CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 20060 depositata il 13 luglio 2023

Tributi – Istanza di rimborso – IVA – Cessazione attività – Credito maturato nell’ambito di procedura concorsuale – Art. 30 del D.P.R. n. 633/1972 – Dichiarazione di fallimento – Bilancio finale della società – Mancanza di elementi comprovanti i presupposti e la legittimità del credito – Operazioni imponibili – Rigetto

Ritenuto che

1. La Commissione tributaria provinciale di Napoli, con sentenza n. 302/07/2020, depositata il 10 gennaio 2020, aveva rigettato il ricorso proposto dalla società (…) s.p.a., avente ad oggetto l’annullamento del diniego del rimborso IVA anno d’imposta 2016, del 23 gennaio 2019, riguardante un credito IVA di Euro 90.037,00, oggetto di istanza di rimborso avanzata dalla società (…) s.p.a., per cessazione dell’attività, ai sensi dell’art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972.

2. La Commissione tributaria regionale, adita dalla società, ha rigettato l’appello, affermando che l’ art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972 consentiva al soggetto passivo, in caso di cessazione dell’attività, di recuperare l’eccedenza Iva, stante l’impossibilità di “riportare in avanti” tale credito, utilizzandolo in detrazione dall’imposta dovuta nel successivo periodo e che, tuttavia, la società contribuente non aveva fornito alcuna prova riguardo all’esistenza, alla tipologia e all’epoca di compimento dell’operazione imponibile da cui era sorto in capo alla (…) s.p.a. il credito IVA di Euro 90.037,00 indicato nella dichiarazione IVA presentata per l’anno d’imposta 2016 e oggetto di successiva cessione all’appellante; né aveva dimostrato che il credito IVA in oggetto fosse incluso tra quelli che per i quali la società (…) s.p.a. era stata autorizzata dalla Banca d’Italia in data 21 novembre 2012 alla cessione in blocco in favore della società (…) s.p.a..

3. I giudici di secondo grado, poi, hanno affermato che, anche a volere ritenere che la società (…) s.p.a. fosse formalmente cessata il 4 marzo 2016 a seguito di cancellazione dal Registro delle Imprese, doveva evidenziarsi che il credito IVA era stato oggetto di cessione ad altro soggetto giuridico in data 10 luglio 2017 e che la cessione era stata successiva non solo al deposito del bilancio finale di liquidazione e alla distribuzione dell’attivo risultante dal bilancio medesimo, ma anche alla estinzione della stessa società cedente.

4. La società (…) s.p.a. ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a quattro motivi.

5. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Considerato che

1. Il primo mezzo deduce, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972 e dell’art. 213 della legge fallimentare (R.D. n. 267 del 1942), laddove la Commissione tributaria regionale aveva ritenuto che il deposito del bilancio finale di liquidazione rappresentava il momento di cessazione dell’attività rilevante ai fini iva e, in particolare, ai fini della possibilità di chiedere il rimborso ai sensi dell’ art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972. La società ricorrente, sottolineando il fatto che il credito IVA era maturato nell’ambito di una procedura concorsuale, quale era la liquidazione coatta amministrativa, cui era sottoposta la società cedente, aveva sostenuto che l'”attività” della liquidazione coatta amministrativa in corso poteva ritenersi “cessata” soltanto nel 2016, quando erano state terminate le operazioni rientranti nella procedura stessa e si era pertanto provveduto alle formalità conseguenti (chiusura della partita IVA e cancellazione dal registro imprese). Il concetto di “cessazione di attività” rilevante ai fini del rimborso IVA non poteva non tener conto di quanto sopra, tanto più alla luce del fatto che era stato il legislatore a stabilire che durante il fallimento e la liquidazione coatta amministrativa permanevano gli obblighi previsti ai fini IVA (art. 74bis del d.p.r. n. 633 del 1972). Nessuna norma imponeva al commissario liquidatore di chiudere la partita IVA, ovvero di considerare “cessata” l’attività ai fini IVA, nel momento in cui risultava depositato il bilancio finale di liquidazione, perché in quel momento l’attività della procedura era lungi dall’essere terminata. Anche secondo la giurisprudenza di legittimità, essendo la procedura fallimentare un soggetto passivo IVA, pure in assenza di operazioni attive, ed essendole pertanto preclusa la possibilità di recuperare aliunde l’imposta corrisposta ai propri fornitori, se si limitava il suo diritto al rimborso alla sola IVA maturata fino al deposito del bilancio finale di liquidazione, si creava un indebito arricchimento a favore dell’Erario. Sotto altro profilo, l’ipotesi appena respinta, che sembrava essere stata fatta propria dalla sentenza di secondo grado e che la rendeva viziata sotto il profilo della violazione, tra gli altri, dell’ art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972, comportava la violazione anche del principio della neutralità fiscale dell’IVA, in forza del quale il tributo era esclusivamente destinato a gravare sul consumatore finale e non poteva risolversi né in svantaggio, né in vantaggio per gli operatori economici.

