Corte di Cassazione ordinanza n. 21794 depositata l’ 11 luglio 2022
IVA – compravendite di partecipazioni – mandato senza rappresentanza – giudicato esterno
Fatti di causa
Emerge dalla narrativa della sentenza impugnata e dagli atti di causa che la s.p.a. Banca U. sottoscrisse certificati di deposito emessi sul mercato londinese e li cedette nello stesso giorno alla propria controllante L.B., operatore extra UE.
Le cessioni erano regolate mediante rapporto di conto corrente in valuta estera, che la L.B. intratteneva presso la U., la quale, alla scadenza dei titoli, ne accreditava sul conto il valore nominale, maggiorato degli interessi con la valuta prestabilita, al netto della propria commissione d’intermediazione, pari allo 0,01%, e contestualmente, riaddebitava il medesimo valore, al fine di acquistare altro certificato.
Secondo l’Agenzia ciascuna operazione era oggetto di un mandato, conferito a U. dalla controllante.
Tale mandato, a giudizio dell’Ufficio, era esclusivamente volto a far rientrare l’operazione nel volume di affari della mandataria, in quanto non imponibile, a norma dell’art. 9, comma 1, n. 12, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633.
L’aumento, per quanto artificioso, del volume di affari avrebbe determinato l’incremento -notevole- della percentuale di detrazione dell’iva, cui sarebbe conseguita la possibilità di U. di detrarre pressoché la totalità dell’iva assolta sugli acquisti compiuti nel periodo d’imposta in questione (il 2008).
Ne seguì un avviso di accertamento col quale l’Agenzia considerò a essa inopponibili le operazioni di cessione dei certificati di deposito, perché volte a suo avviso ad abusare della non imponibilità stabilita dall’art. 9, comma 1, n. 12, del d.P.R. n. 633/72, al fine di beneficiare del vantaggio fiscale consistente nella maggiore percentuale di detrazione dell’iva in base al calcolo annuale del pro rata. La contribuente impugnò l’avviso, senza successo in primo grado.
Anche la Commissione tributaria regionale del Lazio ha respinto il successivo appello proposto dalla U..
A sostegno della decisione il giudice d’appello ha convenuto con l’Agenzia che la Banca U. avesse svolto operazioni incomprensibili sotto il profilo imprenditoriale, in considerazione del compenso illogicamente contenuto nella misura dello 0,01%, e, quindi, che essa in realtà non avesse sopportato alcun rischio, in particolare quello connaturato a un’attività d’intermediazione reale ed effettiva, visto che non aveva anticipato la provvista necessaria, né si era assunta il rischio connesso al cambio tra dollaro ed euro.
Sicché, ha concluso la Commissione tributaria re9ionale, la Banca ha fatto uso distorto di schemi giuridici leciti al fine di procurarsi un vantaggio indebito, dato dalla determinazione della percentuale di detrazione dell’iva sugli acquisti.
Contro questa sentenza propone ricorso la s.p.a. Banca U. per ottenerne la cassazione, che affida a cinque motivi e illustra con memoria, cui l’Agenzia replica con controricorso.
Ragioni della decisione
1.- Con i cinque motivi di ricorso la contribuente denuncia:
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., dei principi di diritto dell’Unione europea concernenti il divieto di abuso di forme giuridiche in materia di applicazione dell’iva derivanti dalla sesta direttiva, nonché dell’art. 10-bis della I. 27 luglio 2000, n. 212, perché il giudice d’appello ha ravvisato una fattispecie di abuso del diritto, nonostante la provata insussistenza del requisito dell’assenza di valide ragioni economiche (primo motivo);
– l’omesso esame del fatto decisivo concernente la sussistenza dello specifico vantaggio extrafiscale derivante dal compimento delle operazioni in questione (secondo motivo);
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 53 Cost., dei principi di diritto dell’Unione europea concernenti il divieto di abuso di forme giuridiche in materia di applicazione dell’iva, nonché dell’art. 10-bis della n. 212/00, nella parte in cui il giudice d’appello ha ravvisato nella condotta di U. una fattispecie di abuso del diritto, pur in assenza del necessario requisito della natura indebita del vantaggio fiscale ricollegabile alle operazioni realizzate dalla società (terzo motivo);
– la nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 132, comma 1, n. 4, c.p.c., e 36, comma 2, del d.lgs. 31 dicembre 1992, 546, per la natura apparente della motivazione nella parte in cui, facendo leva sull’art. 3, comma 3, ultimo periodo, del d.P.R. n. 633/72, ha disconosciuto il diritto della società alla detrazione dell’iva regolarmente assolta (quarto motivo);
– la violazione e falsa applicazione dell’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633/72, nonché dei principi della sesta direttiva, per avere il giudice d’appello legittimato il recupero dell’Agenzia facendo leva sullo schema unitario del mandato senza rappresentanza, che è, invece, inapplicabile (quinto motivo).
