CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 16619 depositata il 12 giugno 2023

Lavoro – Differenze retributive – Indennità di fine rapporto – Pensione – Indennità di reggenza – Incarichi provvisori – Incarico dirigenziale temporaneo – Indennità di buonuscita – vizio di omessa pronuncia

Svolgimento del processo

Con ricorso depositato il 24 dicembre 2002 P.T. ha chiesto al Tribunale di Roma la condanna dell’INPDAP a pagargli, a decorrere dal 1° luglio 1998, le differenze retributive rispetto all’intero trattamento previsto per il dirigente, con conseguente rideterminazione anche dell’indennità di fine rapporto e del trattamento pensionistico.

Egli ha esposto di essere dipendente dell’INPDAP, con la qualifica di ispettore generale del ruolo ad esaurimento, collocato a riposo per dimissioni dal 1° aprile 2001, e di avere svolto, su richiesta del datore di lavoro, incarichi di natura dirigenziale dal 18 marzo 1991, percependo esclusivamente l’indennità di reggenza contrattualmente prevista per gli incarichi provvisori.

Il Tribunale di Roma, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 21816/2005, ha accolto il ricorso quanto alle differenze retributive ed all’indennità di fine rapporto.

L’INPDAP ha proposto appello.

P.T. si è costituito, proponendo appello incidentale con il quale ha prospettato il difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla statuizione della sentenza di primo grado che aveva rigettato la domanda di rideterminazione del trattamento pensionistico.

La Corte d’appello di Roma, con sentenza n. 3906/2011, ha accolto l’appello incidentale e, in parte, l’appello principale, condannando l’INPDAP a corrispondere le differenze retributive relative al periodo dall’ottobre 1998 al 24 gennaio 2000.

P.T. ha proposto ricorso per cassazione sulla base di un motivo.

L’INPS, succeduto all’INPDAP, si è difeso con controricorso.

La Corte di cassazione, nel contraddittorio delle parti, rilevato che oggetto del contendere erano ormai solo i capi della sentenza di appello che avevano respinto le domande di differenze retributive per i periodi dal 1° luglio al 30 settembre 1998 e dal 25 gennaio 2000 al pensionamento, e di ricalcolo dell’indennità di fine servizio, con sentenza n. 4997/2013, ha accolto il ricorso.

P.T. ha riassunto il giudizio davanti alla Corte d’appello di Roma che, nel contraddittorio delle parti, con sentenza n. 8560/2015, ha accolto le domande del ricorrente.

L’INPS ha proposto ricorso per cassazione sulla base di due motivi.

P.T. si è difeso con controricorso.

Il controricorrente ha depositato memoria.

Motivi della decisione

1) Preliminarmente deve essere respinta l’eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dal controricorrente, in quanto, dalla lettura del ricorso, in particolare da pagina 16 a pagina 21, è agevole individuare le parti della sentenza di appello contestate e le ragioni poste a fondamento dell’impugnazione.

Soprattutto, si rileva che il riferimento, nelle pagine da 6 a 16 del ricorso, alla memoria difensiva datata 4 giugno 2015 e depositata davanti alla Corte d’appello di Roma dall’INPS non rende irrituale il ricorso medesimo, atteso che serve solo a definire la materia del contendere in secondo grado, alla luce delle difese articolate dalla P.A.

2) Con il primo motivo parte ricorrente lamenta la nullità della sentenza per violazione dei principi di cui all’art. 111 Cost., letti alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la corte territoriale non si sarebbe pronunciata sulla sua eccezione di improcedibilità del ricorso in riassunzione per tardività della notifica; inoltre, la decisione sarebbe stata emessa in violazione del disposto dell’art. 435 c.p.c.

La doglianza è infondata.

Innanzitutto, si sottolinea che ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, essendo necessaria la totale pretermissione del provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto; tale vizio, pertanto, non ricorre quando la decisione, adottata in contrasto con la pretesa fatta valere dalla parte, ne comporti il rigetto o la non esaminabilità pur in assenza di una specifica argomentazione (Cass., Sez. 3, n. 2151 del 29 gennaio 2021).

Nel caso in esame, la decisione nel merito sulle domande di P.T. presuppone il rigetto dell’eccezione di improcedibilità sollevata dall’INPS.

Inoltre, si rileva che, nel rito del lavoro, il termine previsto per la riassunzione della causa in sede di rinvio risulta rispettato col deposito del ricorso nella cancelleria del giudice designato; dopo il deposito, tuttavia, grava sul ricorrente in riassunzione l’onere dell’instaurazione del contraddittorio attraverso la notificazione del ricorso e del decreto di fissazione dell’udienza, con la conseguenza che, ove la notificazione sia stata irrituale e la parte intimata non si sia costituita sanando il vizio di notifica, il giudice di rinvio deve assegnare al ricorrente, previa fissazione di altra udienza, un termine perentorio perché provveda alla valida notifica del ricorso e del decreto (Cass., Sez. L, n. 932 del 30 gennaio 1998).

Con riferimento all’art. 435 c.p.c., la S.C. ha chiarito che all’inosservanza del termine a comparire ex art. 435, comma 3, c.p.c., consegue non già l’improcedibilità dell’appello, bensì la nullità della notificazione suscettibile di essere rinnovata, previa fissazione di una successiva udienza e concessione di un nuovo termine per la notifica, sebbene la stessa sia stata eseguita in un termine ab initio insufficiente (Cass., Sez. 6-L, n. 12691 del 13 maggio 2019).