2. Il secondo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza e del procedimento, per la violazione dell’art. 112 c.p.c. e dell’art. 36 del d.lgs. n. 546 del 1992, laddove la Commissione tributaria regionale si era pronunciata sulla presunta carenza di prova del credito chiesto a rimborso senza avvedersi che la questione non poteva costituire materia del contendere nel giudizio di merito instaurato con l’impugnazione del provvedimento di diniego. La sentenza impugnata era nulla perché i giudici di secondo grado avevano affermato che la sussistenza della prova del credito chiesto a rimborso non poteva (legittimamente) costituire materia del contendere, in quanto già nella fase istruttoria del rimborso, ovvero prima dell’emissione del provvedimento di diniego espresso da parte dell’Ufficio, (…) s.p.a., in qualità di cessionaria del credito, aveva consegnato all’Ufficio tutta la documentazione contabile e fiscale (fatture, registri IVA, dichiarazioni IVA, relazioni illustrative) comprovante l’esistenza, le modalità e le tempistiche di formazione, nonché il quantum del credito chiesto a rimborso, senza che l’Ufficio, in sede di emissione del provvedimento di diniego, ovvero dopo aver effettuato i controlli sulla documentazione richiesta alla società, avesse eccepito alcunché in merito alla sussistenza del credito o alla carenza di prova dello stesso.

3. Il terzo motivo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’ art. 74bis, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972, dell’art. 106 della legge fallimentare (R.D. n. 267/1942) e degli usi delle procedure concorsuali, laddove si riteneva che, dopo la chiusura della procedura di liquidazione coatta amministrativa, il commissario liquidatore, pur essendo tenuto a presentare la dichiarazione IVA dovuta a seguito di cessazione dell’attività, non potesse viceversa chiedere a rimborso o cedere il credito scaturente dalla stessa e si negava che, anche nell’ambito di una procedura di liquidazione coatta amministrativa, il commissario liquidatore avesse la facoltà di cedere crediti tributari anche futuri e che l’efficacia della cessione nei confronti del fisco potesse intervenire anche dopo la chiusura della procedura; era lesivo della normativa, primaria e secondaria, richiamate, ritenere che il commissario liquidatore fosse legittimato, dopo la chiusura della procedura, a presentare la dichiarazione IVA “di chiusura” e la dichiarazione dei redditi relativa al c.d. “maxiperiodo concorsuale”, ma, viceversa, non fosse legittimato a cedere i crediti che emergevano da dette dichiarazioni. Inoltre, la cessione del credito IVA (futuro) che sarebbe divenuto certo soltanto in esito alla cessazione dell’attività ed alla chiusura della procedura, in realtà era già avvenuta prima della chiusura stessa della procedura, in quanto l’operazione di compravendita del credito in esame risultava inserita in un più ampio perimetro di compravendita di crediti autorizzata dalla Banca d’Italia con provvedimento del 21 novembre 2012 e che, per gli effetti della cessione in blocco dei crediti fiscali, correttamente il commissario liquidatore non aveva indicato gli stessi nel bilancio finale di liquidazione, in quanto i crediti ceduti erano già formalmente e sostanzialmente usciti dal patrimonio della cedente e, con riferimento al credito I.V.A. finale 2016, lo stesso si era cristallizzato nell’importo esclusivamente successivamente. In ogni caso, ad ulteriore conferma del fatto che, al momento del deposito del bilancio finale di liquidazione, il credito non era più nella disponibilità della cedente procedura di liquidazione coatta amministrativa, pur essendo la “formalizzazione” della cessione del credito avvenuta solo dopo la cristallizzazione del suo importo, rilevava la circostanza, che emergeva dalla scrittura privata autenticata di cessione del credito, all’art. 5, che il prezzo di acquisto del credito oggetto della cessione era stato corrisposto (a mezzo assegno circolare con clausola non trasferibile di Euro 40.137,000 emesso da Banca Popolare di Vicenza) in data 8 novembre 2013 intestato alla Procedura e per il quale la parte cedente aveva rilasciato ampia e piena quietanza a saldo.

