Corte di Cassazione, ordinanza n. 16125 depositata il 7 giugno 2023
mancata consegna pec di notifica
FATTI DI CAUSA
Con atto di citazione, ritualmente notificato il 16 luglio 2014, M.A. conveniva in giudizio di fronte al Tribunale di Roma (Sezione specializzata in materia di impresa) M.M. (madre dell’attore), la società J. a r.l. (società di famiglia), la società M. a r.l. (società di famiglia), M.V. (fratello dell’attore), M.F., M.Ma. e N.S..
L’attore chiedeva al Tribunale adito di accertare la sua titolarità delle quote societarie delle società J. s.r.l. e M. s.r.l. nelle misure rispettivamente del 50% e 33% del capitale sociale; nonché di accertare l’illegittimità del comportamento dei convenuti e la lesione del suo diritto di prelazione e, per l’effetto, la condanna delle controparti alla restituzione a suo favore delle quote societarie in questione, nella misura di € 103,29 (per la M. s.r.l.). e di € 20.650,00 (per la J. s.r.l.), istando al contempo per la sua reintegrazione nelle compagini sociali. L’attore evidenziava di essersi accorto (a seguito di una verifica delle visure societarie) di non comparire più nella compagine delle due società, che erano state modificate a sua insaputa (non avendo mai ricevuto un atto di esclusione e non avendo ceduto le proprie quote). A seguito di questa modifica risultava socio di maggioranza di entrambe le società il fratello dell’attore, Marasco Vittorio; non risultava più titolare di alcuna quota la madre (Marinelli Marinella) e risultavano soci N.S., M.F. e M.Ma.. L’attore chiedeva altresì la condanna dei convenuti al risarcimento dei danni cagionati e la dichiarazione di nullità delle cessioni delle quote in favore di N.S., M.F. e M.Ma.. In via subordinata, per la ipotesi denegata di mancata restituzione delle quote, M.A. chiedeva la condanna delle controparti a titolo di risarcimento del danno per la somma di € 20.753,29 (pari al valore complessivo delle quote) e alla corresponsione di una rendita vitalizia annuale pari ad € 50.000. Nel medesimo giudizio di merito l’attore proponeva istanza per la concessione di misure cautelari (ex artt. 670, 671 e 700 c.p.c.) e precisamente per il sequestro giudiziario delle quote delle due società, per la sua reintegrazione (con provvedimento urgente) nella compagine sociale di entrambe le società e, in subordine, per il sequestro conservativo di due immobili ovvero di tutte le quote di proprietà dei convenuti, per un ammontare pari al credito risarcitorio di almeno € 200.000. Le richieste cautelari erano respinte con ordinanza riservata del 24 dicembre 2014. Nel corso del giudizio decedeva l’attore.
Il Tribunale di Roma con sentenza n. 7233/2017 pubblicata l’11 aprile 2017 rigettava le domande proposte dalla parte attrice Z.D., sua erede, poiché riteneva che non fosse stata fornita prova adeguata del titolo di proprietà delle quote delle due società dichiarate possedute dall’attore, né di aver mantenuto tale diritto sino all’attualità. Il Tribunale riteneva, infatti accertato che le quote fossero state legittimamente cedute dal Marasco agli inizi degli anni ’90 e che era provato che successivamente l’attore aveva partecipato alle riunioni assembleari esclusivamente quale procuratore speciale della madre.
Con atto notificato il 5 ottobre 2017 la ricorrente ha proposto appello. Su eccezione dei convenuti, La Corte di Appello adita con la sentenza impugnata ha dichiarato inammissibile il proposto appello per tardività della notificazione dell’impugnazione per decorso inutile del termine breve (la notificazione dell’impugnazione si era perfezionata il 5 ottobre 2017; la notificazione della sentenza impugnata era avvenuta via pec il 13.4.2017 al difensore costituito dell’appellante). A sostegno dell’avvenuta notifica della sentenza di primo grado la Corte aveva acquisito il messaggio di mancata consegna per casella postale piena.
La sig.ra Z.D. ha presentato ricorso per cassazione con tre motivi, accompagnato da memoria.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Il Collegio ritiene di dovere, per pregiudizialità logica, affrontare in primo luogo il terzo motivo con il quale la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata in relazione all’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione degli artt. 3-bis l. 21 gennaio 1994, n. 53, 16, 16- sexies d.l. 18 ottobre 2012, n. 179 (convertito, con modificazioni, in 1. 17 dicembre 2012, n. 221), nonché degli artt. 138, 137, 325, 326, 327 c.p.c.