La complessiva censura è infondata, benché la motivazione della sentenza impugnata debba essere corretta.
2.- Come la ricorrente ha dedotto in memoria, al cospetto di medesime operazioni da essa compiute, questa Corte ha stabilito, in relazione ai precedenti anni d’imposta 2.005-2006, che, in tema di iva, la società bancaria che, dopo aver sottoscritto certificati di deposito, li ceda alla propria controllante ricevendone commissioni estremamente basse, inidonee ad evidenziare la natura commerciale di tale operazione, svolge un’attività fuori dal campo iva, che va di conseguenza esclusa dal calcolo del “pro rata” di detrazione (Cass. nn. 21109 e 21110/20).
Queste statuizioni s’impongono con la forza del giudicato esterno nell’odierno giudizio, perché concernono la qualificazione di un rapporto a esecuzione prolungata (tra varie, Cass. nn. 31084/19 e 5939/21): la stessa ricorrente riferisce in ricorso che «Già in epoca anteriore rispetto agli anni 2000, la U. poneva in essere – in modo continuativo e nello svolgimento della propria attività caratteristica- … », le operazioni in questione e in memoria ribadisce che i presupposti di fatto che ne hanno costituito l’og9etto sono stati i medesimi.
3.- Non è applicabile al riguardo la giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-424/19, UR), secondo la quale il diritto dell’Unione osta a che, nell’ambito di una controversia relativa all’imposta sul valore aggiunto, un giudice nazionale applichi il principio dell’autorità di cosa giudicata, qualora tale controversia non verta su un periodo d’imposta identico a quello di cui si trattava nella controversia che ha dato luogo alla decisione giurisdizionale munita di tale autorità, né abbia il medesimo oggetto di quest’ultima, e l’applicazione di tale principio costituisca un ostacolo a che tale giudice prenda in considerazione la normativa dell’Unione in materia di iva.
3.1.- Assorbente al riguardo è il rilievo che, a differenza dell’ipotesi esaminata dal giudice unionale, il giudicato in questione non è fondato su un’interpretazione erronea delle norme dell’Unione in materia (punto 32 della sentenza richiamata).
4.- Anzitutto, l’autorità di cosa giudicata è imperniata sulla ricostruzione della situazione di fatto compiuta dal giudice di merito, il quale ha accertato «…che la bassissima remunerazione dell’attività svolta da U. palesava l’interesse economico della sua controllante», in modo da «… escludere la sussistenza di un’attività economica ai fini iva di commercializzazione dei titoli» (Cass. n. 21109 e 21110/20, punto 4.3). Ricostruzione pienamente confermata anche nel caso in esame, giacché, come riportato in narrativa, il giudice d’appello ha escluso lo svolgimento da parte di U. di un’autonoma attività imprenditoriale sorretta da rischio d’impresa.
4.1.- Inoltre, in diritto quel giudicato si pone pienamente in linea col diritto unionale.
Sono difatti inconferenti le critiche al riguardo rivolte dalla contribuente.
Sottolinea al riguardo la ricorrente che questa Corte è chiamata a valutare «le operazioni di cessione di titoli poste in essere con continuità, da una società commerciale -nell’esercizio del proprio oggetto sociale- e previo ottenimento di una remunerazione».
Secondo la società, dunque, la giurisprudenza di questa Corte si porrebbe in frizione con quella unionale sotto due versanti:
- per un verso, perché avrebbe trascurato che nel caso in esame, a differenza di quelli esaminati dalla Corte di giustizia richiamati nei precedenti indicati, e relativi a fattiispecie particolari, in cui non si aveva riguardo a società commerciali, l’odierna ricorrente è una società commerciale, che ha per oggetto sociale giustappunto le cessioni di titoli;
- per altro verso, perché irrilevante sarebbe l’entità della remunerazione, a fronte di recente giurisprudenza unionale (Corte giust., causa C-94/19, San Domenico Vetraria), che reputa irrilevante l’ammontare del controvalore.
5.- Nessuno dei due rilievi coglie nel segno.