Ciò senza considerare che il vizio in questione resta sanato dalla costituzione dell’appellato (nella specie, avvenuta), ancorché effettuata al solo scopo di fare valere la nullità, salva la possibilità per l’appellato medesimo di chiedere, all’atto della costituzione, un rinvio dell’udienza per usufruire dell’intero periodo previsto dalla legge ai fini di un’adeguata difesa (Cass., Sez. L, n. 9735 del 19 aprile 2018).

Infine, si rileva che il termine di dieci giorni entro il quale l’appellante, ai sensi dell’art. 435, comma 2, c.p.c., deve notificare all’appellato il ricorso tempestivamente depositato in cancelleria nel termine previsto per l’impugnazione, unitamente al decreto di fissazione dell’udienza di discussione, non ha carattere perentorio; la sua inosservanza non produce conseguenze pregiudizievoli per la parte, perché non incide su alcun interesse di ordine pubblico processuale o su di un interesse dell’appellato, sempre che sia rispettato il termine che, in forza del medesimo art. 435, commi 3 e 4, c.p.c., deve intercorrere tra il giorno della notifica e quello dell’udienza di discussione (Cass., Sez. 2, n. 24034 del 30 ottobre 2020).

3) Con il secondo motivo parte ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 13 della legge n. 70 del 1975 in relazione all’art. 111, comma 7, Cost., letto alla luce dell’art. 6 CEDU, in quanto la corte territoriale avrebbe fatto proprie le conclusioni della CTU del 14 maggio 2004 che, però, non rispettavano la giurisprudenza richiamata nella sentenza della S.C. di rinvio quanto alla determinazione del trattamento di fine rapporto.

La doglianza è fondata.

La sentenza della S.C. n. 4997/2013, che ha dato origine al giudizio di rinvio conclusosi con la decisione della Corte d’appello di Roma n. 8560/2015 qui impugnata, ha ricondotto, alle pagine 4 e 5 della motivazione, gli incarichi oggetto del contendere attribuiti a P.T. e relativi ai due periodi dal medesimo indicati “alle ipotesi disciplinate dall’art. 56 D.Lgs. n. 29 del 1993, come sostituito dall’art. 25 del D. Lgs. n. 80 del 1998”.

Detta sentenza, che vincolava il giudice del rinvio, ha escluso che potessero configurarsi, in ordine al primo periodo, dal 1° luglio al 30 settembre 1998, una “reggenza” – o, meglio, una di ‹‹quelle funzioni “vicarie” del dirigente proprie della figura dell’ispettore generale del ruolo ad esaurimento›› – e, quanto al secondo lasso di tempo, dal 25 gennaio 2000 al pensionamento, “compiti di studio e di ricerca”, tutte ipotesi “di cui al D. Lgs. 3 febbraio 1993 n. 29, l’art. 25, quarto comma” che, quindi, non era applicabile nella specie.

Poiché gli incarichi de quibus rientravano nell’ambito regolamentato dall’art. 56 d.lgs. n. 29 del 1993, poi sostituito dall’art. 25 d.lgs. n. 80 del 1998 e, infine, dall’art. 52 d.lgs. n. 165 del 2001, e siccome la Corte di cassazione, con la sentenza n. 4997/2013, ha espressamente ritenuto che il trattamento di fine rapporto di P.T. dovesse essere determinato sulla base ‹‹”dello stipendio annuo complessivo in godimento” all’atto della cessazione del servizio, secondo quanto stabilito, per i dipendenti dagli enti pubblici del c.d. parastato dall’art. 13 della legge 20 marzo 1975 n. 70››, la questione in esame doveva essere decisa alla luce del principio espresso da Cass., SU, n. 10413 del 14 maggio 2014 (confermato da Cass., Sez. L, n. 22014 del 3 settembre 2019), per il quale, nel regime dell’indennità di buonuscita spettante ai sensi degli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. n. 165 del 2001, nella base di calcolo dell’indennità va considerato lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio delle superiori mansioni di dirigente.

Nella specie, però, non risulta che la corte territoriale, nel determinare la somma da corrispondere a P.T., si sia attenuta ai principi sopra esposti, né il rispetto di detti principi emerge dalla lettura della CTU menzionata, il contenuto della quale è stato trasposto nel ricorso introduttivo.

Del tutto inconferente è, poi, il richiamo, effettuato da P.T. nella sua memoria conclusiva, al precedente di questa sezione della S.C. n. 10030 del 15 aprile 2021, non essendosi occupato detto precedente della questione di diritto oggetto del motivo di ricorso qui esaminato.

4) Il ricorso è accolto quanto al secondo motivo, rigettato il primo.

La sentenza impugnata è cassata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di legittimità, applicando il seguente principio di diritto:

Nel regime dell’indennità di buonuscita spettante ai sensi degli artt. 3 e 38 del d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032, al pubblico dipendente, che non abbia conseguito la qualifica di dirigente e che sia cessato dal servizio nell’esercizio di mansioni superiori in ragione dell’affidamento di un incarico dirigenziale temporaneo di reggenza ai sensi dell’art. 52 del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, va considerato, nella base di calcolo dell’indennità, lo stipendio relativo alla qualifica di appartenenza e non quello corrisposto per il temporaneo esercizio delle superiori mansioni di dirigente”.

P.Q.M.

– accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo;

– cassa la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d’appello di Roma, in diversa composizione, la quale deciderà la causa nel merito, anche in ordine alle spese di legittimità.