4. Il quarto mezzo deduce, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 90, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, richiamato dall’art. 57, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, dell’ art. 30, comma 2, del d.p.r. n. 633 del 1972, dell’ art. 43bis del d.p.r. n. 602 del 1973 e degli artt. 69 e 70 del R.D. n. 2440 del 1923, laddove la Commissione tributaria regionale aveva ritenuto che la mancata dimostrazione del fatto che la cessione del credito IVA oggetto della domanda di rimborso fosse compresa tra quelle autorizzate dalla Banca d’Italia nel 2012 contribuiva a legittimare il diniego di rimborso di tale credito. I giudici di secondo grado risultavano avere attribuito, all’autorizzazione della Banca d’Italia prevista dall’art. 90, comma 2, del d.lgs. n. 385 del 1993, richiamato dall’art. 57, comma 3, del d.lgs. n. 58 del 1998, valenza “costitutiva” ai fini del diritto ad ottenere il rimborso del credito IVA ceduto, tanto che la sua (peraltro solo presunta, oltretutto erroneamente, dai giudici di secondo grado) mancanza aveva legittimato l’Ufficio a negare il rimborso del credito. In realtà, le conseguenze dell’eventuale mancanza dell’autorizzazione de qua (che, comunque, era validamente costituita dalla delibera della Banca d’Italia del 21 novembre 2012) erano che il provvedimento del commissario liquidatore che aveva disposto la vendita poteva essere impugnato avanti al giudice amministrativo ed il relativo negozio di vendita avanti al giudice ordinario.

