Corte di Cassazione ordinanza n. 23679 depositata il 28 luglio 2022
l’autorità del giudicato presuppone non solo identità del rapporto giuridico dedotto, ma anche identità soggettiva delle parti – violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali – questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata
RILEVATO CHE:
1. Il ricorrente premette di aver ricevuto la notifica di un avviso di accertamento inerente una presunta plusvalenza, derivante dalla cessione di partecipazioni sociali. Per quanto riguarda il periodo d’imposta 2006, oggetto del presente ricorso, l’avviso di accertamento si limitava a riportare acriticamente i rilievi operati dalla Guardia di finanza nel processo verbale di constatazione. Il contribuente ricorreva alla CTP, la quale accoglieva il ricorso rigettando la tesi dell’amministrazione finanziaria, asserendo che la somma corrisposta al gruppo uscente, pari ad euro 1.500.000, doveva necessariamente qualificarsi per la parte eccedente l’importo di euro 153.251 come semplice cessione del credito per finanziamento soci. L’Agenzia ricorreva in appello e la CTR accoglieva quest’ultimo. Avverso detta sentenza il contribuente ha promosso il ricorso in Cassazione, affidandolo a quattro motivi. L’Agenzia si è costituita con controricorso per resistere all’impugnazione.
CONSIDERATO CHE:
1. Con il primo motivo il contribuente deduce violazione e falsa applicazione degli articoli 21-septies e 21-octies, 7 agosto 1990, n. 241, per difetto di attribuzione o eccesso di potere. Infatti relativamente al caso specifico sarebbe risultato che l’avviso di accertamento era sottoscritto da soggetti non appartenenti al ruolo dei dirigenti dell’Agenzia delle entrate. Soggetti dunque il cui operato è insuscettibile di rappresentare o di impegnare l’amministrazione finanziaria verso l’esterno, ivi compresi i giudizi innanzi alle commissioni tributarie. Tutto questo in forza dell’art. 4, comma 2, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, per il quale ai dirigenti spetta l’adozione degli atti e dei provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l’amministrazione verso l’esterno. Inoltre anche la possibilità di delega delle competenze dirigenziali sarebbe circoscritta dalla legge solo ad alcune di esse, con esclusione quindi tutte quelle attribuzioni di natura esclusiva di cui al citato comma 2 dell’art.4 d.lgs. n. 165 del 2001.
2. Con il secondo motivo il contribuente deduce l’applicabilità al processo de quo, del giudicato esterno derivante dalla sentenza 238 dell’undici dicembre 2012, depositata il 17 aprile 2013, resa dalla commissione tributaria provinciale di Napoli in accoglimento della tesi del ricorrente A. R..
Invero secondo la CTR per lo stesso fatto, ma con riferimento alle annualità 2005 e 2006, gli avvisi emessi a carico di A. R., figlio di A. R., contitolare al 10% della quota capitale del 50%, risultano confermati dalla CTP di Caserta, con sentenza 490 del 2012, passata in giudicato. In ordine a tale pronuncia osserva il ricorrente che per aversi giudicato esterno sarebbe necessario che le decisioni intervenissero tra le stesse parti, mentre A. R. non era costituito parte del processo tributario intercorso presso la CTP di Caserta, infatti intercorso fra l’Agenzia delle entrate e A. R.. Orbene un giudicato esterno si era sì formato, ma appunto tra le stesse parti del presente processo, relativamente alla medesima fattispecie, con riguardo al periodo di imposta 2007.
Infatti la decisione della Commissione tributaria provinciale di Napoli numero 238 dell’undici dicembre 2012, accoglieva la tesi del ricorrente A. R. circa la qualificazione delle somme ricevute, decisione che non risulta essere stato oggetto di ulteriore impugnativa da parte dell’Agenzia delle entrate.
