Corte di Cassazione ordinanza n. 26727 depositata il 12 settembre 2022
Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito – accertamento induttivo del reddito d’impresa e prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti
Rilevato che:
Con la sentenza impugnata la Commissione tributaria regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto da Immobiliare Carrobbio srl avverso la sentenza n. 191/16/13 della Commissione tributaria provinciale di Milano che ne aveva respinto il ricorso contro l’avviso di accertamento per II.DO. ed IVA 2004.
La CTR osservava in particolare che le riprese fiscali erano fondate sia per il rilevato scostamento del dichiarato annuale rispetto alle risultanze degli studi di settore sia comunque per l’incongruenza dei ricavi dichiarati con la realtà del mercato locale di riferimento (immobiliare).
Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione la società contribuente deducendo due motivi, poi illustrati con una memoria.
Resiste con controricorso l’Agenzia delle entrate. Considerato che:
Con il primo motivo -ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.- la ricorrente lamenta la violazione/falsa applicazione dell’art. 62 bis, d.l. 331/1993, poiché la CTR ha fondato la propria decisione sia sullo scostamento biennale dagli studi di settore sia sull’incongruità dei ricavi dichiarati con l’andamento del mercato locale di riferimento.
Con il secondo motivo -ex art. 360, primo comma, n. 3, cod.
proc. civ.- la ricorrente si duole della violazione/falsa applicazione dell’art. 1, comma 265, legge 244/2007 nonché dell’art. 116, cod. proc. civ., poiché la CTR ha fondato la propria decisione su di una “doppia”
presunzione semplice ossia quella derivante dallo studio di settore e quella prevista dalla disposizione legislativa evocata.
Le censure, da esaminarsi congiuntamente per connessione, sono infondate.
Va dato seguito ai principi di diritto che:
-«In tema di accertamento induttivo del reddito d’impresa, con l’abrogazione dell’ultimo periodo della lett. d) del primo comma dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che ha effetto retroattivo in considerazione della sua finalità di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, è stato ripristinato il quadro normativo anteriore, sicché la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili (o costituzione o trasferimento di diritti reali di godimento sugli stessi) può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti» (Sez. 5, Sentenza n. 20429 del 26/09/2014, Rv. 632181 – 01);
-«In tema di accertamento dell’IVA, la riformulazione dell’art. 54, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 ad opera della l.n. 88 del 2009 (comunitaria 2008), ha eliminato – con effetto retroattivo, stante la finalità di ·adeguamento al diritto unionale – la stima basata sul valore normale nelle transazioni immobiliari, sicché la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, secondo gli ordinari criteri di accertamento induttivo, che non sono esclusi dall’art. 273 della direttiva 2006/112/Cee, dovendo gli Stati membri assicurare l’integrale riscossione del tributo armonizzato e l’efficacia della lotta contro l’evasione» (Sez. 5 – , Ordinanza n. 9453 del 04/04/2019, Rv. 653363 – 01);
-«Nell’ipotesi di contestazione di maggiori ricavi derivanti dalla cessione di beni immobili, la reintroduzione, con effetto retroattivo, della presunzione semplice, ai sensi dell’art. 24, comma 5, della l.n. 88 del 2009 (legge comunitaria 2008), che ha modificato l’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e l’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, sopprimendo la presunzione legale (relativa) di corrispondenza del prezzo della compravendita al valore normale del bene, introdotta dall’art. 35 del d.l. n. 223 del 2006, conv. in l.n. 248 del 2006, non impedisce al giudice tributario di fondare il proprio convincimento su di un unico elemento, purché dotato dei requisiti di precisione e di gravità, elemento che non può, tuttavia, essere costituito dai soli valori OMI, che devono essere corroborati da ulteriori indizi, onde non incorrere nel divieto di “presumptio de presumpto”» (Sez. 5 – , Ordinanza n. 2155 del 25/01/2019, Rv. 652213 – 01).
Nel caso di specie il giudice tributario di appello ha affermato che le riprese fiscali per imposte dirette ed IVA nell’annualità in contesto trovavano fondamento su due, parallele, ma convergenti, presunzioni semplici ossia quella derivante dallo scostamento biennale del “dichiarato” dallo studio di settore e quella derivante dalla – fattualmente accertata- incongruenza dei ricavi da vendite immobiliari con i prezzi di mercato immobiliare (locale) del periodo.
Trattasi di decisione in piena aderenza ai citati arresti giurisprudenziali e che nei profili di fatto non è ulteriormente sindacabile in questa sede, secondo gli ulteriori, consolidati, principi di diritto che «Con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità» (Cass., n. 29404 del 07/12/2017, Rv. 646976 – 01); «Con la proposizione del ricorso per cassazione, il ricorrente non può rimettere in discussione, contrapponendone uno difforme, l’apprezzamento in fatto dei giudici del merito, tratto dall’analisi degli elementi di valutazione disponibili ed in sé coerente, atteso che l’apprezzamento dei fatti e delle prove è sottratto al sindacato di legittimità, dal momento che, nell’ambito di quest’ultimo, non è conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice di merito, cui resta riservato di individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, di valutare le prove, controllarne attendibilità e concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione» (Cass., n. 9097 del 07/04/2017, Rv. 643792-01).
In conclusione il ricorso va rigettato.
Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate come in dispositivo.
PQM
La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 4.100 oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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