4.1 I motivi, che vanno trattati unitariamente perché connessi, sono infondati.

4.2 Ed invero, è oramai principio consolidato in tema di IVA, che, anche nell’ipotesi di domanda di rimborso presentata a seguito della cessazione dell’attività, l’Amministrazione finanziaria è tenuta a verificare la sussistenza del credito del contribuente che dovrà assolvere, in caso di contestazione, all’onere probatorio sullo stesso gravante (Cass. 23 gennaio 2019, n. 1822). Va, infatti, ribadito che il rimborso di imposta dà origine ad un rapporto giuridico nel quale – con una netta inversione dei ruoli rispetto allo schema paradigmatico del rapporto tributario – è il contribuente a rivestire il ruolo attivo, assumendo nei confronti dell’Erario la posizione di creditore di una determinata somma di denaro, per il fatto di avergliela in precedenza versata (Cass. 2 settembre 2022, n. 25999; Cass. 3 marzo 2020, n. 5827). Questa Corte ha, di conseguenza, più volte avuto modo di precisare che, ove nella controversia instaurata dal contribuente si discuta del rigetto di un’istanza di rimborso di un tributo, l’Amministrazione finanziaria ben può prospettare argomentazioni giuridiche ulteriori rispetto a quelle che hanno formato la motivazione di rigetto della istanza in sede amministrativa. La posizione dell’Ufficio, che si difende rispetto all’impugnazione del rigetto di una istanza di rimborso, è – difatti – diversa rispetto a quella dell’Ufficio che abbia esplicitato una pretesa impugnata dal contribuente, come un avviso di accertamento o di liquidazione o il provvedimento d’irrogazione di una sanzione, nel quale ultimo caso l’oggetto del contendere è delimitato in via assoluta dall’atto impugnato. Nel caso dell’istanza di rimborso reietta, invece, è il contribuente ad essere attore sostanziale nel giudizio di rimborso e, pertanto, l’Amministrazione ha la facoltà di controdeduzione in giudizio, di cui all’art. 23 del d.lgs. n. 546 del 1992, purché nell’ambito oggettivo della controversia (cfr. Cass. 2 luglio 2014, n. 15026; Cass. 29 dicembre 2011, n. 29613).

4.3 Inoltre, con specifico riferimento al caso in esame, la costante giurisprudenza di questa Corte è nel senso che “In tema di IVA, la dichiarazione, prevista dall’ art. 74bis del d.p.r. n. 633 del 1972 del curatore o del commissario liquidatore, relativamente alle operazioni anteriori all’apertura o all’inizio delle procedure concorsuali, è equiparabile alla dichiarazione di cessazione di attività, con la conseguenza che essa, al pari della dichiarazione annuale, chiudendo il rapporto tributario antecedente alle procedure concorsuali, fa sorgere, a quella data, ai sensi dell’ art. 30 del d.p.r. n. 633 del 1972, il diritto al rimborso dei versamenti d’imposta che risultino effettuati in eccedenza” (Cass. 13 dicembre 2022, n. 36385; Cass. 30 dicembre 2009, n. 27948). Ancor più in generale questa Corte ha già avuto modo di osservare che in tema di IVA, ai fini dell’insorgenza del diritto al rimborso dell’imposta in caso di cessazione dell’attività, ai sensi dell’ art. 30 del d.p.r. n. 633 del 1972, occorre fare riferimento al dato, sostanziale e fattuale, rappresentato dalla cessazione stessa effettiva della medesima – evento che costituisce titolo per il diritto al rimborso dell’eccedenza d’imposta, per l’evidente impossibilità di chiederne la detrazione in successive dichiarazioni, potendo tale momento essere individuato con la messa in liquidazione della società e non quelli dello scioglimento della società e/o della cancellazione, successivi alla data della domanda di rimborso. (Cass. 28 febbraio 2019, n. 5893).

