CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 20051 depositata il 13 luglio 2023
Tributi – Silenzio rifiuto – Rimborso credito IVA – Avvisi di accertamento societari – Comunicazione sospensione rimborso – Avviso di pagamento – Rigetto – In tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum“
Ritenuto che
1. D.G. aveva proposto ricorso avverso il silenzio rifiuto opposto dall’Agenzia delle Entrate alla richiesta di rimborso del credito I.V.A., relativo all’anno 2003, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 30, comma 3, e 38 bis per l’importo di Euro 154.917,00, depositata in data 2 febbraio 2004 e successivamente intimata in data 12 gennaio 2012.
2. La Commissione tributaria provinciale di Roma, con sentenza n. 8270/29/17, depositata in data 30 marzo 2017, aveva rigettato il ricorso, rilevando che le questioni di inesistenza/nullità sollevate in via preliminare dal ricorrente, sia in relazione agli avvisi di accertamento societari n. (…) per l’anno di imposta 2003 e n. (…) per l’anno di imposta 2004, sia con riguardo all’avviso di accertamento personale nei confronti dei soci n. (…), costituivano oggetto di pregresso contenzioso ancora pendente per cui allo stato non poteva ritenersi certo, liquido ed esigibile il diritto di credito di imposta IVA richiesto dalla parte ricorrente. Quanto, poi, alle deduzioni avanzate in via principale, il primo giudice riteneva che fosse assorbente, al di là di ogni altra considerazione, il fatto che gli atti impugnati risalissero all’anno 2004 e all’anno 2012 per cui risultavano ampiamente decorsi i termini previsti dal d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19.
3. La Commissione tributaria regionale, adita dal contribuente, dichiarava inammissibile il ricorso sulla base delle seguenti considerazioni:
-) si condivideva il rilievo dei giudici di primo grado che comportava la declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 22 comma 2;
-) nella presente controversia, infatti, si controverteva del rimborso I.V.A. anno 2003 richiesto dalla società (…) s.a.s. con istanza del 2 febbraio 2004, in ordine alla quale l’Ufficio aveva comunicato, ai sensi del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 38bis, la sospensione “per verifica dei presupposti”;
-) a quella originaria istanza aveva fatto esplicito riferimento il sollecito (con correlativa intimazione) presentato il 12 gennaio 2012 all’Ufficio e, del resto, anche il fatto che lo stesso contribuente avesse definito come “sollecito” l’atto presentato nel 2012 ne rendeva esplicito il diretto collegamento con l’originaria istanza di rimborso; d’altra parte, era incontestato che sin dal 2004 era stata data rituale comunicazione alla società del provvedimento di sospensione tanto che nel detto atto di sollecito nulla si eccepiva al riguardo;
– l’atto del 29 marzo 2004 aveva, per il suo contenuto, chiara natura provvedimentale e, del resto, lo stesso contribuente lo aveva definito “provvedimento” nel sollecito dell’11 gennaio 2012;
-) il provvedimento di sospensione del 2004 rientrava, inoltre, tra gli atti autonomamente impugnabili e una seconda istanza di rimborso era comunque improponibile;
-) si imponeva, in definitiva, la declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo e, allo stesso risultato si perveniva anche qualificando l’atto di sollecito del 2012 come richiesta di autotutela finalizzata a rimuovere il precedente provvedimento di sospensione del 2004.
4. D.G., in proprio e quale ex socio della società estinta “(…) s.a.s. di D.G. e C. in liquidazione”, nonché quale legale rappresentante ed ex liquidatore della medesima società, ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a tre motivi.
5. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
6. D.G. ha depositato memoria.
Considerato che
1. Va, innanzi tutto, disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso sollevata dal ricorrente per violazione degli artt. 366, comma 1, n. 6 c.p.c. e 369, comma 2, n. 4, c.p.c., peraltro in modo estremamente generico, poiché nonostante sia stato affermato che “controparte, pur richiamando atti e/o documenti dei precedenti gradi del giudizio, ha sistematicamente omesso l’illustrazione del loro contenuto rilevante e la precisazione “del luogo (punto) dell’atto” o del documento richiamato, nonché l’indicazione della fase processuale e della data del loro deposito”, non sono stati, poi, individuati partitamente gli atti e i documenti cui si riferisce l’eccezione di inammissibilità.
