CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 26997 depositata il 21 settembre 2023
Lavoro – Danno biologico mobbing – Licenziamento – Superamento periodo di comporto – Reintegrazione nel posto di lavoro – Periodo malattia – Ferie – Inammissibilità
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 146/2019, il Tribunale di Fermo aveva condannato la F.lli V.G. s.r.l., nonché i soci di quest’ultima V.R. e V.G., al risarcimento, in favore dell’attrice C.A., del danno biologico da mobbing in ragione di € 18.888,80;
aveva annullato il licenziamento intimato dalla suddetta società alla C. per superamento del periodo di comporto, condannando la datrice di lavoro alla reintegrazione dell’istante nel posto di lavoro, nonché al pagamento di differenze retributive per lavoro domenicale e festivo.
2. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte d’appello di Ancona, in parziale accoglimento dell’appello proposto dalla F.lli V.G. s.r.l., nonché dai suddetti soci, contro la decisione di primo grado, rigettava la domanda di risarcimento del danno da mobbing ed eliminava, quindi, la condanna della società convenuta, nonché dei soci V.R. e V.G. al pagamento di € 18.888,80, oltre accessori; riduceva, inoltre, la condanna al pagamento delle differenze retributive ad € 12.014,39, compensando per la metà le spese del giudizio di primo grado (compresi gli oneri della C.T.U. medico-legale e della C.T.U. contabile), ma confermava nel resto la sentenza impugnata; compensava per la metà le spese di secondo grado (come liquidate per intero) e condannava gli appellanti in solido a rimborsare alla controparte la restante metà.
3. Per quanto qui interessa, la Corte territoriale, nel respingere il secondo motivo di appello circa il licenziamento intimato alla lavoratrice, reputava pacifico che prima della scadenza del periodo di comporto, fissato al 28 marzo 2015, la lavoratrice tramite il suo difensore, con missiva del 17 marzo (ribadita con altra del 23 marzo) 2015 aveva chiesto di fruire delle ferie già maturate in ragione di 197 ore di lavoro e non ancora fruite; e che nelle stesse missive era anticipata l’intenzione di richiedere, al termine della fruizione delle ferie, anche l’aspettativa non retribuita (nel caso di perdurante inabilità al lavoro e, quindi, di impossibilità di riprendere servizio). Rilevava che la datrice di lavoro, nella missiva datata 25 marzo 2015 (riscontrando la missiva ricevuta il 18 marzo), negava la fruizione delle ferie e, nel contempo, comunicava di accettare la richiesta di aspettativa non retribuita, dal 28 marzo al 25 luglio 2015. Riteneva, inoltre, sostanzialmente immotivato il diniego delle ferie, che la società, sempre in tale missiva, aveva espresso come segue: “Le ferie maturate e non ancora godute le verranno pagate al termine del periodo di aspettativa con la cessazione del rapporto di lavoro, qualora, terminato il periodo di 120 giorni, non fosse ancora in grado di riprendere l’attività lavorativa”.
Sulla base di queste considerazioni confermava che il licenziamento era illegittimo siccome intimato alla C. prima del superamento del periodo di comporto.
4. Avverso tale sentenza la F.lli V.G. s.r.l. proponeva ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
5. Ha resistito con controricorso C.A..
6. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente ex art. 360, co. 1, n. 3 c.p.c. denuncia “violazione e falsa applicazione degli artt. 2110 c.c. e 115 cpc e dell’art. 181 del CCNL Confcommercio settore terziario rinnovato il 30.3.2015; con il secondo motivo ex art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. denuncia “omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione in ordine ad un fatto decisivo per la controversia, che ha formato oggetto di discussione tra le parti sia nel giudizio di primo che di secondo grado e cioè la fruizione da parte della dipendente di un periodo di aspettativa non retribuita di 120 giorni contrattualmente stabilita (ccnl commercio) che hanno prolungato il periodo di comporto”; con un terzo motivo ai sensi sempre dell’art. 360, co. 1, n. 5, c.p.c. denuncia “contraddittorietà ed illogicità della motivazione in ordine: all’asserito mancato superamento del periodo di comporto che ha determinato la declaratoria di illegittimità del licenziamento; alla decisione del datore di lavoro di non concedere alla dipendente di mutare il titolo dell’assenza da malattia a ferie maturate e non godute che avrebbe impedito il prolungamento del periodo di comporto”.
