CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 27721 depositata il 2 ottobre 2023
Lavoro – Attività prestata fuori sede – Buoni pasto – Interpretazione della volontà negoziale – Accertamento di fatto – Inammissibilità del ricorso
Rilevato che
1. La Corte d’Appello di Roma, con sentenza pubblicata in data 12 maggio 2021, ha confermato la pronuncia di primo grado – per quanto qui ancora rileva – nella parte in cui aveva riconosciuto ad A.R. nei confronti della società datrice di lavoro R.R. Spa il diritto ad una “indennità prevista dall’accordo del 16.7.2009 (denominata dal primo giudice come ‘attività prestata fuori sede’)”, sotto forma di “buoni-pasto del valore di euro 5.16 per ogni giorno di presenza”;
2. i giudici d’appello, conformemente ad altri precedenti della medesima Corte, hanno interpretato il contenuto dell’accordo aziendale nel senso che il riferimento alle “attività lavorative […] assegnate presso strutture esterne agli uffici aziendali” consentisse di riconoscere l’indennità anche ai lavoratori chiamati a lavorare “presso l’ufficio di Roma Capitale costituito dal dipartimento del condono edilizio nella sede di Via (…)”;
3. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con un unico motivo;
4. resiste, con controricorso, A.R.;
4. la proposta del relatore ex art. 380 bis c.p.c. è stata comunicata alle parti, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale;
Considerato che
1. Con l’unico motivo di ricorso, formulato ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c., si denuncia: “violazione degli artt. 1362 e ss. c.c. in relazione all’accordo sindacale del 16 luglio 2009”; si deduce che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte romana, “il significato letterale delle espressioni usate dalle parti sociali non era evidente ed univoco al punto da far ritenere sufficiente il richiamo al solo canone letterale per la sua interpretazione”; secondo parte ricorrente, con l’espressione “sedi esterne”, le parti sociali avrebbero fatto riferimento “alle sedi di lavoro in contesti differenti da quelli aziendali”;
2. il motivo è inammissibile; l’interpretazione di ogni atto di autonomia negoziale è riservata all’esclusiva competenza del giudice del merito (cfr. Cass. n. 17067 del 2007; Cass. n. 11756 del 2006), con una operazione che si sostanzia in un accertamento di fatto (Cass. n. 9070 del 2013; Cass. n. 12360 del 2014);
le valutazioni del giudice di merito in ordine all’interpretazione degli atti negoziali pertanto soggiacciono, nel giudizio di cassazione, ad un sindacato limitato alla verifica del rispetto dei canoni legali di ermeneutica contrattuale ed al controllo della sussistenza di una motivazione logica e coerente (cfr., ex plurimis, Cass. n. 21576 del 2019; Cass. n. 20634 del 2018; Cass. n. 4851 del 2009; Cass. n. 3187 del 2009; Cass. n. 15339 del 2008; Cass. n. 11756 del 2006; Cass. n. 6724 del 2003; Cass. n. 17427 del 2003); inoltre, sia la denuncia della violazione delle regole di ermeneutica, sia la denuncia del vizio di motivazione esigono una specifica indicazione ossia la precisazione del modo attraverso il quale si è realizzata l’anzidetta violazione e delle ragioni della obiettiva deficienza e contraddittorietà del ragionamento del giudice di merito – non potendo le censure risolversi, in contrasto con l’interpretazione loro attribuita, nella mera contrapposizione di una interpretazione diversa da quella criticata (tra le altre, Cass. n. 18375 del 2006; Cass. n. 12468 del 2004; Cass. n. 22979 del 2004, Cass. n. 7740 del 2003; Cass. n. 12366 del 2002; Cass. n. 11053 del 2000);
al cospetto dell’approdo esegetico cui è pervenuta la Corte distrettuale la società ricorrente, nella sostanza, si limita a rivendicare un’alternativa interpretazione plausibile a lei più favorevole; ma per sottrarsi al sindacato di legittimità quella data dal giudice al testo negoziale non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicché, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito – alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito – dolersi in sede di legittimità del fatto che sia stata privilegiata l’altra (Cass. n. 10131 del 2006); infatti il ricorso in sede di legittimità – riconducibile, in linea generale, al modello ‘dell’argomentazione di carattere confutativo laddove censuri l’interpretazione del negozio accolta dalla sentenza impugnata, non può assumere tutti i contenuti di cui quel modello è suscettibile, dovendo limitarsi ad evidenziare l’invalidità dell’interpretazione adottata attraverso l’allegazione (con relativa dimostrazione) dell’inesistenza o dell’assoluta inadeguatezza dei dati tenuti presenti dal giudice di merito o anche solo delle regole giustificative (anche implicite) che da quei dati hanno condotto alla conclusione accolta, e non può, invece, affidarsi, come nella specie, alla mera contrapposizione di un risultato diverso sulla base di dati asseritamente più significativi o di regole di giustificazione prospettate come più congrue (in termini: Cass. n. 18375 del 2006);
inoltre, sostanziandosi l’interpretazione della volontà negoziale in un accertamento di fatto, ogni diversa valutazione di detto fatto è preclusa in caso di cd. “doppia conforme” ex art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., come nella specie;
4. conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile;
5. le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo;
5.1. occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012 (Cass. SS.LU . n. 4315 del 2020);
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione, in favore della parte controricorrente, delle spese di lite, che liquida in complessivi euro 2500,00 per compensi e 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge, da distrarsi in favore del procuratore, dichiaratosi antistatario. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 –bis dello stesso articolo 13 (ndr comma 1 –bis dello stesso articolo 13), se dovuto.