1.1 Tanto premesso, deve, comunque, rilevarsi che le forme del controricorso sono disciplinate dall’art. 370 comma 2 c.p.c., che prevede che al controricorso si applicano le norme degli artt. 365 e 366 “in quanto è possibile” e che i requisiti di contenuto – forma di cui all’art. 366 c.p.c. vanno estesi al controricorso nell’ipotesi in cui l’atto assume anche la funzione di ricorso incidentale, in quanto in questo caso il controricorso svolge la funzione specifica di atto di impugnazione, così come il ricorso per cassazione.
Così questa Corte ha ritenuto che “Nel giudizio per cassazione, l’autosufficienza del controricorso è assicurata, ai sensi dell’art. 370, comma 2, c.p.c., che dichiara applicabile l’art. 366 comma 1 c.p.c. in quanto possibile, anche quando l’atto non contenga l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa, ma si limiti a fare riferimento ai fatti esposti nella sentenza impugnata” (Cass. 28 maggio 2010, n. 13140) ed ancora che “Il controricorso, ai fini del rispetto del requisito di cui all’art. 366 comma 1 n. 3 c.p.c. (richiamato dall’art. 370 comma 2 c.p.c., “in quanto è possibile” – assolvendo alla sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, deve contenere l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa soltanto nel caso in cui con esso venga proposta impugnazione incidentale, stante l’autonomia di questa rispetto all’impugnazione principale; tuttavia, qualora il controricorrente, pur senza proporre impugnazione incidentale, sollevi eccezioni sull’ammissibilità del ricorso che implichino una valutazione del materiale documentale delle fasi di merito, il controricorso deve contenere una sufficiente ed autonoma esposizione dei fatti di causa inerenti a dette eccezioni, in modo da consentire alla Corte di verificarne la portata, dalla sola lettura dell’atto” (Cass. 17 gennaio 2019, n. 1150).
1.2 Dai principi sopra richiamati ne discende l’applicabilità anche al controricorso della norma dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c. (e di quella correlata dell’art. 369 comma 2 n. 4 c.p.c.), sia pure applicata in una misura meno rigorosa, sia in ragione della clausola di compatibilità, sia per il più pratico motivo che l’autosufficienza del controricorso tende in taluni precisi casi a sovrapporsi inutilmente all’autosufficienza del ricorso; deve, dunque, concludersi che il requisito di cui all’art. 366, comma 1, n. 6, deve essere rispettato specificamente nei casi in cui il controricorso si fondi su atti o documenti o contratti collettivi diversi o giustificati da allegazioni diverse da quelle cui si sia riferito il ricorso (cfr. Cass. 17 maggio 2010, n. 12028).
1.3 Ciò posto, nel caso in esame, il controricorso, che contiene il requisito essenziale dell’esposizione dei motivi di diritto su cui si fonda (cfr. Cass. 13 marzo 2006, n. 5400; Cass. 10 aprile 2019, n. 9983), deve ritenersi ammissibile, in quanto non si fonda su atti o documenti, diversi da quelli richiamati nel ricorso per cassazione; viene in rilievo, inoltre, nella vicenda in esame, la natura dei vizi denunciati dal ricorrente, di nullità della sentenza impugnata per difetto di motivazione e di violazione e falsa applicazione di legge, che già di per sé non presuppongono l’esame di atti o documenti diversi dalla sentenza impugnata e dalla quale si evincono tutti gli elementi necessari per la loro risoluzione (Cass. 19 marzo 2014, n. 6290, in motivazione).
2. Il primo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 36 comma 2, n. 4, dell’art. 132 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza impugnata risultava affetta da una motivazione apparente, essendo mancata quella verifica “caso per caso” della comunicazione di sospensione (del rimborso), come prescritta anche dalla giurisprudenza di legittimità. Infatti, nel caso di specie, risulta evidente come il Giudice di secondo grado si fosse “appiattito” su una decisione di mero rito, evitando così di esaminare tutte le numerose doglianze formulate nell’atto di appello.
