Corte di Cassazione, ordinanza n. 23709 depositata il 3 agosto 2023
IRES – dineigo rimborso
Rilevato che:
1. L’Agenzia delle Entrate ricorre, con due motivi, nei confronti dell’U. p.a., avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha rigettato l’appello dell’Ufficio che aveva impugnato la sentenza della C.t.p. di Agrigento di accoglimento ricorso spiegato dalla contribuente avverso il silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso del credito Irpeg, esposto in dichiarazione, per l’anno di imposta 1985, dalla Cassa Rurale Artigiana di Palma di Montechiaro, poi fusa nella C.R.P.A di Palma di Montechiaro la quale – dopo aver cambiato la denominazione in C. s.c.a.r.l. – aveva ceduto l’azienda bancaria al Credito Italiano s.p.a., poi incorporato nell’U. s.p.a.
2. La C.t.p. accoglieva il ricorso ritenendo che la titolarità del credito di imposta andasse riconosciuta alla ricorrente in qualità di ente creditizio cessionario del credito, in virtù di una cessione bancaria, regolamentata dall’art. 26 d.lgs. n. 481 del 1992 e efficace anche nei confronti dell’Amministrazione.
3. La C.t.r. confermava la sentenza e, in particolare: A) rigettava l’eccezione di inammissibilità del ricorso originario che l’Ufficio aveva sollevato assumendo la violazione degli artt. 19 e 21 d.lgs. n. 546 del 1992. Rilevava che l’Amministrazione, su cui gravava il relativo onere, non aveva provato la notifica del provvedimento di diniego che assumeva di aver emesso in quanto non vi era prova che l’U. avesse avanzato istanza di rimborso. Precisava sul punto che la contribuente si era limitata a manifestare la propria disponibilità a ricevere gran parte delle somme pretese a mezzo titoli di B) Nel merito, rilevava che non si era in presenza di una cessione di crediti erariali, bensì di una cessione di azienda (ivi incluso il credito rimborsabile) non soggetta agli adempimenti ex artt. 43 d.P.R. 29 settembre 1973 n. 602 e 1 d.m.. 30 settembre 1997 n. 384.
Aggiungeva che l’ammontare delle somme chieste a rimborso era conosciuto dall’Agenzia, sia in quanto esposto nella dichiarazione dei redditi, sia perché la documentazione versata in atti – ivi incluse le dichiarazioni dei sostituti d’imposta – era facilmente riscontrabile a mezzo interrogazione informatica.
5. La società contribuente ha depositato istanza con la quale, dopo aver dato atto di aver depositato il controricorso oltre il termine di cui all’art. 370 cod. proc. civ., ha chiesto di essere rimessa in termini.
In data 05 giugno 2023 ha anche depositato memoria.
Considerato che:
1. Con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli 19 e 21 d.lgs. 31 dicembre 1992 n. 546, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, cod. proc. civ., per aver disatteso l’eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa impugnazione dell’espresso diniego del rimborso di cui al provvedimento n. 4130 del 21 dicembre 1996.
Assume l’Ufficio che, sin dal primo grado, aveva eccepito che con provvedimento espresso, n. 4130 del 21 dicembre 1996, aveva rigettato le istanze presentate dal Credito Italiano per ottenere l’estinzione dei crediti esposti in dichiarazione mediante assegnazioni di titoli di Stato secondo quanto previsto dalla legge n. 457 del 1994. Deduce che, stante l’omessa pronuncia della C.t.p. sulla questione, aveva proposto appello, ribadendo l’inammissibilità del ricorso, in ragione dell’omessa impugnazione del detto provvedimento espresso di diniego che, pertanto, era divenuto definitivo. Aggiunge che il provvedimento di diniego era provato per tabulas.
2. Con il secondo motivo, l’Ufficio denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 civ., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., per violazione del principio dell’onere probatorio con riguardo alla sussistenza del credito rimborsabile.
La ricorrente, con il motivo in esame, se pure ritiene non condivisibile la sentenza impugnata con riferimento a quanto espresso al punto B), muove specifiche censure solo per la parte in cui, a fronte della contestazione del credito, la C.t.r. ha affermato che il suo ammontare era noto all’Agenzia sia in quanto esposto nella dichiarazione dei redditi, sia per la documentazione prodotta, rappresentata dagli attestati di ritenuta d’acconto, la cui veridicità era accertabile dall’Ufficio a mezzo interrogazione informatica dell’anagrafe tributaria. Assume che la contribuente, su cui gravava l’onere probatorio in quanto attore in senso sostanziale, avrebbe dovuto produrre copia della documentazione inerente i versamenti effettuati in eccesso dai quali sarebbe scaturito il credito e, in particolare, unitamente alle ritenute a titolo di acconto, anche i correlativi versamenti.
3. Preliminarmente deve rigettarsi l’istanza di rimessione in termini avanzata dalla società intimata.
3.1 Questa ha dichiarato che il mancato deposito tempestivo del controricorso, pur notificato nei termini, era dipeso dall’erronea indicazione, nel controricorso, degli estremi della sentenza gravata. Precisa, in particolare, che, per mero errore materiale, l’anno della sentenza era stato indicato come 2018 (precisamente sentenza 997/01/2018) anziché 2019 (precisamente sentenza 997/01/2019), sebbene le date di emissione e di deposito fossero state riportate correttamente (rispettivamente, 10/01/2019 e 19/02/2019). Aggiunge che, a causa di detto errore, all’atto del deposito del controricorso da parte del domiciliatario, era risultato che nessun ricorso era stato depositato ad opera dell’Agenzia delle Entrate; che, solo decorso il termine, ci si era avveduti dell’errore.
3.2 Per giurisprudenza costante della Corte la rimessione in termini presuppone l’esistenza di un fatto ostativo esterno alla volontà della parte, ovvero non determinato da quest’ultima e non governabile dalla stessa. Per altro, la scusabilità dell’errore dev’essere sottoposta a un vaglio particolarmente severo dovendosi evitare che il presunto disguido possa risolversi in un espediente processuale per rimediare all’inosservanza di un termine espressamente previsto dalla legge (cfr. Cass. 26/04/2023, n. 11029, Cass. 12/10/2022, n. 29889, Cass. 05/08/2021, n. 22342).
Detta condizione non è ravvisabile quando il ritardo sia dipeso, come ammesso dall’istante, da un errore materiale imputabile alla stessa parte.
3.3 Quanto alle conseguenze, la Corte ha chiarito che la tardività del deposito in cancelleria del controricorso, perché effettuato oltre il ventesimo giorno dalla notificazione, ne implica l’improcedibilità, evincendosi tale sanzione, pur in difetto di un’espressa previsione della norma che fissa l’indicato termine (art. 370 terzo comma, cod. proc. civ.), dai principi generali del processo civile in tema di inosservanza di termini inerenti ad atti processuali con i quali la parte porta a conoscenza del giudice e dell’avversario le proprie difese, con la conseguenza che non può tenersi conto ne’ del controricorso nè dell’eventuale memoria depositata ai sensi dell’art.378 proc. civ.. (Cass. 10/03/2000, n. 2805).
Quanto al procedimento camerale di cui all’art. 380 bis.1 cod. proc. civ., l’inammissibilità del controricorso tardivo rende inammissibili anche le memorie depositate dalla parte intimata ai sensi dell’art. 380 bis cod. proc. civ., in quanto, divenuta la regola la trattazione camerale e quella in udienza pubblica l’eccezione, deve trovare comunque applicazione la preclusione dell’art. 370 cod. proc. civ., di cui la parte inosservante delle regole del rito non può che subire le conseguenze pregiudizievoli, salvo il parziale recupero delle difese orali nel caso in cui sia fissata udienza di discussione, con la conseguenza che venuta a mancare tale udienza alcuna attività difensiva è più consentita (Cass. 29/10/2020, n. 23921).
4. Passando all’esame del ricorso, il primo motivo è infondato.
4.1 Sin dal giudizio di primo grado, l’Amministrazione finanziaria aveva dedotto l’inammissibilità del ricorso originario della contribuente per l’omessa impugnazione, nel termine di decadenza di cui all’art. 21 d.lgs. 546 del 1992, del diniego di rimborso di cui al provvedimento 4130 del 21 dicembre 1996.
4.2 Secondo la sentenza impugnata, la contribuente, tuttavia, non aveva proposto un’istanza di rimborso del credito Irpeg, ma aveva soltanto manifestato la propria disponibilità a ricevere parte della somma pretesa in restituzione mediante l’assegnazione di titoli di Stato, sicché il detto provvedimento, in mancanza di istanza di rimborso, non poteva qualificarsi come provvedimento impugnabile ai sensi dell’art. 19 d.lgs. n. 546 del 1992.
4.3 Questa Corte, pronunciandosi in analogo contenzioso relativo al credito esposto in dichiarazione dalla Cassa Rurale Artigiana di Palma di Montechiaro, ma con riferimento ad altro anno di imposta, ha già statuito, con riferimento allo stesso provvedimento n. 4130 del 21 dicembre 1996 (che riguardava, evidentemente, più anni di imposta) che il medesimo non era provvedimento impugnabile (Cass. 09/12/2021, n. 39135). In motivazione, si è precisato come detto provvedimento «non possa considerarsi atto impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. g, del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, non essendo qualificabile nei termini di “rifiuto espresso o tacito della restituzione di tributi”. Difatti, la richiesta respinta della “U. S.p.A.” non aveva per oggetto il rimborso del credito IRPEG per l’anno d’imposta 1986, di cui essa aveva acquistato la titolarità per effetto della cessione di azienda del 2 dicembre 1992, anche in considerazione della reiterata proposizione della relativa istanza nelle dichiarazioni annuali dei redditi ex art. 1 del D.M. 26 agosto 1994, ma l’opzione per una diversa modalità di estinzione del medesimo credito (assegnazione di titoli di Stato) ai sensi dell’art. 5, commi 1 e 1-bis, del D.L. 23 maggio 1994 n. 307, convertito, con modificazioni, dalla Legge 22 luglio 1994 n. 457. Per cui, il rifiuto di soddisfare il credito con la modalità alternativa dell’assegnazione dei titoli di Stato non poteva equivalere ad un diniego (ancorché tacito) di rimborso Aggiungasi che la circostanza dell’omessa comunicazione alla “U. S.p.A.” della nota trasmessa dall’Ufficio Distrettuale delle Imposte Dirette di Licata (AG) il 21 dicembre 1996, prot. n. 41430, pur essendo di per sé ininfluente per verificarne l’impugnabilità in relazione alla sua efficacia, costituisce, comunque, elemento significativo per disattendere l’eccezione di tardiva proposizione del ricorso alla Commissione Tributaria Provinciale di Agrigento».
4.4 Su detta ultima statuizione è sceso il giudicato.
La Corte, in merito alla sua rilevabilità, ha già affermato che i principi costituzionali del giusto processo e della sua ragionevole durata impongono al giudice, anche in sede di legittimità, di rilevare d’ufficio l’esistenza di un eventuale giudicato esterno. Tale rilievo, in ragione del preminente interesse pubblico sotteso dai princìpi costituzionali sopra ricordati, deve avvenire anche prescindendo da eventuali allegazioni in tal senso delle parti, e – qualora il giudicato si sia formato in seguito ad una sentenza della Corte di cassazione – facendo ricorso, se necessario, agli strumenti informatici ed alle banche dati elettroniche interne all’ufficio ove siano archiviati i ricorsi e le decisioni (Cass. 15/06/2007, n. 14014).
5. Il secondo motivo è in parte inammissibile ed in parte infondato.
5.1 Quanto alle censure mosse alla sentenza nella parte in cui ha ritenuto che non si è in presenza di una cessione di crediti erariali, bensì di una cessione di azienda, le stesse sono del tutto avulse dalla motivazione resa.
In base all’art. 366, comma 1, n. 4 cod. proc. civ., il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi carattere di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata; ciò comporta l’esatta individuazione del capo di pronuncia impugnata e l’esposizione di ragioni che illustrino in modo intelligibile ed esauriente le dedotte violazioni di norme o principi di diritto, ovvero le carenze della motivazione, restando estranea al giudizio di cassazione qualsiasi doglianza non riguardante il decisum della sentenza gravata. (Cass. 21/07/2020, n. 15517). Infatti, l’esercizio del diritto d’impugnazione di una decisione giudiziale può considerarsi avvenuto in modo idoneo soltanto qualora i motivi con i quali è esplicato si traducano in una critica della decisione impugnata e, quindi, nell’esplicita e specifica indicazione delle ragioni per cui essa è errata, le quali, per essere enunciate come tali, debbono concretamente considerare le ragioni che la sorreggono e da esse non possono prescindere, dovendosi, dunque, il motivo che non rispetti tale requisito considerarsi nullo per inidoneità al raggiungimento dello scopo. In riferimento al ricorso per cassazione tale nullità, risolvendosi nella proposizione di un «non motivo», è espressamente sanzionata con l’inammissibilità (Cass. 20/10/2016, n. 21296).
In ogni caso, questa Corte, con il precedente già citato, ha già condiviso la qualificazione resa dalla C.t.r. secondo cui l’U. aveva acquistato la titolarità del credito d’imposta per effetto della cessione di azienda (ex art. 2559 cod. civ.) del 2 dicembre 1992, che non era soggetta agli oneri previsti per la cessione di crediti verso lo Stato dagli artt. 69 e 70 R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 e che era stata pubblicata nella G.U. della Repubblica Italiana ex art. 26 d.lgs 14 dicembre 1992 n. 481 (poi trasfuso nell’art. 58, comma 4, deld.lgs 1 settembre 1993 n. 385) per gli effetti dell’art. 1264 cod. civ. (Cass. n. 39135 del 2021).
Nel precedente la Corte ha precisato che tale statuizione, conforme a quella resa nella sentenza qui impugnata, «è in sintonia con la più recente giurisprudenza di questa Corte (vedasi l’ordinanza resa nel procedimento iscritto al n. 7349/2020 R.G., in corso di pubblicazione), secondo la quale, avendo riguardo alla cessione isolata di crediti di qualsiasi natura nei confronti dello Stato, l’art. 69 del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 è derogato, con particolare riguardo alle cessioni interbancarie di attività e passività, dall’art. 58, comma 4, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 (espressamente richiamato dall’art. 90, comma 2, ultima parte, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 per le operazioni intervenute durante la liquidazione coatta amministrativa) […]. Pertanto, considerando la “specialità” della norma in relazione alla qualifica professionale dei soggetti 9 coinvolti, alla complessità tecnica delle vicende circolatorie in ordine ad una massa di rapporti attivi e passivi, alla vigilanza della Banca d’Italia sulle varie fasi delle operazioni, si può ritenere che le formalità previste dall’art. 58, comma 2, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385 (iscrizione nel registro delle imprese e pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana) debbano valere – ai fini dell’opponibilità ai terzi – anche per i crediti d’imposta verso l’amministrazione finanziaria. Ne consegue che gli adempimenti prescritti l’art. 69, comma 1, del R.D. 18 novembre 1923 n. 2440 (notifica al debitore ceduto o accettazione del debitore ceduto) non possono venire in rilievo per ammettere o escludere il riconoscimento del rimborso al cessionario del credito d’imposta, che sia stato oggetto di trasferimento a titolo particolare tra banche nel più ampio contesto di cessioni “in blocco” di attività e passività ai sensi dell’art. 58, comma 4, del D.L.vo 1 settembre 1993 n. 385».
Anche su detta questione, pertanto, è sceso il giudicato.
5.2 Il motivo, per il resto, è infondato.
La Corte, nella vigenza dell’art. 3 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ne testo anteriore alle modifiche apportate dal d.l. 31 maggio 1994, n. 300, convertito con modificazioni dalla legge 27 luglio 1994, n. 473, aveva ritenuto che la certificazione relativa alla ritenuta alla fonte, rilasciata dal sostituto d’imposta, non ammetteva equipollenti (cfr. Cass. 05/09/2014, n. 18734). Con riferimento al quadro normativo successivo alle modifiche di cui all’art. 1 d.l. n. 300 del 1994, che ha attenuato la rilevanza formale della certificazione, ha affermato che, ai fini dello scomputo della ritenuta d’acconto, l’omessa esibizione del certificato del sostituto d’imposta attestante la ritenuta operata non preclude al contribuente sostituito di provare la ritenuta stessa con mezzi equipollenti, onde evitare un duplice prelievo. Si è evidenziato, in proposito, che l’attestato del sostituto è prova tipica, ma non esclusiva, la cui assenza non è in grado di esporre il sostituito a preclusioni difensive (Cass. 07/6/2017, n. 14138 e, tra le più recenti, Cass. 07/06/2022, n. 18179).
Pertanto, l’attestazione del sostituto d’imposta costituisce per il sostituito priva tipica – ancorché non esclusiva – della ritenuta subita. Tale assunto trova conforto anche nella giurisprudenza della Corte che, in tema di legittimazione del sostituto o del sostituito a richiedere il rimborso delle imposte versate a mezzo ritenuta – questione sulla quale è consolidato l’orientamento che la riconosce ad entrambi – ha precisato, da un lato, che la mancanza di documentazione in allegato alla domanda di rimborso, e quindi, in sostanza, la carenza di prova per determinare l’an ed il quantum del rimborso, non sono considerati dal legislatore direttamente motivo di rigetto o di inammissibilità dell’istanza, dando vita piuttosto ad un confronto con l’ufficio ed alla possibilità di integrazione dei documenti rilevanti; dall’altro lato che per i lavoratori dipendenti, qualora presentino il mod. 740, la prova dell’effettuazione delle ritenute, ai fini del rimborso, consiste nella sola indicazione di esse nella suddetta dichiarazione (Cfr. Cass. 22/05/2019, n. 13771).
5.3 A ciò deve aggiungersi che, per giurisprudenza costante della Corte, in virtù del principio di collaborazione e buona fede che, ai sensi dell’art. 10, comma 1, legge n. 212 del 2000, deve improntare i rapporti tra ente impositore e contribuente a quest’ultimo non possono essere richiesti, anche ove l’onere probatorio sia a carico dello stesso, documenti ed informazioni già in possesso dell’Ufficio (Cass. 22/04/2021, n. 10724, Cass. 31/05/2018, n. 13822).
5.4 Infine, va evidenziato che nel processo tributario, l’obbligo dell’amministrazione di prendere posizione sui fatti dedotti dal contribuente è ancora più forte di quello che grava sul convenuto nel rito ordinario, in quanto le disposizioni degli artt. 18 legge 7 agosto 1990, n. 241, e 6 legge 27 luglio 2000, n. 212, secondo le quali il responsabile del procedimento deve acquisire d’ufficio quei documenti che, già in possesso dell’amministrazione, contengano la prova di fatti, stati o qualità rilevanti per la definizione della pratica, costituiscono l’espressione di un più generale principio valevole anche in campo processuale. In applicazione del principio, la Corte ha perciò affermato che, qualora il contribuente, che agisca per il rimborso di tasse o diritti non dovuti, eccepisca che documenti comprovanti il pagamento, o la richiesta di rimborso, siano in possesso dell’amministrazione, questa è tenuta a pronunciarsi in modo specifico e motivato sul punto, perché, in difetto, il giudice potrà desumere elementi di prova da tale comportamento (Cass. 05/11/2004, n. 21209).
5.5 La C.t.r. si è attenuta a questi principi.
Infatti, ha affermato che il credito era conosciuto dall’Agenzia in quanto esposto in dichiarazione ed in ragione della documentazione versata in atti, la cui veridicità era riscontrabile a mezzo interrogazione dei dati n possesso dell’anagrafe e risultava dalle dichiarazioni dei sostituti d’imposta. Ha aggiunto che le deduzioni dell’appellante apparivano «inconducenti, inidonee, dilatorie e pretestuose». Pertanto, il giudice del merito ha risolto correttamente la controversia, ritenendo che il credito di imposta fosse provato dalle relative attestazioni e che spettasse all’Ufficio muovere contestazioni specifiche in ordine alle stesse.
6. In conclusione, il ricorso va rigettato.
7. Non deve provvedersi sulle spese del giudizio di legittimità, stante l’inammissibilità del controricorso.
8. Poiché è soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso.