabile ove la riunione sia stata disposta in sede di gravame (v. in particolare Cass. n. 3789 del 15/02/2018, che ribadisce che «il rinvio al giudice di primo grado non sarebbe giustificato dalla necessità di salvaguardare il contraddittorio e si porrebbe in contrasto con il principio della ragionevole durata del processo»);
– nella specie, come si evince dagli atti di causa e dalla stessa sentenza impugnata, i quattro appelli, della società e dei tre soci, contro le quattro sentenze dei primi giudici sono stati tutti depositati il 8 maggio 2013, così come sostanzialmente simultanei e similari erano stati i ricorsi introduttivi depositati e sequenziali erano stati pure i n.r.g. delle decisioni depositate dalla CTP in pari data (19 ottobre 2012), trattate e decise nella stessa udienza dal medesimo collegio; inoltre similari erano stati i contenuti delle quattro pronunzie a favore dell’erario;
– ne deriva che, in applicazione degli anzidetti principi, non sussiste la lamentata violazione, risultando salvaguardato l’effettivo rispetto del principio del contraddittorio;
– il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 43, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973, 57, terzo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, come modificati dall’art. 37, commi 24 e 25 d.l. n. 223 del 2006 alla luce della sentenza interpretativa n. 247 del 2011 della Corte Costituzionale; denuncia, inoltre, “erroneo riscontro postumo in violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. dei presupposti per il beneficio del raddoppio dei termini per l’accertamento”;
– la complessiva doglianza è – salvo per quanto si dirà per il quarto motivo – in parte infondata, in parte inammissibile;
– è inammissibile, innanzitutto, la censurata lesione degli artt. 115 e 116 c.p.c., inosservante del principio di autosufficienza quanto all’asserita omessa valutazione della documentazione prodotta in giudizio, traducendosi il motivo, in realtà, in un vizio di insufficiente motivazione, non più consentito ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., nel testo ratione temporis applicabile trattandosi di decisione pubblicata il 24 luglio 2014, né comunque ammissibile ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c. essendo stato l’appello depositato in data 8 maggio 2013;
– è invece infondata la denunciata violazione di legge;
– in via generale, va infatti rilevato che, ai fini del raddoppio dei termini in questione, per come disposto dall’art. 37, comma 24, d.l. n. 223 del 2006, conv. nella I. n. 248 del 2006, che ha modificato l’art. 43, terzo comma, d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 57, secondo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 (nei testi applicabili ratione temporis), non è necessaria l’effettiva presentazione della denuncia (né tanto meno la produzione di questa in giudizio);
– l’unica condizione per il raddoppio dei termini, come statuito dalla Corte Costituzionale (sentenza n. 247 del 2011), è costituita, infatti, dalla sussistenza dell’obbligo di denuncia penale, indipendentemente dal momento in cui tale obbligo sorga ed indipendentemente dal suo adempimento, sicché «i/ raddoppio dei termini consegue dal mero riscontro di fatti comportanti l’obbligo di denuncia penale» ed «il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta “prognosi postuma”) circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità od abbia, invece, fatto uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni denunciate al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento» (Cass. n. 13483 del 30/06/2016; Cass. n. 11171 del 30/05/2016);
– orbene, nella vicenda in esame, la CTR ha, con motivazione diffusa ed articolata sugli elementi di fatto riferiti alla concreta vicenda (relativa al compimento di operazioni inesistenti), ritenuto che «i fatti contestati appaiono astrattamente idonei a configurarsi anche nella loro rilevanza, coinvolgendo sotto tale aspetto anche la penale responsabilità del legale rappresentante della società appellante» affermando così l’applicazione della novella, sicché va esclusa, per quanto riguarda Iva ed Ires (ed Irpef), l’eccepita decadenza del potere di accertamento;
– per connessione logica appare opportuno, quindi, esaminare il quarto motivo del ricorso che denuncia, parimenti, violazione di legge per aver la CTR ritenuto applicabile il raddoppio dei termini di decadenza anche all’Irap;
– il motivo è fondato posto che «non essendo l’Irap un’imposta per la quale siano previste sanzioni penali è evidente che in relazione alla stessa non può operare la disciplina del “raddoppio dei termini” di accertamento» quale applicabile ratione temporis (Cass. n. 20435 del 2017; Cass. n. 23629 del 2017; da ultimo Cass. n. 14440 del 05/06/2018);
– il terzo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 74, ottavo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, come sostituito dall’art. 35 d.l. n. 269 del 2003, nonché violazione e falsa applicazione degli artt. 17, 18 e 19 d.P.R. n. 633 del 1972 e degli artt. 3 e 53 Cost.
– i ricorrenti lamentano, in sostanza, che, trovando applicazione nei loro confronti per le operazioni compiute il regime del reverse charge in forza dell’art. 74, ottavo comma, d.P.R. n. 633 del 1972, come sostituito dall’art. 35 d.l. n. 269 del 2003, l’Iva non è stata né incassata, né detratta, né, quindi, può essere recuperata;
– il motivo è infondato;
– la questione è già stata oggetto di esame da parte della Corte con la sentenza n. 16679 del 09/08/2016, relativa ad una fattispecie analoga a quella qui in giudizio (operazioni di cessione di rottami soggette agli effetti dell’Iva al regime di reverse charge ai sensi dell’art. 74, settimo ed ottavo comma, d.P.R. n. 633 del 1972 e qualificate come soggettivamente inesistenti dal Fisco in quanto rese da una mera cartiera) (v. per operazioni intracomunitarie Cass. n. 22532 del 11/12/2012 e Cass. n. 6229 del 13/03/2013);
– la disciplina nazionale per il commercio dei rottami, qui in rilievo, prevede, invero, che la fattura sia emessa dal cedente senza addebito d’imposta, con l’osservanza delle disposizioni di cui agli artt. 21 e seg. d.P.R. n. 633 del 1972 e con l’indicazione di cui all’ottavo comma dell’art. 74 che si tratta di operazione con Iva non addebitata in via di rivalsa; la fattura è quindi integrata dal cessionario, che diviene soggetto passivo d’imposta, con l’indicazione dell’aliquota e della imposta stessa, per essere, poi, registrata nel registro delle vendite dal cessionario, che in tal modo assolve l’obbligo di pagamento del tributo, detratto con la parallela annotazione nel registro degli acquisti; trattandosi di operazione imponibile, inoltre, il cedente conserva il diritto all’ordinaria detrazione dell’imposta relativa agli acquisti inerenti;
– orbene, nella vicenda in esame, non è contestato che la società contribuente abbia regolarmente effettuato l’inversione contabile a suo carico e reso neutrali le operazioni; rileva, invece, che dette operazioni siano state ritenute inesistenti – in particolare, soggettivamente inesistenti – dalla CTR, con accertamento (in alcun modo idoneamente censurato) della carenza di buona fede (e, anzi, con riscontro della «malafede») della società contribuente;
– su una tale problematica, peraltro, la Corte di Giustizia ha precisato che «la presentazione di false fatture o di false dichiarazioni, alla pari di qualsiasi altra alterazione di prove, è idonea ad impedire la riscossione dell’importo esatto dell’imposta e, pertanto, è atta a compromettere il buon funzionamento del sistema comune dell’IVA» e «pertanto, il diritto dell’Unione non impedisce agli Stati membri di considerare l’emissione di fatture irregolari alla stregua di una frode fiscale e di negare l’esenzione in una siffatta ipotesi» (sentenza, 7 dicembre 2010, in C-285/09, R., punti 48 e 49);
– né in senso contrario rileva che la Corte medesima abbia escluso la perdita del diritto di detrazione per la mera inosservanza di requisiti formali, che anzi rafforza le indicazioni sopra esposte: la sentenza 11 dicembre 2014, in C-590/13, Idexx Laboratoires Italia, in particolare, ha statuito che gli artt. 18, paragrafo 1, lettera d), e 22 della direttiva 77/388/Cee, come modificati, devono essere interpretati nel senso che tali disposizioni dettano requisiti formali del diritto a detrazione la cui mancata osservanza, «in circostanze come quelle oggetto del procedimento principale», non può determinare la perdita del diritto medesimo ove sussistano i requisiti sostanziali del diritto a detrazione che sono quelli che stabiliscono il fondamento stesso e l’estensione del diritto, la sua insorgenza, (punto 41 della sentenza Idexx), e consistono nelle circostanze che gli acquisti siano stati effettuati da un soggetto passivo, che quest’ultimo sia parimenti debitore dell’Iva attinente a tali acquisti e che i beni di cui trattasi siano utilizzati ai fini di proprie operazioni imponibili (punto 43);