2.1 Il motivo è infondato.
2.2 La motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perché affetta da error in procedendo, quando, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass. 5 luglio 2022, n. 21302).
2.3 Nel caso in esame non sussiste il dedotto vizio di motivazione, avendo la Commissione tributaria regionale affermato che era incontestato che sin dal 2004 era stata data rituale comunicazione alla società del provvedimento di sospensione, che rientrava tra gli atti autonomamente impugnabili, e condiviso il rilievo dei giudici di primo grado che comportava la declaratoria di inammissibilità del ricorso introduttivo, rilevabile in ogni stato e grado del giudizio, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 22 comma 2.
1.3 Risulta, pertanto, evidente che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui il ricorso lamenta la violazione, attesa l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione.
2.4 Peraltro, rileva un profilo di inammissibilità della censura, laddove il ricorrente, lamentando il fatto che i giudici di secondo grado non avevano esaminato in relazione alla richiesta di rimborso Iva per cui era causa la “peculiarità della comunicazione di sospensione” e, per ciò, non avevano rilevato la natura meramente interlocutoria della sospensione che, quindi, non era autonomamente impugnabile, introduce una questione di merito relativa all’interpretazione del contenuto del provvedimento di sospensione non sindacabile in sede di legittimità (cfr. Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass., sez. un., 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987).
3. Il secondo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione del d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 19, 21 e 22 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza impugnata era affetta da insanabile illegittimità, per violazione e/o falsa applicazione delle norme riportate in rubrica, in quanto la comunicazione della sospensione del rimborso del 29 marzo 2004, genericamente motivata da parte dell’Ufficio, come da prassi, per “verifica dei presupposti”, era un atto meramente interlocutorio non autonomamente impugnabile, in quanto privo, nel caso di specie, di portata provvedimentale; la comunicazione di sospensione non era autonomamente impugnabile anche perché non risultava riconducibile a nessuna norma di riferimento, né al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 23 né al R.D. n. 2440 del 1923, art. 69 e, sostanzialmente, neppure al d.p.r. n. 633 del 1972, art. 38bis, in quanto, il richiamo a tale ultima disposizione era del tutto formale e generico e risultava per lo più afferente all’iter procedurale previsto per l’istruttoria preventiva all’esecuzione dei rimborsi richiesti direttamente con modulo VR. La comunicazione di sospensione non conteneva alcuna manifestazione di una volontà decisoria, non avendo l’Ufficio emesso alcun provvedimento, né di diniego né di accoglimento. Alla data della richiesta di rimborso del 2 febbraio 2004 e della conseguente comunicazione di sospensione del 29 marzo 2004 non risultava a carico della società alcun procedimento di controllo o di accertamento e, in ogni caso, risultavano comunque decorsi i termini decadenziali per l’Ufficio ai fini dell’attività di accertamento ex d.p.r. n. 600 del 1973, artt. 43 comma 1 e d.p.r. n. 633 del 1972, 57, comma 1 (ratione temporis vigenti). L’Ufficio, pur nella consapevolezza dell’orientamento di legittimità che applicava i suddetti termini decadenziali solo all’accertamento di nuova materia imponibile (i.e. Cass. sentenza 29398/2008 e sez. un., n. 5069/2016) e non anche alle pretese creditorie, aveva sostanzialmente trasformato il credito Iva a rimborso in un debito di imposta soggetto a tali termini decadenziali.
