Corte di Cassazione, ordinanza n. 18965 depositata il 5 luglio 2021

la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente  risultanza probatoria

FATTI DI CAUSA

Con sentenza n. 194/2/2011 la Commissione Tributaria Provinciale di Pisa rigettò il ricorso proposto da B.F., esercente l’attività di tinteggiatura, contro l’avviso di accertamento con cui la Agenzia delle Entrate, sulla base di indagini bancarie sui conti correnti intestati al ricorrente ed in esito a contraddittorio procedimentale, aveva rettificato i ricavi ed il volume di affari ai fini IVA per l’anno di imposta 2004, attribuendo valenza reddituale a tutti i movimenti bancari in entrata e in uscita in relazione ai quali aveva ritenuto insufficienti le giustificazioni fornite dal contribuente, così determinando in conseguenza i maggiori tributi e gli accessori.

Il contribuente aveva dedotto con il ricorso introduttivo che i movimenti bancari non potevano essere considerati come reddito se non dopo avere detratto l’incidenza dei costi in modo forfetario, come ritenuto dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 225 dell’8.6.2005 e che inoltre l’Ufficio aveva errato nel non ritenere sufficienti le giustificazioni offerte dal contribuente in relazione alla gran parte dei movimenti bancari posti a base dell’accertamento, ma la Commissione Tributaria Provinciale di Pisa rigettò il ricorso rilevando che, in caso di accertamento analitico – induttivo, come quello in esame, le spese e gli oneri specificamente afferenti ai ricavi ed altri proventi, che, pur non risultando imputati al conto economico, concorrono a formare il reddito, ai sensi dell’art. 109, comma 4, lett. b), ultimo periodo del TUIR, sono ammessi in deduzione se e nella misura in cui risultano da elementi certi e precisi, il che impediva la deduzione di costi determinati in modo forfetario. La CTP ritenne inoltre che l’accertamento avesse legittimamente applicato la presunzione legale derivante dai dati analitici contestati alla parte, spettando al contribuente fornire elementi puntuali atti a disattendere quanto accertato dall’Ufficio.

Investita dall’appello del contribuente – che ripropose i motivi del ricorso iniziale, deducendo in particolare che l’accertamento era di tipo induttivo e non di tipo analitico induttivo poiché era stato redatto a prescindere dall’analisi della contabilità del contribuente, che comunque la sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 2005 imponeva che dei costi incidenti in percentuale sui ricavi si dovesse tenere conto in tutti i casi di accertamenti basati su indagini bancarie, a prescindere dalla loro qualificazione e che il contribuente aveva giustificato le movimentazioni bancarie – la Commissione Tributaria Regionale della Toscana, con sentenza n. 174/1/2013, rigetto l’appello “in quanto la sentenza di primo grado appare correttamente motivata in relazione alla movimentazione bancaria del contribuente cui non sono stati contrapposti elementi contrari”.

Contro la sentenza di appello depositata in data 28.10.2013, non notificata, ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, con atto notificato in data 28 aprile / 5 maggio 2014, affidato a tre motivi e successive memori, cui ha resistito con controricorso la Agenzia delle Entrate.

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo il ricorrente lamenta, in relazione all’art. 360, comma 1, 4, cpc, nullità della sentenza per omessa motivazione ai sensi dell’art. 36 del D. Lgs. n. 546 del 1992 poiché la motivazione della sentenza doveva essere ritenuta apparente per apodittica totale condivisione, per relationem, delle statuizioni della sentenza di primo grado senza autonoma valutazione degli aspetti di fatto e di diritto della controversia ed in particolare dei motivi di appello, neppure indicati nella sentenza di appello, con cui il ricorrente aveva contestato la qualificazione dell’accertamento, operato dal primo giudice, come “analitico induttivo” invece che come “induttivo”, posto che era stato emesso prescindendo dall’esame della contabilità ed aveva dedotto la deducibilità in ogni caso dei costi in misura percentuale, in conformità alla sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 2005, nonché la pretesa inidoneità delle giustificazioni della maggior parte delle movimentazioni offerta dal contribuente, così da rendere impossibile ogni controllo sulla esattezza e logicità del ragionamento.