– è evidente, dunque, che ove manchino, come nella vicenda in giudizio, i presupposti sostanziali non è certo sufficiente l’apparente osservanza dei requisiti formali;
– non giova pertanto invocare il principio di neutralità dell’Iva atteso che questo esige che la detrazione dell’Iva a monte sia accordata «se gli obblighi sostanziali sono soddisfatti» (Corte di Giustizia, sentenza 8 maggio 2008, nei procedimenti riuniti C- 95/07 e C-96/07, Ecotrade, punto 63; v. anche sentenza 17 luglio 2014, in C-272/13, Equoland);
– coerente con i principi unionali è la disciplina nazionale: infatti – come già rilevato dalla Corte nella sentenza 16679/2016 citata – «il disposto dell’art. 21 co.7 d.Iva per un verso incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio comunitario di cui all’art. 28-octies, par. 1, lett. d), dir. 1977/388/CE [ora art. 203 dir. 2006/112/CE ]. Per un altro verso incide indirettamente, in combinato disposto con l’art. 19 co.1 e l’art. 26 co.3 d.Iva, pure sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta in carenza del suo presupposto (v. Cass. 12353/2005, 2823/2008, 24231/2011). Nel caso di operazioni inesistenti in regime d’inversione contabile, il cessionario è l’effettivo soggetto d’imposta e l’IVA integrata a debito sulle fatture emesse a fronte di operazioni inesistenti è dovuta, in base al principio comunitario di cui all’art. 28-octies, anche quando si tratta di forniture inesistenti o diverse da quelle indicate in fattura.
Ciò incide – per il combinato disposto degli artt. 21 co.7, art. 19 co.1 e 26 co.3 cit. – sul destinatario della fattura medesima che non può esercitare il diritto alla detrazione dell’imposta mancando il suo presupposto, ovverosia la corrispondenza anche soggettiva dell’operazione fatturata con quella in concreto realizzata»;
– in tali ipotesi, il corrispondente tributo viene, in realtà, ad essere considerato “fuori conto”, e la relativa obbligazione, conseguentemente, “isolata” da quella risultante dalla massa di operazioni effettuate, ed estraniata, per ciò stesso, dal meccanismo di compensazione (tra Iva “a valle” ed Iva “a monte”) che presiede alla detrazione d’imposta di cui all’art. 19 d.P.R. cit., neppure potendosi avvalere della procedura di rettifica ex art. 26 d.P.R. medesimo (v. Cass. n. 12995 del 09/06/2014; Cass. n. 6229 del 13/03/2013);
– in conclusione, non viene in rilievo la mera inosservanza di obblighi contabili (anzi, apparentemente corretti) ma della carenza dei presupposti sostanziali suscettibili di dar fondamento al diritto alla detrazione, e ciò a fronte dell’esistenza dell’obbligo di corrispondere l’imposta portata in fattura;
– il ricorso, pertanto, va accolto limitatamente al quarto motivo, mentre vanno rigettati gli altri; in relazione al motivo accolto, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito con accoglimento, limitatamente alla ripresa per Irap, degli originari ricorsi;
– le spese, atteso il complessivo esito del giudizio, vanno compensate per ogni fase e grado;
P.Q.M.
Accoglie il quarto motivo di ricorso, rigetta gli altri. Cassa la sentenza impugnata nei limiti del motivo accolto e, decidendo nel merito, accoglie il ricorso dei contribuenti con riguardo alla ripresa Irap. Compensa integralmente le spese dell’intero giudizio.
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