3.1 Il motivo è infondato.
3.2 Questa Corte, sulla premessa che l’elenco degli atti autonomamente impugnabili, contenuto nel d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 è suscettibile di essere integrato con la indicazione di ulteriori atti emessi dalla Amministrazione finanziaria, espressamente considerati tali da specifiche norme di legge (art. 19, comma 1, lett. 1, del decreto legislativo citato), ha precisato che la tassatività dell’elenco, deve intendersi riferita non a singoli provvedimenti nominativamente individuati, ma alla individuazione di “categorie” di atti considerate in relazione agli effetti giuridici da quelli prodotti (tra cui predomina la categoria degli atti di natura impositiva), con la conseguenza che non è impedito all’interprete – mediante la qualificazione giuridica dell’atto in concreto impugnato, da compiere in relazione agli elementi funzionali ed agli effetti prodotti – di ricondurre ad una delle predette categorie anche atti “atipici” od individuati con “nomen juris” diversi da quelli indicati nell’elenco. E’ stato, pertanto, precisato in proposito che debbono qualificarsi come avvisi di accertamento o di liquidazione, impugnabili ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 tutti quegli atti con cui l’Amministrazione comunica al contribuente una “pretesa tributaria”, ancorché tale comunicazione non si concluda con una formale intimazione di pagamento sorretta dalla prospettazione in termini brevi dell’attività esecutiva, bensì con un “invito bonario” a versare quanto dovuto, non assumendo alcun rilievo la mancanza della formale dizione “avviso di liquidazione” o “avviso di pagamento” (cfr. Cass. 15 maggio 2008, n. 12194), ed ancora che debbono qualificarsi come avviso di accertamento anche gli atti di “invito al pagamento” emessi in materia doganale, tanto in quanto sussiste un interesse attuale del contribuente a proporre azione di accertamento negativo sulla debenza del tributo, posto che, ove tale situazione non venisse rimossa, resterebbe legittimata l’azione esecutiva erariale, con lesione dei diritti soggettivi del contribuente (cfr. Cass. 15 febbraio 2008, n. 3918).
Ne segue che anche la impugnazione di atti emessi dalla Amministrazione finanziaria, pur se non direttamente ricompresi nell’elenco tassativo degli atti tributari autonomamente impugnabili previsto dal d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 può, pertanto, costituire veicolo di accesso al giudizio tributario, laddove tali atti risultino comunque idonei a portare a conoscenza “i presupposti di fatto e le ragioni in diritto” della pretesa impositiva o del diniego del diritto vantato dal contribuente e siano quindi astrattamente suscettibili a fondare l’interesse alla impugnazione ex art. 100 c.p.c., del contribuente, trovando giustificazione la applicazione dei criteri di interpretazione “estensiva” ed analogica delle categorie di atti contenute nell’elenco tanto nella esigenza di certezza dei rapporti tributari (che richiede una immediata definizione delle potenziali controversie) quanto nei principi costituzionali di buon andamento della P.A. ex Cost., art. 97 e di effettività del diritto di difesa del cittadino ex Cost., art. 24 (cfr. Cass. 25 febbraio 2009, n. 4513; Cass., 11maggio 2012, n. 7344; Cass. 6 novembre 2013, n. 24916).
A conferma dei principi suesposti, questa Corte, per quel che rileva nel caso in esame, ha affermato che anche la comunicazione della sospensione di un rimborso IVA in vista di una sua compensazione, differendone in concreto l’esecuzione, è un atto autonomamente impugnabile o ai sensi del combinato disposto del d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 19 comma 1, lett. i, e del d.lgs. 472 del 1997, 23 o, comunque, ai sensi del citato art. 19, atteso che è necessario considerare che la “formale” pretesa tributaria, che ai sensi del D.Lgs. n. 456 del 1992, art. 19 deve rinvenirsi nell’atto dell’amministrazione finanziaria perché possa costituire oggetto di impugnazione avanti le commissioni tributarie, può estrinsecarsi in una manifestazione di volontà dell’Ufficio sia “pretensiva” (di un maggiore tributo) che “oppositiva (al diritto alla restituzione di un tributo riscosso od al riconoscimento del diritto alla esenzione o all’applicazione del minore tributo), comunque idonea ad incidere negativamente nella sfera patrimoniale del contribuente (Cass. 23 marzo 2016, n. 5723).
