Corte di Cassazione, ordinanza n. 17068 depositata il 14 giugno 2023
accertamento con adesione – impugnabilità
RILEVATO CHE:
1. L’Agenzia delle entrate ricorre con due motivi contro E. s.r.l., che resiste con controricorso, avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Campania, indicata in epigrafe, che ha rigettato l’appello dell’Ufficio in controversia avente ad oggetto l’impugnativa del provvedimento di diniego sull’istanza di rimborso di quanto versato a titolo di Ires ed Irap per la mancata deduzione di costi, recuperati a tassazione dall’amministrazione finanziaria con riferimento all’anno di imposta 2007 ed imputati dal contribuente come sopravvenienze attive con riferimento all’anno di imposta 2008.
2. Con la sentenza impugnata, la C.t.r., ritenendo che vi fosse stata una duplicazione di imposta sul medesimo presupposto impositivo, riconosceva il diritto al rimborso della società contribuente.
3. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 24 maggio 2023, ai sensi degli artt. 375, ultimo comma, e 380 bis 1, cod. proc. civ., il primo come modificato ed il secondo introdotto dal d.l. 31.08.2016, n.168, conv. in legge 25 ottobre 2016, n.197.
Parte contribuente ha depositato memoria.
CONSIDERATO CHE:
1.1. Con il primo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 3, comma 4, d.lgs. 19 giugno 1997, n.218, 27 d.lgs. 31 dicembre 1992, n.546, e 109 d.P.R. 22 dicembre 1986, n.917 (T.u.i.r.), in relazione all’art.360, primo comma 1, n.3, cod. proc. civ.
L’Ufficio deduce che la C.t.r. sarebbe incorsa in errore, laddove non ha considerato che il rimborso in contestazione traeva origine da versamenti effettuati in sede di accertamento con adesione.
Pertanto, dal momento in cui la definizione si era perfezionata con il versamento delle somme dovute, era esclusa la possibilità per il contribuente di proporre istanza di rimborso di quanto riteneva aver versato in eccesso.
1.2. Con il secondo motivo, l’Agenzia ricorrente denunzia la violazione e falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 38 d.P.R. 29 settembre 1973, n.602, in relazione all’art.360, primo comma 1, n.3, cod. proc. civ.
L’Ufficio deduce che la C.t.r. sarebbe incorsa in errore, laddove, affermando che il contribuente aveva subito una doppia tassazione sul medesimo presupposto di imposta, non aveva considerato che i costi dell’anno 2007 erano stati recuperati a tassazione perché privi del requisito della certezza..
2. I motivi, da esaminare congiuntamente perché connessi, sono infondati e vanno rigettati.
Ai sensi degli artt. 2, comma 3, e 3, comma 4, del d.lgs. n. 218 del 1997, l’accertamento definito con adesione non è soggetto ad impugnazione, non è integrabile e non è modificabile dall’Ufficio.
Sulla base di queste premesse, questa Corte, con l’ordinanza n. 13129/2018 ha escluso la possibilità di proporre istanza di rimborso di quanto ad avviso del contribuente versato in eccedenza per un errore che avrebbe viziato la sua adesione. Il Giudice di legittimità afferma, infatti, che l’istanza di rimborso deve considerarsi improponibile in quanto costituirebbe una surrettizia forma di impugnazione.
Interviene, inoltre, ad escludere la proponibilità dell’istanza di rimborso la stessa ratio dell’istituto. Lo scopo dell’accertamento con adesione è, infatti, connotato dall’interesse pubblico di acquisire immediatamente le somme risultanti dall’accordo. Ove fosse possibile la proposizione dell’istanza di rimborso, si finirebbe col mettere in discussione la sussistenza o la misura dell’obbligazione fiscale interessata dall’intervenuta adesione, laddove, invece, le somme
versate non possono essere più messe in discussione, con l’ulteriore effetto della deflazione del contenzioso (da ultimo, Cass. n.23224/2022).
Tuttavia in alcuni casi si è ritenuto che la parte fosse legittimata a correggere i propri errori.