3. Con il terzo motivo il contribuente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 53 Cost. e 67 TUIR, in relazione al principio di capacità contributiva e di tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni. In effetti per i verificatori la plusvalenza derivante dalla vendita delle quote sarebbe stata di euro 1.500.000, mentre per il contribuente la stessa sarebbe da quantificarsi in euro 251, così come regolarmente dichiarata ed esposta. La differenza, pari ad euro 1.346.749, sarebbe da attribuirsi unicamente all’operazione di cessione dei crediti vantati da A.R. ed A. R. nei riguardi della società R.G. SRL, delle cui quote si tratta. Debito confermato e sottoscritto dalla parte acquirente nella lettera datata 11 novembre 2005. La circostanza che la restante somma rappresenti, o possa rappresentare, la restituzione in conto capitale in favore dei soci estromessi del credito vantato, viene disattesa dalla CTR in quanto non esisterebbe prova che tali versamenti siano stati fatti tutti ed esclusivamente da A.R. e dal figlio A.R.; il conto versamenti in conto capitale, relativamente al periodo di imposta 2005, risulta lievitare da euro 1.053.618 ad euro 1.722.797; non viene attribuito alcun valore alla corrispondenza fra i due gruppi familiari, intervenuta l’undici dicembre 2005 e sottoscritta dagli acquirenti, nonostante le parti sociali versassero in aperto conflitto. A giudizio del contribuente la CTR ha ritenuto che la parte acquirente si sarebbe prestata alla sottoscrizione di un documento fittizio, attestante l’obbligo di restituzione in maniera scadenzata di crediti vantati dalla parte cedente, senza però appunto considerare i contrasti esistenti fra le due famiglie. Inoltre a parere del contribuente, non era stato considerato il fatto che la documentazione contabile, nella generalità dei casi, è detenuti in azienda, dove a far data dal 2005 al gruppo estromesso era stata inibita qualsiasi possibilità di accesso. In simili condizioni, non avrebbe potuto A. R. fornire la documentazione comprovante l’avvenuto finanziamento alla R. G., non potendo più disporre dei dati contabili societari.
4. Con il quarto motivo il contribuente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 41-bis, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, relativamente agli accertamenti parziali. Il ricorso all’art. 41-bis citato sarebbe illegittimo, perché fin dalla “loro” istituzione il “loro” fine è stato ed è tuttora, quello di consentire all’amministrazione di procedere all’accertamento, quando risultino elementi certi che consentono di stabilire l’esistenza di un reddito non dichiarato o di un maggior reddito, senza necessità di verificare la posizione complessiva del contribuente e senza pregiudizio dell’ulteriore attività di accertamento.
5. Con il proprio controricorso l’Agenzia contesta i motivi proposti dal ricorrente. In particolare sul primo motivo l’Agenzia osserva che la questione è stata dedotta per la prima volta in questa sede, mentre mai nelle pregresse fasi di merito si è discusso della stessa, sulla quale peraltro la CTR non ha formulato alcuna statuizione. Con riferimento al secondo motivo, anche questo sarebbe inammissibile o comunque infondato. In effetti la CTR aveva fondato la sua decisione anche su conclusioni e valutazione di merito, per cui difetta l’interesse della parte ricorrente in relazione al motivo di specie. Inammissibile sarebbe anche il terzo motivo, in quanto con esso si censurano valutazioni di merito effettuate dalla CTR, inerenti atti e documenti acquisiti al giudizio di cui si contesta la rilevanza probatoria. Si tratterebbe insomma di accertamenti e valutazione di fatto non sindacabili in questa sede. Inammissibile sarebbe anche il quarto motivo, anzitutto perché la questione viene dedotta per la prima volta in questa sede e in ogni caso, con essa, non si sarebbe censurata alcuna specifica statuizione della CTR, né si comprenderebbe bene il fondamento del motivo, non avendo la parte ricorrente spiegato le relative ragioni.
6. Il primo motivo è inammissibile.
Invero, pacifico che la questione non risulta affrontata dal giudice d’appello, “ va rammentato che ove in cassazione siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, oltre ad allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, anche di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione” (Cass.13/06/2018, n.15430; nello stesso senso ex multis Cass. 18 ottobre 2013, n. 23675; Cass. 26 febbraio 2007, n. 4391).
Nella specie parte ricorrente non ha neppur dedotto di aver proposto la questione nei precedenti gradi di merito.
7. Quanto al secondo motivo deve osservarsi che, sebbene la CTR abbia rilevato la sussistenza di un giudicato esterno con riferimento alla controversia di analogo tenore inerente il figlio del ricorrente, tuttavia il giudice d’appello ha poi basato la propria decisione sull’esame nel merito.