In tale prospettiva, anche la comunicazione con la quale l’Amministrazione finanziaria, subordinando il rimborso al previo pagamento di crediti asseritamente pendenti o alla prestazione di idonea garanzia o all’autorizzazione alla compensazione dei crediti tra di loro concretamente differisca l’esecuzione del rimborso, va ricompresa nella categoria di atti di esercizio da parte dell’Amministrazione finanziaria del potere di incisione nella sfera patrimoniale del contribuente (Cass. 1 luglio 2015, n. 13548 del 2015). A tale conclusione, comunque la giurisprudenza di questa Corte è pervenuta anche per altra via, affermando, come già detto, che il provvedimento di sospensione del rimborso dei crediti d’imposta è andato ad integrare l’elenco tassativo di cui al d.lgs. n. 546 del 1992, art. 19 in virtù del combinato disposto dalla disposizione di rinvio di cui al comma 1, lett. i) del citato decreto legislativo e del d.lgs. n. 472 del 1997, art. 23 (cfr. Cass. 1 luglio 2015, n. 13548, citata; Cass. 28 agosto 2013, n. 19755).
3.3 Dall’autonoma impugnabilità della comunicazione di sospensione del rimborso del 29 marzo 2004 richiesto dal ricorrente, consegue che, come correttamente affermato dai giudici di secondo grado, detto provvedimento doveva essere impugnato nel termine di sessanta giorni dalla ricezione, ai sensi del d.lgs. n. 546 del 1992, artt. 19.
3.4 In ultimo, va ritenuta pure infondata la censura laddove assume il consolidamento del diritto al rimborso o al credito, poiché l’Amministrazione era decaduta dai termini ex d.p.r. n. 633 del 1972, art. 57 in quanto l’eccedenza Iva aveva avuto origine nell’anno di imposta 1998 ed era stata riportata nelle successive annualità, dovendosi richiamare la sentenza di questa Corte (pure menzionata dal ricorrente, ma disattesa) che ha affermato che “In tema di rimborso d’imposte, l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento, senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio “quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum” (Cass. 15 marzo 2016, n. 5069 e, successivamente, Cass. 17 giugno 2016, n. 12557; Cass. 31 gennaio 2018, n. 2392).
4. Il terzo mezzo deduce la violazione e/o falsa applicazione del d.p.r. n. 633 del 1972, artt. 30 comma 4, e 38 bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La sentenza impugnata risultava viziata per violazione e/o falsa applicazione del d.p.r. n. 633 del 1972, artt. 30 comma 4 e 38bis, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere la Commissione tributaria regionale erroneamente interpretato tali disposizioni rispetto alla fattispecie concreta, in quanto il rimborso in esame risultava comunque dovuto, per espressa previsione della formula pro tempore vigente del d.p.r. n. 633 del 1972, art. 30 comma 4, senza che l’Amministrazione Finanziaria potesse sottoporre la richiesta del contribuente ad alcuna condizione, in quanto il credito richiesto da eccedenza di Iva detraibile derivava dalla cessazione dell’attività. La sentenza impugnata, inoltre, risultava anche in contrasto con la disciplina impartita dal d.p.r. n. 633 del 1972, art. 38bis considerata la prestazione di idonea “garanzia fideiussoria”, a tutela delle ragioni erariali ed esposto il rimborso nel bilancio finale di liquidazione e nel piano di riparto.
4.1 Il motivo è inammissibile per difetto di interesse, atteso che come emerge dal controricorso, l’esito sugli accertamenti societari ed emessi in relazione alle annualità 2003 e 2004, in seguito a PVC del 4 aprile 2005, che si erano conclusi per la non spettanza del rimborso Iva in quanto derivante da operazioni inesistenti, favorevoli all’ufficio, sono ancora sub iudice, in quanto i giudizi pendono dinanzi alla Corte di Cassazione. Ed invero, la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 30, comma 4 (essendo l’attività della società cessata sin dal 2002, con estinzione nel 2006) e d.p.r. n. 633 del 1972, 38 bis (in ragione della polizza fideiussoria prestata per ottenere la restituzione del credito Iva), non può prescindere dalla definitività dell’accertamento del credito Iva oggetto di rimborso.
5. Per le ragioni di cui sopra, il ricorso va rigettato e il ricorrente va condannato al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del d.p.r. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, ove dovuto.
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