Quanto al primo, la Corte di giustizia, sia pure in relazione all’acquisto non già di certificati di deposito, titoli di credito nominativi al portatore, ma di azioni, che comunque sono titoli di credito (come riconosciuto già da Cass. n. 1115/79), al cospetto della questione volta a «determinare se una società che intenda acquistare la totalità delle azioni di un altra società, al fine di esercitare un’attività economica consistente nel fornire a quest’ultima prestazioni di servizi di gestione assoggettate all’IVA, possa essere considerata come soggetto passivo ai sensi dell’articolo 4 della sesta direttiva… », ha stabilito che «va ricordato, in primo luogo, che non ha la qualità di soggetto passivo IVA, ai sensi dell’articolo 4 della sesta direttiva, né il diritto a detrazione, in base all’articolo 17 di tale direttiva, una società il cui unico oggetto consista nell’acquisizione di partecipazioni in altre società, senza interferire direttamente o indirettamente nella gestione di queste ultime. Difatti, il mero acquisto e la mera cessione di partecipazioni societarie non costituiscono, di per sé, un’attività economica ai sensi della sesta direttiva, che conferisce al soggetto che le abbia effettuate la qualità di soggetto passivo, dato che la semplice assunzione di partecipazioni finanziarie in altre imprese non costituisce sfruttamento di un bene al fine di trarne introiti che abbiano carattere stabile. Infatti, la riscossione di un eventuale dividendo, frutto di detta partecipazione, discende dalla mera proprietà del bene (sentenze del 30 maggio 2013, X, C-651/11, EU:C:2013:346, punto 36, nonché del 16 luglio 2015, Larentia + Minerva e Marenave Schiffahrt,, C-108/14 e C-109/14, EU:C:2015:496, punto 19 e giurisprudenza ivi citata)» (Corte giust., causa C-249/17, Ryanair Ltd, punti :15-16).
5.1.- Quindi, al cospetto di una società commerciale, come la contribuente, avente un oggetto sociale volto in via esclusiva all’acquisizione di azioni, la Corte di giustizia perviene in linea di massima a conclusioni opposte a quella auspicate in memoria.
Questa Corte, d’altronde, in applicazione del principio, ha anche di recente ribadito che le operazioni di cessione relative ad azioni o partecipazioni in una società non rientrano nella sfera di applicazione dell’iva, salvo che sia accertato che sono state effettuate nell’ambito di un’attività commerciale di acquisizione di titoli per realizzare un’interferenza diretta o indiretta nella gestione della società di cui si è realizzata l’acquisizione di partecipazioni o che costituiscono il prolungamento diretto, permanente e necessario, dell’attività imponibile (Cass. n. 5156/21).
6.- Che nel caso in esame, come in quelli sostanzialmente identici già esaminati da questa Corte, non si configuri il prolungamento diretto, permanente e necessario dell’attività imponibile della contribuente per effetto della compravendita dei certificati di deposito, emerge è dalla ricostruzione del giudice di merito, e dalle stesse difese della società.
Il giudice di merito, in questo come negli altri casi, ha accertato che l’unica attività svolta dalla società sia stata quella d’intermediaria nella compravendita dei titoli, senza assunzione di alcun rischio, neanche di quello del cambio tra dollaro ed euro. E la stessa contribuente, in memoria, qualifica le remunerazioni ricevute come provvigioni. D’altronde, sempre in base alla giurisprudenza unionale, non rilevano il numero e l’ampiezza delle vendite, posto che vendite anche ingenti possono essere compiute da investitori privati (v., in tal senso, Corte giust. 20 giugno 1996, causa C-155/94, Wellcome Trust, punto 37).
6.1.- Non è in alcun modo emerso, quindi, già nella prospettazione della società, lo svolgimento di altre operazioni come quelle che, invece, sono state valorizzate dalla Corte di giustizia ai fini della ravvisabil1tà dell’attività imponibile ai lini dell’iva: la giurisprudenza unionale fa al riguardo leva sulla prestazione di servizi amministrativi, finanziari, commerciali e tecnici, che esulino dall’ambito del mero acquisto o vendita dei titoli (si veda Corte giust. causa C-29/08, AB SKF, punti 32, 51; causa C-651/11, X, punto 37; cause C-108/ e C-109/14, Larentia + Minerva e Marenave Schiffhart, punti 19, 20 e 21 e giurisprudenza ivi citata).
7.- In questo contesto, legittimo è il criterio, concorrente, di qualificazione dell’attività basato sull’entità minima della commissione.