Si ricorda in proposito l’ ordinanza della Corte n. 4566/ 2020, che ha deciso nel senso che <<fermo il principio generale in virtù del quale la definizione dell’accertamento con adesione, su istanza del contribuente, determina l’intangibilità della pretesa erariale oggetto del concordato intervenuto tra le parti, con la conseguente inammissibilità del ricorso volto a contestare il relativo atto, deve tuttavia ammettersi l’impugnabilità dell’atto di definizione quando non vi sia corrispondenza tra gli importi in esso contenuti e quelli indicati nel processo verbale di constatazione al quale egli aveva aderito, atteso che, diversamente, verrebbero limitati i diritti del contribuente sanciti dall’art. 24 Cost., tenuto conto peraltro, che l’art. 19 del d. lgs. n. 546 del 1992 si deve interpretare estensivamente, identificandosi tra gli atti impugnabili tutti quelli che, a prescindere dal loro nome, avanzino una pretesa tributaria nei confronti del contribuente>>.
Più di recente, con l’ordinanza n.29036/2021, questa Corte ha affermato che, nel caso di adesione al processo verbale di constatazione, l’impugnazione può essere fatta valere solo nel caso in cui non vi sia corrispondenza tra la maggiore imposta dovuta, secondo quanto emerge nel processo verbale di constatazione, e l’importo indicato nell’atto di definizione.
In sostanza, lo strumento della tutela giudiziaria è utilizzabile solo nel caso in cui il contribuente ravvisi degli errori in fase di liquidazione del tributo da parte dell’amministrazione finanziaria, avendo questa non correttamente determinato una maggiore imposta dovuta in base alle risultanze del processo verbale di constatazione, posto che, solo in tali circostanze, escludere un’autonoma impugnazione dell’atto di definizione significherebbe impedire al contribuente di far valere le proprie ragioni in sede giurisdizionale, con l’effetto che, pur in presenza di errori da parte dell’Ufficio, si vedrebbe cristallizzata, senza alcuna possibilità di tutela, una pretesa erariale non legittima.
Con riferimento al caso di specie, l’istanza di rimborso della controricorrente ha riguardato errori nella indicazione delle violazioni sostanziali riportate nel processo verbale di constatazione e poi trasfuse nell’atto di definizione.
Nella specie, infatti, nel recuperare a tassazione, perché privi di certezza, i costi dedotti dalla contribuente nell’anno 2007, i verificatori nel p.v.c., cui la contribuente prestava adesione ai sensi dell’art.5 – bis d.lgs. n.218/1997, davano atto che gli stessi costi venivano computati come sopravvenienze attive nel 2008, con l’effetto di posticipare il pagamento delle relative imposte dal 2007 al 2008, in cui vi era una aliquota Ires più favorevole.
Le parti, quindi, hanno concordato circa l’esercizio della corretta imputazione dei costi ed il recupero a tassazione dei relativi importi; di conseguenza, proprio sulla base dell’adesione al p.v.c., l’amministrazione finanziaria avrebbe dovuto riconoscere il rimborso, non solo – come ha fatto – delle somme pagate in eccesso per i costi “non di competenza” dell’anno 2008 e riferibili al 2007 (cfr. Cass. n. 2420/2021), ma anche di quelle relative alle sopravvenienze attive indicate nel reddito imponibile del 2008 e corrispondenti ai costi privi di certezza, dedotti nel 2007 e recuperati a tassazione.
Orbene, non essendo contestato che la società contribuente abbia aderito all’accertamento per l’anno 2007, in cui venivano recuperati a tassazione i costi privi del requisito della certezza ed ai quali corrispondevano le sopravvenienze attive dell’anno 2008, la doppia imposizione risulta essere un fatto evidente e tale fatto collide con il
divieto (principio) generale di cui all’art. 163, T.u.i.r., sicchè il pagamento avvenuto in seguito all’adesione per il 2007 trasforma quello effettuato per il 2008 in un indebito oggettivo (in un caso in parte simile, vedi Cass. n. 7438/2021, in motivazione).
In conclusione, il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e si liquidano in dispositivo.
Rilevato che risulta soccombente l’Agenzia delle Entrate, ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115 nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, (Cass. 29/01/2016, n. 1778).
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento in favore della controricorrente delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5800,00 per compensi, oltre il 15% per spese generali, euro 200,00 per esborsi, i.v.a. e c.p.a. come per legge
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