CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 18424 depositata il 28 giugno 2023

Tributi – Avviso di accertamento – Imposte dirette – IVA – Reddito d’impresa – Delega di firma – Coazione psicologica – Sanzione più favorevole – Accoglimento – in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall’art. 52, comma 3, del d.p.r. n. 633 del 1972, necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 del d.p.r. n. 600 del 1973, è richiesta soltanto nel caso di apertura coattiva e non anche ove l’attività di ricerca si svolga con il libero consenso del contribuente

Rilevato che

– La Commissione tributaria provinciale di Cagliari rigettava il ricorso proposto dalla (…) s.r.l., esercente il commercio al dettaglio di articoli per bambini, avverso un avviso di accertamento, per imposte dirette e IVA, emesso a seguito di rettifica del reddito d’impresa per l’anno 2007;

– con la sentenza indicata in epigrafe, la Commissione tributaria regionale della Sardegna rigettava l’appello proposto dalla società contribuente, rilevando, per quanto ancora qui interessa, che:

– l’asserito difetto di sottoscrizione dell’avviso di accertamento è infondato, in quanto agli atti era presente la delega del direttore al capo area, qualificata come delega di firma;

– non sussisteva la ipotizzata violazione degli artt. 52, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972 e 33, comma 1, del D.P.R. n. 600 del 1973, per la mancanza di autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura della cassaforte, in quanto la documentazione e gli assegni (alcuni in copia e altri in originale) custoditi nella cassaforte della società – il cui importo era stato considerato come utilità costituente il maggior reddito d’impresa – erano stati spontaneamente consegnati dall’incaricato dell’azienda, presente alle operazioni, dovendosi ritenere infondata la tesi della mancanza di consenso, dovuta allo stato di coazione psicologica in cui si sarebbe trovato il predetto incaricato per il solo fatto di essere stato avvisato delle conseguenze che derivavano nel caso di mancata collaborazione;

– gli assegni oggetto di verifica, provenienti da tale C., erano stati tutti acquisiti in via definitiva al patrimonio della contribuente, in virtù di cessioni di merce o apporti patrimoniali di altra natura, conferiti dal C. alla predetta società, benché alcuni assegni non fossero transitati in contabilità e altri vi fossero transitati in modo occulto, in quanto prima stornati per mancanza di copertura e poi pagati dalla banca, senza lasciare traccia nella contabilità aziendale; le risultanze dell’accertamento rendevano del tutto infondata la tesi difensiva della riconducibilità di detti assegni ad un prestito infruttifero, non essendo stata trovata traccia di alcuna restituzione;

– la (…) impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, illustrati con memoria;

– l’Agenzia delle Entrate resisteva con controricorso.

Considerato che

– Con il primo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 42, commi 1 e 3, del d.p.r. n. 600 del 1973, 1, 4 e 17 del D.Lgs. n. 165 del 2001, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR errato nel ritenere valido l’avviso di accertamento impugnato, qualificando la delega “di firma”, senza considerare che l’ordine di servizio prodotto dall’Agenzia era stato emesso al fine di fissare “i criteri ed i valori per l’individuazione della competenza alla sottoscrizione degli atti a rilevanza esterna”, ma non aveva indicato le ragioni del conferimento della delega e il termine di validità della stessa, mancando la prova che il destinatario della delega fosse un dirigente o, comunque, un impiegato della carriera direttiva;

– il motivo è infondato;

– l’art. 42 del d.p.r. n. 600 del 1973, n. 600 dispone che “Gli accertamenti in rettifica e gli accertamenti d’ufficio sono portati a conoscenza dei contribuenti mediante la notificazione di avvisi sottoscritti dal capo dell’ufficio o da altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato”;

– in mancanza di ulteriori spiegazioni sulle modalità di rilascio della delega, sulla sua funzione e sui requisiti di validità, fermo restando l’onere probatorio in capo all’Amministrazione, in caso di contestazione della sottoscrizione dell’avviso di accertamento, secondo un recente orientamento giurisprudenziale (ex multis, Cass. 29/03/2019, n. 8814), confermato da altre pronunce di questa Corte e al quale questo Collegio intende dare continuità, la delega alla sottoscrizione dell’avviso di accertamento ad un funzionario diverso da quello istituzionalmente competente ex art. 42 del d.p.r. n. 600 del 1973 ha natura di delega di firma – e non di funzioni – poiché realizza un mero decentramento burocratico senza rilevanza esterna, restando l’atto firmato dal delegato imputabile all’organo delegante, con la conseguenza che, nell’ambito dell’organizzazione interna dell’ufficio, l’attuazione di detta delega di firma può avvenire anche mediante ordini di servizio, senza necessità di indicazione nominativa, essendo sufficiente l’individuazione della qualifica rivestita dall’impiegato delegato, la quale consente la successiva verifica della corrispondenza tra sottoscrittore e destinatario della delega stessa;