4.4 Con riferimento al principio della neutralità dell’Iva, questa Corte, di recente, ha, pure, precisato che la posizione IVA maturata in epoca precedente la dichiarazione di fallimento è differente dalla posizione IVA successiva alla dichiarazione di fallimento; che questa diversità è dimostrata dal fatto che all’atto della dichiarazione di fallimento il curatore (nel caso in esame commissario liquidatore) redige due distinte dichiarazioni IVA, già previste dall’ art. 74bis del d.p.r. n. 633 del 1972; la prima di tali dichiarazioni, redatta sul modello IVA 74-bis e da presentarsi entro quattro mesi dalla nomina a curatore, ha ad oggetto le operazioni effettuate dall’imprenditore dichiarato fallito dal 1 gennaio sino alla data della dichiarazione di fallimento (cd. segmento temporale prefallimentare) ed è volta a rilevare la posizione IVA dell’imprenditore dichiarato fallito alla data della sentenza dichiarativa; la seconda è, invece, l’ordinaria dichiarazione annuale, benché limitata, per il primo anno, alle sole operazioni imponibili successive alla pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento; per ciascuna di queste due dichiarazioni il curatore del fallimento assume una veste diversa, ossia – quanto alla dichiarazione IVA prefallimentare – quella di avente causa del fallito e amministratore del patrimonio di questi, nel caso in cui rinvenga beni, azioni o (come nella specie) crediti che già facevano capo al fallito (Cass. 31 maggio 2017, n. 13762); l‘altra – con riferimento alla dichiarazione post-fallimentare – di gestore di un patrimonio altrui (e, quindi, di terzo rispetto all’imprenditore dichiarato fallito), ove eserciti l’attività liquidatoria nell’interesse della massa dei creditori; che la dichiarazione prefallimentare è volta a evidenziare eventuali crediti (IVA) che il curatore ha rinvenuto nel patrimonio del fallito (eventualmente da opporre in compensazione in sede di richiesta di ammissione allo stato passivo di crediti tributari), crediti che, ancorché siano oggetto di trascinamento durante il periodo fallimentare (stante la permanenza della medesima partita IVA in costanza di fallimento), trovano causa nelle operazioni compiute precedentemente dall’imprenditore dichiarato fallito e non, quindi, nelle successive operazioni in campo IVA compiute dal curatore del fallimento quale gestore del patrimonio altrui nell’interesse della massa dei creditori; che, pertanto, non può configurarsi violazione del principio di neutralità in considerazione del fatto che la mera coincidenza della medesima partita IVA (già facente capo all’imprenditore dichiarato fallito) sia per le operazioni IVA pre-fallimentari, sia per quelle post-fallimentari, costituisce una circostanza del tutto occasionale, che non priva di autonomia giuridica – alla luce del menzionato regime normativo – le operazioni IVA prefallimentari da quelle post-fallimentari, trattandosi di posizioni facenti capo a soggetti differenti (il fallito per le prime e la massa dei creditori per le seconde) (Cass. 29 maggio 2019, n. 14620, in motivazione).