2. Con il secondo motivo si duole, in una prospettiva subordinata, della violazione dell’art. 32 del DRR n. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, comma 1, n.3, cpc poiché la sentenza di secondo grado, nel rigettare l’appello, aveva violato la disposizione legislativa considerando le movimentazioni bancarie direttamente come “redditi” invece di valutarli come “ricavi” da cui desumere i redditi previa deduzione dei costi, secondo il disposto dell’art. 32 citato come interpretato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 225 del 2005.

3. Con il terzo motivo sostiene infine, sempre In una prospettiva subordinata, in relazione all’art. 360, comma 1, 5, cpc, omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, costituito dal fatto che il contribuente aveva depositato in allegato all’appello dei prospetti con cui aveva indicato i beneficiari dei pagamenti e le causali dei versamenti con riguardo a movimenti per euro 106.953,20, a fronte di 285.667,85 totali, mentre la sentenza impugnata si era limitata a rispondere che “non sono stati contrapposti elementi contrari”.

4. La Agenzia delle Entrate, con le proprie controdeduzioni, ha opposto che si trattava di accertamento analitico – induttivo a seguito di contraddittorio con il contribuente che aveva indotto l’Ufficio ad escludere la imponibilità delle somme risultanti dai movimenti bancari per le quali il contribuente aveva offerto, fin dal contraddittorio, chiarimenti che rispondevano per date ed importi, mentre aveva determinato lo stesso Ufficio a ritenere imponibili le somme in relazioni alle quali le giustificazioni del contribuente erano palesemente contraddittorie per la non coincidenza temporale e / o per la incompatibilità tra il soggetto firmatario dell’assegno incassato ed il cliente risultante dalla fattura di vendita e / o per incompatibilità tra le modalità di pagamento indicate su alcune fatture di acquisto, considerato che il contribuente aveva ricondotto, in modo del tutto arbitrario, alcune movimentazioni a pagamenti parziali di fatture di maggiore importo e altre movimentazioni ad acconti derivanti da successivi contratti di compravendita, in assenza però di qualsiasi fattura di incasso per acconti ricevuti che non trovava rispondenza nella contabilità. La sentenza di primo grado, la cui motivazione era stata fatta propria da quella d’appello per relationem, era quindi motivata correttamente poiché il primo giudice aveva già risposto alle doglianze di primo grado, speculari a quelle d’appello, escludendo la deducibilità di ulteriori costi afferenti ai maggiori ricavi in quanto non risultavano da elementi certi e precisi la cui prova sarebbe spettata al contribuente che la avrebbe dovuta fornire unitamente alla prova analitica della non imponibilità delle movimentazioni che l’Ufficio aveva ritenuto integrare dei ricavi in base alla presunzione legale correttamente applicata nel caso in esame.

4. Il ricorso è infondato.

5. Quanto al primo motivo, con cui si deduce omessa motivazione o motivazione apparente della sentenza d’appello con conseguente nullità della stessa per non avere preso in esame i motivi di appello posti dal contribuente, in realtà non si confronta con la motivazione offerta dal giudice d’appello, il quale, pur se con estrema sintesi, a fronte della sostanziale riproposizione in appello dei motivi già posti in sede di ricorso (come riconosce lo stesso ricorrente a pagine 2, 3 e 4 del ricorso per cassazione, laddove riassume i motivi iniziali di impugnazione e quelli di appello che riproponevano la deducibilità dei costi in misura forfetaria a fronte di un accertamento induttivo, in conformità della pronuncia della Corte Costituzionale n. 225 del 2005, nonché la idoneità delle giustificazione offerte per la esclusione della maggior parte delle movimentazione bancarie}! ljj- ha motivato per relationem alla sentenza del primo giudice, che ha condiviso e fatto propria, aggiungendo peraltro che il primo giudice aveva correttamente motivato la sentenza basata sulle movimentazioni bancarie, mentre il contribuente non aveva offerto prove contrarie.