con la delega di firma, dunque, il delegato non esercita alcun potere o competenza riservata al delegante, trovando titolo il suo agire nei poteri di ordine e direzione, coordinamento e controllo attribuiti al dirigente preposto all’ufficio (art. 11, comma 1, lett. c) e d) Statuto Agenzia delle entrate, approvato con delibera n. 6 del 2000; art. 14, comma 2, reg. amm. n. 4/2000), nell’ambito dello schema organizzativo della subordinazione gerarchica tra persone appartenenti al medesimo ufficio; trattandosi di una delega per la sottoscrizione, pertanto, alla stessa non è applicabile la disciplina dettata per la delega di funzioni di cui all’art. 17, comma 1bis, del d.lgs. n. 165 del 2001, per cui non è richiesta né la sua temporaneità né una specifica motivazione;

– l’ulteriore censura sulla mancanza della prova che il destinatario della delega fosse un dirigente o, comunque, un impiegato della carriera direttiva, è inammissibile, in quanto risulta sollevata per la prima volta in sede di legittimità, non avendo la ricorrente dimostrato di averla dedotta in modo specifico con il ricorso introduttivo;

– dalla trascrizione del corrispondente motivo, riportata dall’Agenzia nel controricorso, si desume, semmai, l’assenza di una specifica censura sul punto, risultando il motivo incentrato esclusivamente sulla mancanza della delega;

– con il secondo motivo, denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 52 del d.p.r. n. 633 del 1972, 33 del D.P.R. n. 600 del 1973, 7 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, 8 della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo, 584 del Trattato dell’Unione Europea e protocollo n. 2 allegato ai Trattati sull’Unione Europea, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la CTR erroneamente ritenuto che l’incaricato avesse spontaneamente consegnato la documentazione conservata in cassaforte, non potendosi invocare il consenso in chi si trovi in uno stato di coazione psicologica, a seguito dell’ammonimento circa le conseguenze che derivano dalla mancata esibizione della documentazione relativa all’attività esercitata dalla società, trattandosi di stato che si identifica in quella che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo definisce “coercizione arbitraria o indiretta”, con conseguente inutilizzabilità della documentazione acquisita, per violazione del principio “nemo tenetur se detergere” e del principio di proporzionalità, essendo l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica sempre necessaria, al fine di prevenire l’indiscriminata ricerca di prove, in mancanza di sufficienti indizi;

– il motivo non è fondato;

– come ha anche recentemente ribadito questa Corte, “in tema di accertamento delle imposte, l’autorizzazione del Procuratore della Repubblica all’apertura di pieghi sigillati, borse, casseforti e mobili in genere, prescritta in materia di IVA dall’art. 52, comma 3, del d.p.r. n. 633 del 1972, necessaria anche in tema di imposte dirette, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 33 del d.p.r. n. 600 del 1973, è richiesta soltanto nel caso di apertura coattiva e non anche ove l’attività di ricerca si svolga con il libero consenso del contribuente, senza che ai fini della valida espressione di tale consenso sia necessario che il contribuente sia stato informato della sussistenza di una previsione di legge che, in caso di sua opposizione, consente l’apertura coattiva solo previa autorizzazione del Procuratore della Repubblica, non rinvenendosi un obbligo in tal senso né nell’art. 52 del d.p.r. n. 633 del 1972, né nell’art. 12, comma 2, della l. n. 212 del 2000” (Cass. sez. un., n. 3182 del 27/02/2022);

– con riferimento all’ipotizzata coazione implicita o indiretta, indotta dalle modalità con le quali sarebbe stata richiesta l’apertura della cassaforte, occorre evidenziare che se, da un lato, il consenso forzato esclude effettivamente ogni valenza al consenso, dall’altro lato, occorre ricordare che un’eventuale coazione va accertata dal giudice di merito, al quale solo spetta, nell’ambito dei suoi poteri valutativi, esaminare il materiale probatorio offerto dalle parti, trattandosi di un accertamento di merito, insindacabile in questa sede;

– nella specie, dalla sentenza impugnata risulta che la documentazione contenuta nelle due casseforti presenti ciascuna in due diverse sedi della società, era stata consegnata spontaneamente dagli impiegati incaricati, senza alcuna opposizione, essendo stata esclusa, sulla base delle deduzioni delle parti, la sussistenza di un consenso coatto; a tal fine, la sentenza si sofferma sulla circostanza per cui, secondo la tesi della contribuente, solo l’incaricato presso la sede dove si trovava la cassaforte contenente gli assegni sarebbe stato intimidito dagli operatori, sebbene le formalità di apertura e gli avvisi di rito erano gli stessi per entrambe le sedi; ciò rendeva, secondo la CTR, ancora più inconsistente la ipotizzata coazione indiretta;

con il terzo motivo, deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 e 111 Cost. e omesso esame di fatti decisivi per il giudizio che sono stati oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360, comma 1, n, 3 e n. 5 c.p.c., per avere la CTR erroneamente ritenuto che gli assegni rinvenuti nella cassaforte della società, consegnati da C.A., non costituissero un prestito infruttifero, senza considerare le dichiarazioni del C. e dell’amministratore della (…), il contratto di associazione in partecipazione con apporto di soli servizi, stipulato con la S.I.C. s.r.l. (di cui era legale rappresentante il C.) e registrato in data 17.02.2005, l’atto modificativo del predetto contratto, registrato il 22.11.2006, il verbale di riunione dei sindaci del 10.06.2012, nel quale era stato constatato che nell’esercizio 2007 gli addetti alla contabilizzazione avevano omesso di rilevare un finanziamento infruttifero che il C. aveva erogato in favore della società contribuente, e la nota integrativa al bilancio chiuso al 31.12.2009, nella quale era stato rilevato l’errore contabile commesso nell’esercizio 2007, consistente nella omessa registrazione del prestito infruttifero concesso dal C.;

– il dedotto vizio di violazione di legge è infondato, in quanto la CTR non ha escluso l’ammissibilità, nel rito tributario, delle dichiarazioni rese da terzi, ma le ha ritenute irrilevanti, alla luce delle complessive risultanze probatorie;

– per quanto riguarda l’asserito omesso esame di un fatto decisivo, il motivo risulta inammissibile per difetto di specificità;

– alla fattispecie in esame si applica, invero, l’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 nel testo novellato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in l. 7 agosto 2012, n. 134, in quanto la sentenza impugnata è stata pubblicata il 7.09.2015. Con detta novella è stato introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia);

– si tratta di censura che, tuttavia, impone a chi la denunci di indicare, nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366 comma 1, n. 6, e 369, comma 2, n. 4 c.p.c., il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua “decisività”;

– resta fermo che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (ex plurimis, Cass., sez. un., 7/04/2014, n. 8053);

– questa Corte ha anche avuto modo di chiarire che “In tema di ricorso per cassazione costituisce fatto (o punto) decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 quello la cui differente considerazione è idonea a comportare, con certezza, una decisione diversa” (ex plurimis, Cass. n. 17761 del 2016);

al fine di consentire il vaglio di decisività, quindi, non è sufficiente allegare al ricorso gli atti di cui si lamenta il mancato esame, ma occorre riportare all’interno del ricorso le parti significative del loro contenuto, specificando le deduzioni e gli argomenti formulati in proposito nel giudizio di merito;

– la ricorrente non si è attenuta a tutte le suddette prescrizioni, in quanto ha formulato un motivo generico, elencando alcune dichiarazioni rese da terzi e una serie di documenti, che non sarebbero stati esaminati dalla CTR, senza specificare lo stretto nesso causale tra il fatto di cui sarebbe stato omesso l’esame e la differente decisione;

– il motivo è inammissibile anche sotto altro profilo, in quanto la ricorrente, sotto l’apparente deduzione del vizio di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio e di violazione di legge, ha inteso, in realtà, confutare le valutazioni di merito circa il titolo di detenzione degli assegni rinvenuti nella cassaforte aziendale, censurando, nella sostanza, il giudizio di fatto operato sul punto dal giudice regionale con riferimento alla valutazione delle prove;

– con il quarto motivo invoca lo ius superveniens, con riferimento all’applicazione della sanzione più favorevole prevista dall’art. 1, comma 2, del D.Lgs. n. 471 del 1992, come modificato dall’art. 15, comma 1, lett. a) del D.Lgs. n. 158 del 2015;

– l’Agenzia delle Entrate ha aderito a detta censura;

– il motivo è fondato;

– sul punto è pacifico che “In tema di sanzioni amministrative per violazione di norme tributarie, la sopravvenuta revisione del sistema sanzionatorio tributario, introdotta dal D.Lgs. n. 158 del 2015 e vigente dal 10 gennaio 2016 a norma dell’art. 32 del medesimo D.Lgs., è applicabile retroattivamente in forza del principio del “favor rei”, a condizione che il processo sia ancora in corso e che perciò non sia ancora definitiva la parte sanzionatoria del provvedimento impugnato” (Cass. n. 8716 del 30/03/2021);

– la sentenza impugnata va, dunque, cassata limitatamente al quarto motivo, riguardante il trattamento sanzionatorio e alla sua rideterminazione, con rinvio alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Sardegna, in diversa composizione, anche per le spese del presente giudizio, con conseguente rigetto degli altri motivi.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo del ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della Sardegna, in diversa composizione.