4.5 Con specifico riferimento alla necessaria indicazione del credito Iva oggetto della richiesta di rimborso nel bilancio finale di liquidazione, prescritta, come assume l’Agenzia controricorrente, dall’art. 5 del Decreto del Ministero delle Finanze del 26 febbraio 2002, questa Corte, sulla premessa che il credito d’imposta non sorge al momento della sua esposizione nella dichiarazione annuale, poiché, la fonte degli obblighi tributari, a norma dell’art. 1 del decreto IVA, è costituita unicamente dal coinvolgimento del contribuente in una delle operazioni imponibili considerate da tale disposizione, ha osservato che “la sussistenza di detto credito in capo al contribuente non può essere negata solo perché esso non sia stato indicato nella dichiarazione annuale o nel bilancio di esercizio o bilancio finale di liquidazione, in quanto anteriormente ceduto a terzi (Cass. 110808/2012). Ne deriva che il credito di una società posta in liquidazione, relativo al rimborso dell’imposta richiesto a norma dell’art. 30 del decreto IVA all’atto della dichiarazione fiscale dell’ultimo anno di attività, non è condizionato dall’esposizione del credito stesso nel bilancio finale della società, anche se assente per essere stato quel credito ceduto. Infatti l’efficacia probatoria dei libri sociali, derivante dalla normativa pubblicistica, attiene ai rapporti di debito e credito inerenti all’esercizio dell’impresa, mentre la contabilità IVA, pur non avendo alcuna efficacia probatoria in tali rapporti, documenta comunque il debito fiscale, rendendone possibile il controllo da parte dell’amministrazione finanziaria (Cass. 13345/2012). Dunque, il fisco, in presenza dei detti adempimenti IVA, non può sottrarsi al rimborso, con effetto liberatorio, nei confronti della società cedente, alla luce dell’art. 1264 c.c., in mancanza di notifica al debitore ceduto della cessione del credito relativo al rimborso, e quindi anche di accettazione della cessione. E neppure può sottrarvisi in assenza della notifica formale della cessione di cui all’art. 69 del R.D. n. 2240 del 1923, che pone una regola estranea al caso in esame, risiedendo la ratio della disposizione nella tutela della P.A. in relazione alla cessione di crediti relativi a corrispettivi non definiti o incerti (Cass. 3530/2006). Ne’ vigeva l’obbligo di includere il credito nel bilancio finale di liquidazione, previsto dall’art. 5 del D.M. n. 26 febbraio 1992 ai fini del rimborso dei crediti d’imposta in favore delle società cancellate dal registro delle imprese, che non si applica mancando il requisito della cancellazione e non essendo stato convertito il d.l. 1 febbraio 1992, n. 47, di cui il citato D.M. n. costituisce attuazione. Ne’ può trovare applicazione la clausola di salvezza prevista dall’art. 1, comma 2, della l. 24 marzo 1993, n. 75, la quale va riferita esclusivamente agli atti di natura amministrativa, e non anche a quelli normativi, adottati in base al decreto-legge non convertito, nonché agli effetti già prodottisi durante il periodo di vigenza dello stesso, e non a situazioni non ancora verificatesi in detto periodo. (Cass. 27951/2009, Rv. 611314; conf. – C.Corte 244/1997 e 429/1997)” (Cass. 6 maggio 2016, n. 9192).