Con la censura si fa valere la nullità della sentenza impugnata per avere la Corte territoriale ritenuto inammissibile per tardività l’appello (asseritamente notificato oltre il termine breve decorrente dalla notificazione della sentenza di primo grado). E ciò sul presupposto che si sarebbe perfezionata la notificazione via PEC ad opera delle parti convenute della sentenza di primo grado (e così integrato il presupposto per la decorrenza del termine breve per appellare ex art. 325 c.p.c.) ancorché il sistema non avesse generato la ricevuta di “avvenuta consegna” ed avesse invece generato una ricevuta di “mancata consegna” per casella pec piena. Tale situazione secondo la parte ricorrente non può essere omologata come pretende la Corte territoriale al rifiuto del destinatario di ricevere copia dell’atto da notificare, nel qual caso la notifica si considera fatta a mani proprie, perché, nel caso di specie, il destinatario nulla sa della eseguita notificazione via pec. La giurisprudenza della Suprema Corte (contrariamente a quanto assume la Corte territoriale) contraddice la soluzione accolta nella sentenza impugnata (Cass., sez. V, 20 luglio 2018, n. 19397). In conclusione, non potendo dirsi perfezionata la notifica via pec della sentenza di primo grado, non ha iniziato a decorrere il termine breve per l’appello ex art. 325 c.p.c. Sicché l’appello di Z.D. avrebbe dovuto essere considerato tempestivo ed ammissibile.
1.1. La censura è fondata. Il Collegio intende dare continuità all’orientamento da ultimo, con pronuncia (ord. 2193 del 2023) che si fa espressamente carico dei precedenti contrastanti e di quelli conformi sulla specifica questione del perfezionamento (o meno) della notifica a mezzo PEC, nel caso in cui la casella digitale del destinatario risulti piena.
La Corte, al riguardo, ha ritenuto che ove vi sia la dichiarazione di domicilio “fisico” (nella specie risultante ex actis) in caso di casella piena del soggetto destinatario, è insufficiente per il notificante depositare la relativa comunicazione del gestore della casella, dovendosi quest’ultimo attivare, per effettuare la notifica, a tentare di eseguire l’adempimento al domicilio fisico del destinatario, precedentemente eletto. (Cass., n. 26810/2022). Questo Collegio recepisce tale orientamento espresso già da Cass., n.40758/2021 che aveva precisato come :« In caso di notificazione a mezzo PEC del ricorso per cassazione non andata a buon fine, ancorché per causa imputabile al destinatario (nella specie per “casella piena”), ove concorra una specifica elezione di domicilio fisico – eventualmente in associazione al domicilio digitale – il notificante ha il più composito onere di riprendere idoneamente il procedimento notificatorio presso il domiciliatario fisico eletto in un tempo adeguatamente contenuto, non potendosi, invece, ritenere la notifica perfezionata in ogni caso con il primo invio telematico».
2. Con il primo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza in relazione all’articolo 360, n. 4, c.p.c., per violazione degli artt. 190, 359, 352 comma 1, 153 comma 2, 345 comma 3, 166, 167, 183 comma 6, n. 2, 325, 326, 327 c.p.c., dell’art. 3-bis l. 21 gennaio 1994, n. 53, e dei principi generali in tema di concentrazione delle attività processuali in grado di appello, di autoresponsabilità e dell’affidamento processuale. Violazione del contraddittorio.
Con il primo motivo si fa valere la nullità della sentenza per avere la Corte territoriale erroneamente giudicato ammissibile la produzione documentale effettuata dalle controparti (per provare la dedotta eccezione di inammissibilità per tardività dell’appello principale) soltanto con la comparsa conclusionale depositata nel giudizio di appello. Se la Corte territoriale avesse ritenuto la produzione documentale anzidetta inammissibile per tardività, avrebbe in pari tempo dovuto respingere, per assenza di prova, la eccezione di inammissibilità dell’appello principale.
3. Con il secondo motivo la ricorrente deduce la nullità della sentenza impugnata in relazione all’articolo 360, n. 4, c.p.c. per violazione degli artt. 345 comma 3, 183 commi 6-8, 115, 210, 325, 326, 327 c.p.c., dell’art. 3-bis l. 21 gennaio 1994, n. 53, nonché dei principi generali che sovrintendono alla distinzione tra rilievo officioso e prova degli impedimenti processuali. La Corte territoriale avrebbe ritenuto ammissibile la produzione documentale effettuata dalle controparti (per provare la dedotta eccezione di inammissibilità per tardività dell’appello principale) sul presupposto che si trattava di una eccezione di inammissibilità per tardività dell’appello principale rilevabile d’ufficio e sull’ulteriore presupposto che essa stessa Corte d’Appello avrebbe potuto disporre d’ufficio la acquisizione della documentazione menzionata.
3.1 Il primo e il secondo motivo sono assorbiti dall’accoglimento del terzo.
4. La sentenza impugnata va pertanto cassata, in relazione alla censura accolta, con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale si atterrà al principio di diritto sopra indicato e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il terzo motivo del ricorso, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità.
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