Al riguardo, quanto al secondo aspetto, indubbiamente la Corte di giustizia, come segnalato dalla società, ha stabilito che la prestazione di servizi è da ritenere onerosa, e quindi imponibile, purché sia ravvisabile nesso di corrispettività tra servizio reso e somma ricevuta, anche in mancanza di lucratività (Corte giust. causa C-94/19, San Domenico Vetraria). Occorre pur sempre, tuttavia, che sussista un nesso di corrispettività tra prestazione e remunerazione, che ne costituisca, dunque, il controvalore. Un conto è, dunque, la corrispettività, data dallo scambio, che identifica la prestazione di servizi imponibile ai fini dell”iva; altro è la lucratività, che contrassegna quantitativamente la corrispettività.
7.1.- Spetta al giudice nazionale assicurarsi che l’importo stabilito non costituisca una remunerazione solo parziale delle prestazioni effettuate o da effettuare e che la sua entità non sia stata stabilita in ragione dell’esistenza di altri fattori eventuali e idonei, se del caso, a rimettere in discussione il nesso diretto tra le prestazioni e il loro corrispettivo (Corte giust. 2 giugno 2016, causa c- 263/15, Lajvér Melioraci6s Nonprofit Kft. ed altro); il principio è
stato anche di recente ribadito, in relazione a un’ipotesi di rilevante scarto fra i costi sostenuti e gli importi percepiti come corrispettivo, che si è ritenuto incidere sull’esistenza di tale nesso, escludendolo (Corte giust. causa C-846/19, EQ, punto 48). Ed è appunto questa la valutazione giuridica che questa Corte ha compiuto, in base alla ricostruzione di fatto del giudice di merito, corrispondente in pieno a quella contenuta nella sentenza impugnata.
8.- Le considerazioni che precedono spogliano di ogni rilevanza l’ulteriore considerazione sviluppata in memoria, stavolta incentrata sul diritto interno, e specificamente sull’art. 4 del d.P.R. n. 633/72, ossia sulla presunzione di assoggettabilità a iva delle cessioni compiute dalla società: e ciò perché nessuna operazione rientrante in campo iva è ravvisabile, di modo che non si è determinato il presupposto applicativo della presunzione invocata.
8.1.- Il che effettivamente esclude, come prospettato anche dalla società, la rilevanza del congegno del mandato senza rappresentanza cui in tesi è riconducibile l’attività d’intermediazione svolta.
Al mandato senza rappresentanza è difatti riservato uno specifico trattamento ai fini dell’iva in base all’art. 6, paragrafo 4, della sesta direttiva (corrispondente all’art. 3, comma 3, del d.P.R. n. 633/72), in virtù del quale qualora un soggetto passivo che agisce in nome proprio ma per conto altrui partecipi ad una prestazione di servizi, si riterrà che egli abbia ricevuto o fornito tali servizi a titolo proprio.
La disposizione crea quindi la finzione giuridica di due prestazioni di servizi identiche fornite consecutivamente, in quanto si ritiene che l’operatore che partecipa alla prestazione di servizi, cioè il commissionario, abbia in un primo tempo ricevuto i servizi in questione da prestatori specializzati prima di fornire, in un secondo tempo, tali servizi all’operatore per conto del quale agisce (Corte giust., causa C-707/18, Amara ti Land Investment SRL, punto 37).
Sicché se la prestazione di servizi a cui un operatore partecipa è soggetta all’iva, anche il rapporto giuridico tra tale operatore e l’operatore per conto del quelle egli agisce deve essere soggetto all’iva (v., in tal senso, Corte giust. in causa C-274/15, Commissione c. Granducato di Lussemburgo, punto 87).
Se, invece, l’operazione è estranea al campo di applicazione dell’iva, irrilevante è il ricorso alla disciplina in questione.
9.- Qualificata l’attività di cessione dei certificati di deposito come attività fuori dal campo iva, l’obiettivo di neutralità garantito dal sistema comune dell’iva ne comporta l’esclusione dal calcolo del prorata di detrazione (da ultimo, Corte giust. 8 maggio 2019, causa e- 566/17, Wiqzek Gmin Zagl bia Miedziowego, punto 28).
9.1.- E l’esclusione dal calcolo delle operazioni in questione conduce alla riduzione della percentuale di detraibilità, evidenziando la legittimità della pretesa impositiva.
10.- Inammissibile, oltre che infondata, è poi la richiesta di disapplicazione delle sanzioni irrogate per obiettiva incertezza formulata in memoria: la richiesta è inammissibile, perché ivi proposta per la prima volta, ed è comunque infondata perché nessuna incertezza è configurabile, a fronte dell’univoco orientamento della giurisprudenza unionale.
11.- Il ricorso va in conseguenza rigettato e le spese seguono la soccombenza.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.
Per questi motivi
rigetta il ricorso e condanna la contribuente a pagare le spese, che liquida in euro 1830,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito.
Sussistono i presupposti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.