Versandosi così in ipotesi di decisione che si fonda su una pluralità di rationes decidendi, il motivo sotto tal profilo non è inammissibile, perché anzi “Posto che il ricorso per cassazione non introduce una terza istanza di giudizio con la quale si può far valere la mera ingiustizia della sentenza impugnata, caratterizzandosi invece come un rimedio impugnatorio a critica vincolata ed a cognizione determinata dall’ambito della denuncia attraverso il vizio o i vizi dedotti, deve affermarsi che, nel caso in cui la decisione impugnata sia fondata su una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, il ricorso, per qualificarsi come ammissibile, deve rivolgersi contro ciascuna di queste, in quanto l’eventuale suo accoglimento non toccherebbe le ragioni non censurate e la decisione impugnata resterebbe ferma in base ad esse” (ex multis Cass. 05/06/2007, n.13070).
E nel merito la censura appare fondata, dal momento che effettivamente l’autorità del giudicato presuppone non solo identità del rapporto giuridico dedotto, ma anche identità soggettiva delle parti, mentre è pacifico che nella specie parte privata del giudizio in cui si è formato il giudicato era non A. R., ma A. R..
Risulta allo stesso tempo infondata l’invocazione da parte del ricorrente dell’autorità di giudicato della sentenza CTP Napoli n. 238 dell’undici dicembre 2012- 17 aprile 2013.
In proposito deve sottolinearsi che di detta sentenza, prodotta in copia, non risulta in alcun modo il passaggio in giudicato, e d’altronde dalla sentenza non emergono elementi che attestino trattare la stessa proprio delle quote della Rodia Group s.r.l. Tra l’altro in quella sentenza si fa riferimento ad un valore di cessione diverso (€ 1.200.000,00 anziché 1.500.000), e di un importo invece indicato dal contribuente di € 122.600,80, anziché come nella specie di € 153.251.
8. Inammissibile risulta poi il terzo motivo, dal momento che con esso viene censurata, più che come rubricato una violazione del principio di capacità contributiva, la valutazione degli elementi probatori così come effettuata dal giudice d’appello. In proposito va ricordato che “ In tema di ricorso per cassazione, una censura relativa alla violazione e falsa applicazione degli 115 e 116 c.p.c. non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo se si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione” (da ultimo Cass. 01/03/2022, n.6744). In altri termini il cattivo uso del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile in cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art.360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulta dalla sentenza o dagli atti processuali ed abbia costituito oggetto di discussione tra le parti), né in quello del precedente n. 4 della stessa disposizione, che dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante (cfr. Cass. 10/06/2016, n.11892).
Nella specie la CTR ha ricostruito il valore di cessione in € 1.500.000,00 valorizzando una serie di elementi indiziari: l’assenza di prova di versamenti fatti esclusivamente da A. ed A. R. a favore della società, che osserva la CTR ben poteva essere fornita da chi tali versamenti aveva effettuato (deve aggiungersi, indipendentemente dall’accesso ai locali dell’azienda, visto che si trattava in thesi di somme erogate dal ricorrente); la prova – rinveniente dal bilancio 2005 – che versamenti erano invece stati fatti dagli altri tre soci; l’inattendibilità della lettera, successiva di quasi un mese dall’asta delle quote, in cui i soci rimasti davano atto che l’effettivo prezzo sarebbe stato di € 153.251, peraltro riportante una differenza (di circa 18 mila euro) tra l’importo indicato e quello che risulta dalla somma fra finanziamento soci e versamenti in conto capitale come emergenti dalla contabilità; una serie di incongruenze di bilancio proprio circa le voci di finanziamento; la consegna “a titolo gratuito” di macchinari ai soci uscenti; l’indicazione nel verbale d’asta del corrispettivo di € 1.500.000, che si trasforma in 153.251 solo in sede di rogito notarile.
9. Inammissibile è poi anche il quarto motivo di ricorso, dal momento che lo stesso, peraltro nel contesto di un sintetico testo poco chiaro, si limita a indicare in base al pensiero del ricorrente il “fine” (forse) della disposizione, ma senza alcuna conclusività rispetto alla concreta fattispecie.
10. L’inammissibilità dei motivi spiegati contro le altre rationes decidendi determina, nonostante la fondatezza delle censure avverso una delle suddette rationes, il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente alle spese del giudizio di legittimità.
P. Q. M.
Respinge il ricorso.
Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida in € 5600,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Dà atto che sussistono i presupposti processuali per dichiarare l’obbligo di versare, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 20 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della l. 24 dicembre 2012, n. 228, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, se dovuto.