5.1 Posto che si trattava di sentenza pienamente confermativa di quella di primo grado era in primo luogo consentita la motivazione per relationem, come d’altro riconosce anche il ricorrente, mentre, in tema, in particolare, di processo tributario, è nulla, per violazione degli artt. 36 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992, nonché dell’art. 118 disp. att. c.p.c., la sentenza della Commissione Tributaria Regionale solo qualora sia completamente carente  dell’illustrazione  delle  critiche  mosse dall’appellante alla statuizione di primo grado e delle considerazioni che hanno indotto la commissione a disattenderle e che si sia limitata a motivare “per relationem” alla sentenza impugnata mediante la mera adesione ad essa, atteso che, in tal modo, resta impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo e non può ritenersi che la condivisione della motivazione impugnata sia stata raggiunta attraverso l’esame e la valutazione dell’infondatezza dei motivi di gravame (v. per tutte, da ultimo, Cass. Sez. 5 – , Sentenza n. 24452 del 05/10/2018 Rv. 650527 – 01); il che non pare prospettabile nella specie posto che il giudice d’appello non si è limitato ad aderire alla sentenza di primo grado, bensì ha preso in esame i motivi di appello, peraltro riproduttivi di quelli del ricorso iniziale, dando atto che nessun elemento offerto dal contribuente intaccava la decisione del primo giudice, non avendo il contribuente portato, neppure in appello, nuovi elementi da contrapporre.

5.2 E’ vero che la sentenza di appello non riproduce i motivi di appello, però, considerato che lo stesso ricorrente riconosce che si trattava di elementi speculari a quelli presentati in primo grado, non si può parlare di motivazione inesistente ovvero apparente come assume il ricorrente, considerato che dalla sentenza di appello emerge che la stessa ha ritenuto infondato l’appello per gli stessi argomenti già sviluppati da giudice di primo grado che, in effetti, come risulta dalla stessa, che è stata integralmente trascritta nella parte motivazionale a pagina 3 del ricorso per cassazione, aveva affrontato e deciso tutti i temi della causa già posti con il ricorso iniziale, a partire della natura dell’accertamento, qualificato come analitico – induttivo basato sui dati emergenti dai conti correnti intestati al contribuente richiesti e trasmessi dagli istituti di credito, nel cui ambito la deduzione dei costi poteva avvenire, ai sensi dell’art. 109, comma 4, lett. b), ultimo periodo del TUIR, solo sulla base di precise allegazioni del contribuente basate su dati certi e precisi e non anche in misura forfetaria come preteso dal contribuente, per finire con la argomentazione che altrettanto correttamente l’Ufficio aveva applicato la presunzione legale che consentiva di qualificare ricavi quelli emergenti dalle movimentazioni dei conti correnti, come risultante dalla citata giurisprudenza della Corte di Cassazione, mentre non erano emersi elementi puntuali atti a disattendere i dati analitici forniti dall’Ufficio; il che dispensava il giudice d’appello dall’onere di trascrivere quanto già scritto dal giudice di primo grado.

6. Anche il secondo motivo di ricorso, con cui si lamenta violazione dell’art. 32 del DPR n. 600 del 1973, per non avere la sentenza impugnata sottratto dai pretesi ricavi una percentuale forfetaria di costi, è infondato.

6.1 Occorre premettere, ai fini dell’inquadramento della questione, che l’art. 32 del DPR n. 600 del 1973, la cui violazione viene dedotta dal contribuente, non prevede in realtà una tipologia di accertamento di maggiori redditi bensì i poteri istruttori attribuiti agli uffici finanziari a seguito del cui esercizio gli stessi potranno emettere una delle tipologie di accertamento previste dalle successive disposizioni di legge ed in particolare, per quanto qui interessa, un accertamento analitico o analitico induttivo ai sensi del primo comma dell’art. 39 ovvero un accertamento induttivo puro ai sensi del secondo comma della stessa disposizione.