4.6 Ciò posto, la Commissione tributaria regionale, laddove ha affermato che la società (…) s.p.a. non aveva fornito alcuna prova sulla esistenza, tipologia ed epoca di compimento dell’operazione imponibile da cui era sorto in capo alla società (…) s.p.a. il credito IVA oggetto della richiesta di rimborso pari ad Euro 90.037,00, e che la mancanza di elementi comprovanti i presupposti e la legittimità del credito IVA oggetto di rimborso rendeva fondato il diniego opposto dall’Ufficio, ha fatto buon governo dei principi suesposti in materia di onere della prova nella ipotesi di domanda di rimborso presentata a seguito di cessazione dell’attività; questa linea interpretativa, che correttamente è stata seguita dal giudice del gravame e che ha costituito la ragione fondante della pronuncia, non è stata colta appieno dai motivi di censura in esame; restano, di conseguenza, del tutto irrilevanti, ai fini del decidere, sia le argomentazioni svolte dai giudici di secondo grado sulla cessione dei crediti e specificamente sull’inclusione del credito IVA in esame nell’autorizzazione della Banca d’Italia e sulla cessione del credito intervenuta in data 10 luglio 2017, data successiva all’estinzione della società, sia le considerazioni spiegate dalla società ricorrente sulla avvenuta notifica della cessione all’Agenzia delle Entrate e sull’avvenuto pagamento del prezzo di cessione pari a Euro 40.137,00 in data 8 novembre 2013. Ed invero, emerge dagli atti di causa che la richiesta di rimborso, relativa al credito IVA di Euro 90.037,00, relativo all’anno 2016, era stata formalizzata dalla società (…) s.p.a. mediante dichiarazione annuale IVA 2017 e trasmessa all’Anagrafe tributaria in data 27 febbraio 2017; il provvedimento di diniego era stato notificato dall’Ufficio in data 23 gennaio 2019 e nell’allegato al provvedimento di diniego era stato precisato che la società aveva chiuso il bilancio finale di liquidazione e, pertanto, aveva cessato l’attività nell’anno 2014 e che mancava la specifica esposizione del credito richiesto a rimborso per Euro 90.037,00 nel bilancio finale di liquidazione e relativo piano di riparto. In definitiva, la società aveva formalizzato la richiesta di rimborso del credito IVA con la dichiarazione relativa all’anno di imposta 2006 (nel 2007), quando il requisito della cessazione di attività maturava, per quanto diffusamente rilevato sopra, alla data di presentazione della dichiarazione, prevista dall’ art. 74bis del d.p.r. n. 633 del 1972, relativamente alle operazioni anteriori all’apertura o all’inizio delle procedure concorsuali, da intendersi equiparata alla dichiarazione di cessazione di attività, perché detta dichiarazione chiudendo il rapporto tributario antecedente alle procedure concorsuali, faceva sorgere, a quella data, ai sensi dell’ art. 30 del d.p.r. n. 633 del 1972, il diritto al rimborso dei versamenti d’imposta che risultino effettuati in eccedenza. Le argomentazioni difensive della società ricorrente trascurano di considerare che solo la dichiarazione del commissario liquidatore per il periodo preconcorsuale accertava formalmente la cessazione di attività e chiudeva l’intero rapporto tributario antecedente ed è questa, peraltro, la ragione fondamentale per cui la dichiarazione in parola, secondo l’orientamento di questa Corte, è ritenuta equiparabile alla cessazione dell’attività e fa sorgere, conseguentemente, il diritto della procedura di liquidazione coatta amministrativa al rimborso dei versamenti che risultino effettuati in eccedenza, ai sensi dell’ art. 30, del d.p.r. n. 633 del 1972. Ed invero, detta dichiarazione non risultava essere stata presentata dal commissario liquidatore, con la conseguenza che non è stata provata la data di cessazione dell’attività. Ne’ può condividersi la prospettazione della società ricorrente, laddove assume che nell’ambito della procedura di liquidazione coatta amministrativa l’attività della liquidazione poteva dirsi conclusa, ovvero cessata, alla data del 2016, quando erano state terminate le operazioni rientranti nella procedura stessa e si era proceduto alle formalità conseguenti alla chiusura della partita Iva e della cancellazione dal registro delle imprese. Al riguardo, rileva quanto già affermato da questa Corte sull’obbligo del commissario liquidatore di redazione, ai sensi dell’ art. 74bis del d.p.r. n. 633 del 1972, di due distinte dichiarazioni IVA, aventi ad oggetto le operazioni effettuate dal fallito anteriormente e successivamente al fallimento, in ragione della differenza tra la posizione IVA maturata in epoca precedente la dichiarazione di fallimento e quella successiva e dell’autonomia giuridica delle operazioni facenti capo alla società sottoposta alla procedura concorsuale, di cui il commissario liquidatore è avente causa e amministratore del patrimonio, e quelle riferibili alla massa dei creditori, nel cui interesse opera il commissario liquidatore, quale gestore del patrimonio altrui. In ogni caso, va rilevato che nei giudizi di merito non è stata data prova del credito IVA, dovendosi ribadire che per l’imposta sul valore aggiunto (IVA), la fonte dell’obbligo tributario (inteso, per obbligo tributario il complesso dei reciproci rapporti, attivi e passivi, tra contribuente ed ente impositore in relazione a quel tributo), ai sensi dell’ art. 1 del d.p.r. n. 633 del 1972, è data unicamente dal coinvolgimento del contribuente in una delle “operazioni imponibili” considerate dalla norma (“cessioni di beni e prestazioni di servizi effettuate nel territorio dello Stato nell’esercizio di imprese o nell’esercizio di arti e professioni ed importazioni da chiunque effettuate”) (Cass. 28 giugno 2012, n. 10808; Cass. 26 ottobre 2011, n. 22250; Cass. 17 febbraio 2006, n. 3530).

5. Per quanto esposto, il ricorso va rigettato e la società ricorrente va condannata al pagamento delle spese processuali, sostenute dalla Agenzia controricorrente e liquidate come in dispositivo, nonché al pagamento dell’ulteriore importo, previsto per legge e pure indicato in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.

Ai sensi dell’art. 13, comma 1quater, del d.p.r. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17, della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, ove dovuto.