2. Tali motivi sono così distinti e sintetizzati alla pag. 3 del ricorso, ma sono poi esposti in uno “svolgimento” unico (cfr. pagg. 5-13 dello stesso atto), e possono quindi essere congiuntamente esaminati.
3. Essi risultano inammissibili.
4. Giova ricordare che, secondo un indirizzo di legittimità, anche di recente confermato, il lavoratore assente per malattia ha facoltà di domandare la fruizione delle ferie maturate e non godute, allo scopo di sospendere il decorso del periodo di comporto, non sussistendo una incompatibilità assoluta tra malattia e ferie, senza che a tale facoltà corrisponda comunque un obbligo del datore di lavoro di accedere alla richiesta, ove ricorrano ragioni organizzative di natura ostativa; in un’ottica di bilanciamento degli interessi contrapposti, nonché in ossequio alle clausole generali di correttezza e buona fede, è necessario, tuttavia, che le dedotte ragioni datoriali siano concrete ed effettive (così, ex plurimis, Cass. civ., sez. lav., 14.9.2020, n. 19062).
E, nell’ambito di detto orientamento, è stato da tempo specificato che il lavoratore assente per malattia non ha incondizionata facoltà di sostituire alla malattia la fruizione delle ferie, maturate e non godute, quale titolo della sua assenza, allo scopo di interrompere il decorso del periodo di comporto, ma il datore di lavoro, di fronte ad una richiesta del lavoratore di conversione dell’assenza per malattia in ferie, e nell’esercitare il potere, conferitogli dalla legge (art. 2109 c.c., comma 2), di stabilire la collocazione temporale delle ferie nell’ambito annuale armonizzando le esigenze dell’impresa con gli interessi del lavoratore, è tenuto ad una considerazione e ad una valutazione adeguata alla posizione del lavoratore in quanto esposto, appunto, alla perdita del posto di lavoro con la scadenza del comporto; tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita (così Cass. civ., sez. lav., 27.3.2020, n. 7566; e in termini esatti o analoghi id., 5.4.2017, 8834; id., 22.3.2005, n. 6143; id., 10.11.2004, n. 21385; id., 9.4.2003, n. 5521; id., 8.11.2000, n. 14490).
5. Ebbene, la Corte territoriale, nel confermare l’illegittimità, già ritenuta dal primo giudice, del licenziamento siccome intimato alla C. prima del superamento del periodo di comporto, ha mostrato di tener conto del su richiamato indirizzo (cfr. in particolare § 8.5., 8.6. e 8.7. della sua motivazione).
6. La Corte territoriale, inoltre, ha accertato che la lavoratrice, nelle sue missive del marzo 2015, aveva anticipato l’intenzione di richiedere, sia pure al termine della fruizione delle ferie, maturate e non fruite, anche l’aspettativa non retribuita, e che la datrice di lavoro aveva accettato la richiesta di aspettativa non retribuita, dal 28 marzo al 25 luglio 2015 (cfr. § 8.1 e 8.2. della sua motivazione).
Come già premesso in narrativa, la stessa Corte ha, però, ritenuto sostanzialmente immotivato il diniego datoriale delle ferie maturate e non godute che la lavoratrice aveva chiesto prima della scadenza del periodo di comporto, “indipendentemente dalla ricorrenza o meno di ragioni organizzative o produttive” (cfr. in extenso § 8.3. e 8.4. della sua motivazione).