6.2 Nella specie la Agenzia delle Entrate aveva dedotto che si trattava di accertamento analitico induttivo (quindi ai sensi del primo comma dell’art. 39 del DPR n. 600 del 1973) ed il giudice di primo grado ha confermato tale qualificazione che, in effetti, era quella appropriata poiché l’art 39 comma 1 lett. d) del DPR n. 600 del 1973 prevede la ipotesi di incompletezza, falsità o l’inesattezza degli elementi indicati nella dichiarazione e nei relativi allegati che risulta dall’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’articolo 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonchè dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’articolo 32, nel qual caso l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti.

6.3 Non ha quindi fondamento la tesi del contribuente che si sarebbe trattato di un accertamento induttivo puro poiché ciò è stato escluso già dal giudice di primo grado e con l’appello (non trascritto su tale punto) non risulta specificamente contestata la qualificazione operata dal giudice di primo grado, poi confermata per relationem con la sentenza di appello; né in sede di ricorso per cassazione è stata specificamente impugnata tale qualificazione, anche perché il contribuente non invoca la violazione dell’art. 39, comma 2, del DPR n. 600 del 1973, mentre si limita a sostenere che vi è stata violazione dell’art. 32, poiché, a seguito delle indagini bancarie, scaturirebbe necessariamente un accertamento induttivo che imporrebbe in ogni caso la riduzione forfetaria dei costi pur in assenza di qualsiasi prova o deduzione da parte del contribuente; il che appare infondato sulla base degli elementi che seguono.

6.4 Sul tema dell’utilizzo dei dati emergenti dai conti correnti bancari, ai fini della ricostruzione del reddito imponibile, si registrano in realtà numerosi arresti a partite dalla introduzione dell’istituto. Così è sicuramente attinente al tema che qui viene in esame la pronuncia di Cass. n. 25317/2014, secondo cui “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria, in sede di accertamento induttivo, deve procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito che siano comunque emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente, dovendosi, peraltro, escludere l’automatica inclusione, fra le componenti negative, delle operazioni di prelievo effettuate dal contribuente dai conti correnti a lui riconducibili, in quanto le operazioni sui conti medesimi, sia attive che passive, vanno considerate ricavi, essendo posto a carico del contribuente l’onere di indicare e provare eventuali specifici costi deducibili” (conforme, la successiva Cass. n. 31024/2017).

6.5 Appare significativa sul punto anche la pronuncia di Cass. n. 22266/2016, che ha affermato che “In tema di accertamento induttivo delle imposte sui redditi, l’Amministrazione è tenuta a ricostruire la situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, purché emergenti dagli accertamenti o dimostrate dal contribuente, su cui grava l’onere della prova dei costi deducibili dall’ammontare dei ricavi induttivamente determinati“. Nello stesso senso, Cass. n. 22868/2017 ha affermato che “In tema di imposte sui redditi, l’Amministrazione finanziaria deve riconoscere una deduzione in misura percentuale forfettaria dei costi di produzione soltanto in caso di accertamento induttivo “puro” ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, mentre in caso di accertamento analitico o analitico presuntivo è il contribuente ad avere l’onere di provare l’esistenza di costi deducibili, afferenti ai maggiori ricavi o compensi, senza che l’Ufficio possa, o debba, procedere al loro riconoscimento forfettario“.

6.6 Da ultimo, sempre sulla stessa linea, Sez. 5 -, Sentenza n. 15161 del 16/07/2020 Rv. 658425 – 01 ha ritenuto che l’art. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 fonda una presunzione relativa circa la natura di ricavi sia dei prelevamenti sia dei versamenti su conto corrente, superabile attraverso la prova, da parte del contribuente, che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; pertanto, in virtù della disposta inversione dell’onere della prova, grava sul contribuente l’onere di superare la suddetta presunzione (relativa) dimostrando la sussistenza di specifici costi e oneri deducibili, che dev’essere fondata su concreti elementi di prova e non già su presunzioni o affermazioni di carattere generale o sul mero richiamo all’equità. Infatti, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, “in tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla determinazione del reddito di impresa, l’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, impone di considerare ricavi sia i prelevamenti, sia i versamenti su conto corrente, salvo che il contribuente non provi che i versamenti sono registrati in contabilità e che i prelevamenti sono serviti per pagare determinati beneficiari, anziché costituire acquisizione di utili; e ciò senza che si debba procedere alla deduzione presuntiva di oneri e costi deducibili, giacché, in forza della disposta inversione dell’onere della prova, grava sul contribuente l’onere di superare la contraria presunzione di legge (relativa), attestando la ricorrenza di specifici costi deducibili con concreti elementi di prova, non mediante affermazioni, di carattere generale, semplici presunzioni o il richiamo all’equità. Alla presunzione di legge (relativa) va infatti contrapposta una prova, non un’altra presunzione semplice ovvero una mera affermazione di carattere generale, né è possibile ricorrere all’equità” (cfr. anche Cass. Sez. V, n. 1898/2016; n. 6425/2011; n. 25365/2007).

6.7 Si può quindi sintetizzare che l’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, addirittura nel caso in cui l’Ufficio determini i redditi con metodo induttivo mediante ricorso a indagini bancarie, il riconoscimento di detti costi non può dirsi precluso in linea di principio, ma è soggetto all’onere probatorio gravante sul contribuente, chiamato a vincere la presunzione di cui all’art. 32 del d.P. n. 600/1973, in ordine ai versamenti/prelevamenti risultanti dal conto corrente bancario. Il che è quanto affermato dal giudice di primo grado, la cui pronuncia è stata confermata in appello. E peraltro, una volta ritenuto corretto il principio di diritto applicato dal giudice del merito, il problema si sposta sull’affermazione del giudice del merito per cui il contribuente non aveva contrapposto alcun valido elementi contrario, ossia non avrebbe vinto la presunzione relativa posta dalla citata norma. Si tratta, quindi, come è evidente, di un tipico apprezzamento di merito derivante dalla valutazione delle risultanze istruttorie, non censurabile per cassazione se non sotto il profilo del vizio motivazionale risolvendosi esso in un giudizio sul fatto (Cass. n. 24434/2016; Cass. n. 23940/2017).

6.8 Ciò non si pone in contrasto con la sentenza interpretativa di rigetto della Corte costituzionale n.225 del 2005 che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 32, primo comma, numero 2, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, sollevata, in riferimento agli articoli 3 e 53 della Costituzione, sotto il profilo che non consentirebbe di tenere conto dei componenti negativi del maggior reddito di impresa accertato, alla luce della giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in caso di accertamento induttivo, si deve tenere conto – in ossequio al principio di capacità contributiva – non solo dei maggiori ricavi ma anche della incidenza percentuale dei costi relativi, che vanno, dunque, detratti dall’ammontare dei prelievi non giustificati; e così interpretata, la norma si sottrae alla censura di violazione dell’art. 53 della Costituzione, risolvendosi, quanto alla destinazione dei prelievi non risultanti dalle scritture contabili, in una presunzione di ricavi iuris tantum suscettibile, cioè, di prova contraria attraverso la indicazione del beneficiario dei prelievi. 

6.9 La Corte Costituzionale ha infatti richiamato la elaborazione giurisprudenziale di questa Corte, che è poi rimasta ferma nel tempo in virtù della quale, in caso di accertamento basato sulle movimentazioni bancarie, se di tipo induttivo, deve tenere conto anche dei costi, di cui spetta al contribuente fornire la prova contraria, peraltro limitatamente ai prelievi non risultanti dalle scritture contabili; ma di tale interpretazione della norma ha tenuto conto la sentenza impugnata, confermativa di quella di primo grado richiamata integralmente per relationem, che, pur avendo ritenuto l’accertamento analitico – induttivo e quindi tale da non comportare un obbligo di deduzione di costi, tanto meno con incidenza percentuale, ha poi ritenuto pure, correttamente, che i costi correlati ai maggiori ricavi dovessero essere indicati e provati dal contribuente, il che non era avvenuto. Ed appare anche opportuno aggiungere che, così come rilevato dalla Agenzia delle Entrate nelle controdeduzioni, si trattava nella specie, con riguardo ai maggiori ricavi determinati dall’Ufficio, non già di prelevamenti bensì di versamenti che il contribuente aveva ritenuto di giustificare, in mancanza di qualsiasi fattura, come pagamenti parziali o come acconti derivanti da successivi contratti che però non risultavano dalla contabilità.