7. Tanto premesso, le proposte censure anzitutto si risolvono in una mescolanza e sovrapposizione di mezzi d’impugnazione eterogenei, facenti riferimento a diverse ipotesi contemplate dall’art. 360 c.p.c. (cfr. Cass. civ., sez. lav., 9.7.2020, n. 14634; id., sez. lav., 25.6.2020, n. 12625; id., sez. lav., 28.5.2020, n. 10212). Non è, infatti, consentita la prospettazione di una medesima questione sotto profili incompatibili, quali quelli della violazione di norme di diritto, sostanziali e processuali, che suppone accertati gli elementi del fatto in relazione al quale si deve decidere della violazione o falsa applicazione della norma, e del vizio di motivazione, che quegli elementi di fatto intende precisamente rimettere in discussione (cfr. Cass. n. 10212/2020 cit.; e in termini analoghi id., sez. II, 28.1.2021, n. 1859).
Come anticipato, lo sviluppo senza soluzione di continuità delle su riassunte doglianze è unico ed unitario, non consentendo così a questa Corte di distinguere i loro singoli profili, in ipotesi da ricondurre ai diversi mezzi di cui al n. 3) e al n. 5) del primo comma dell’art. 360 c.p.c.
8. Occorre, inoltre, ricordare che, per questa Corte, ricorre l’ipotesi di c.d. “doppia conforme”, ai sensi dell’art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art. 360, comma 1, n. 5), c.p.c., non solo quando la decisione di secondo grado sia interamente corrispondente a quella di primo grado, ma anche quando le due statuizioni siano fondate sul medesimo iter logico-argomentativo in relazione ai fatti principali oggetto della causa, non ostandovi che il giudice di appello abbia aggiunto argomenti ulteriori per rafforzare o precisare la statuizione già assunta dal primo giudice (in tal senso Cass. civ., sez. VI, 9.3.2022, n. 7724).
E’ stato, inoltre, specificato che, nell’ipotesi di “doppia conforme” prevista dal quinto comma dell’articolo 348-ter del c.p.c., il ricorrente per cassazione, per evitare l’inammissibilità del motivo di cui al n. 5 dell’articolo 360 del c.p.c., deve indicare le ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado e quelle poste a base della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (così Cass. civ., sez. II, 14.12.2021, n. 39910; id., sez. III; 3.11.2021, n. 31312; id., sez. III, 9.11.2020, n. 24974).
8.1. Nel caso in esame, però, a fronte di decisioni di primo e di secondo grado tra loro senz’altro conformi quanto alla ritenuta illegittimità del licenziamento, neppure ha allegato la ricorrente per cassazione se e in che punti le rispettive rationes decidendi di tali pronunce fossero almeno in parte differenti.
8.2. Per la parte in cui i motivi di ricorso si riferiscono al mezzo di cui all’art. 360, comma primo, n. 5) c.p.c. sono, quindi, in ogni caso inammissibili.
9. Infine, nel suo indistinto “svolgimento dei motivi” l’impugnante asserisce che la Corte di merito avrebbe omesso di prendere in considerazione il fatto, asseritamente decisivo, rappresentato dalla circostanza dell’avvenuta fruizione del periodo di aspettativa non retribuita da parte della dipendente al termine del comporto per 4 mesi;
laddove la stessa Corte ha invece affermato che: “… la datrice di lavoro, nella missiva datata 25 marzo 2015 (riscontrando la missiva ricevuta il 18 marzo), negava la fruizione delle ferie ed, al contempo, comunicava di accettare la richiesta di aspettativa non retribuita, dal 28 marzo al 25 luglio 2015”. Pertanto, la ricorrente neppure si confronta con la completa motivazione della sentenza impugnata.
10. La ricorrente, in quanto soccombente, dev’essere condannata al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, ed è tenuto al versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, ove dovuto.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in € 200,00 per esborsi ed € 6.000,00 per compensi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.