7. Il terzo motivo – con cui si deduce, in via subordinata rispetto al primo motivo di ricorso (con cui si è sostenuto il vizio di omessa motivazione), omesso esame di fatti decisivi per il giudizio consistenti nell’omesso esame di alcuni dettagli allegati dal contribuente all’appello (e già prodotti in precedenza) che potevano dimostrare la deducibilità dei movimenti contenuti in tali dettagli – presenta in primo luogo ampi profili di inammissibilità per difetto di autosufficienza, poiché il contribuente non trascrive il relativo motivo di appello mentre si limita a sostenere che aveva prodotto in allegato all’appello, ancora una volta, i dettagli delle movimentazioni che a suo avviso apparivano giustificate.

7.1 In ogni caso l’omesso esame di fatti decisivi riguarda i fatti storici e non gli argomenti, per cui la pretesa violazione di motivazione ex art. 360, 1° , n. 5, c.p.c. – tenuto conto del fatto che è applicabile nella specie, ratione temporis, la nuova formulazione risultante dalla modifica di cui al D.L. n. 13 del 2012, convertito dalla legge n. 43 del 2012, poiché la sentenza di appello è stata pubblicata in data 28.10.2013 – si pone in contrasto con l’indirizzo di questa Corte (Cass. n. 21152/14), secondo cui tale disposizione, già nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.lgs. 2 febbraio 2006 n. 40, prevede l’«omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione», come riferita ad «un fatto controverso e decisivo per il giudizio» ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico, non assimilabile in alcun modo a «questioni» o «argomentazioni» ovvero alle prove, che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate con riguardo ad un preteso errore di percezione o ricezione della prova da parte del giudice di merito, ritenuto valutabile in sede di legittimità qualora dia luogo ad un vizio logico di insufficienza della motivazione, che non è più deducibile a seguito della novella apportata all’art. 360, comma 1, n. 5c.p.c. dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla I. n. 134 del 2012, la quale ha reso inammissibile la censura per insufficienza o contraddittorietà della motivazione, sicché “a fortiori” se ne deve escludere la denunciabilità in caso di cd. “doppia conforme”, stante la preclusione di cui all’art. 348-ter, ultimo comma, c.p.c.

7.2 Il vizio si infrange, ora, anche contro il principio di diritto affermato dalle U -, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020 Rv. 659037 – 02, per cui, in tema di ricorso per cassazione, la doglianza circa la violazione dell’art. 116 c.p.c. è ammissibile solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato – in assenza di diversa indicazione normativa – secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente  risultanza probatoria  (come,  ad esempio,  valore di prova legale), oppure, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento, mentre, ove si deduca che il giudice ha solamente male esercitato il proprio prudente apprezzamento della prova, la censura è ammissibile, ai sensi del novellato art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., solo nei rigorosi limiti in cui esso ancora consente il sindacato di legittimità sui vizi di motivazione.

8. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato e – fermo restando il regolamento delle spese disposto dal giudice del merito – il ricorrente deve essere condannato alla rifusione delle spese del presente giudizio liquidate come in dispositivo in favore dell’Agenzia delle Entrate. Sussistono i presupposti per il cd. raddoppio del contributo unificato a norma del comma 1 bis dell’art.13 comma 1 quater d.PR n.115/2002, essendo stato il ricorso notificato il 5 maggio 2014.

P.Q.M. 

La Corte: rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio in favore della Agenzia delle Entrate che liquida in euro 5.600,00, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto