CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 28996 depositata il 18 ottobre 2023

Lavoro – Accordo aziendale di riduzione dell’orario ordinario di lavoro – Disdetta dell’accordo – Rapporto di lavoro subordinato part time verticale – Diritto alla retribuzione per il tempo pieno – Novazione oggettiva del rapporto di lavoro – Manifestazione di volontà per fatti concludenti – Mancanza di forma scritta del contratto part time – Clausola stipulata tacitamente – Possibilità per il datore di lavoro di provare sospensioni concordate delle prestazioni lavorative – Accoglimento 

Rilevato che

1.- Gli odierni ricorrenti, dipendenti della Cristina srl e poi, dal 2012, della C. di F. srl, rispettivamente con mansioni di chef de rang, barman e guardarobiera nell’attività di discoteca, sala da ballo, ristorante e bar svolta dalle società, deducevano che nel 2009 era stato sottoscritto un accordo aziendale che aveva previsto una riduzione dell’orario ordinario di lavoro, con garanzia comunque di 120 giornate di lavoro annuali retribuite e obbligo di recepimento in accordi individuali, mai stipulati. Aggiungevano che la riduzione di orario era stata applicata secondo il predetto accordo sindacale, ma nell’ottobre 2015 tale accordo era stato disdettato dalla società, con decorrenza dall’01/01/2016. Precisavano che tale disdetta aveva comportato il venir meno dell’accordo sulla riduzione di orario, sicché avevano diritto alla retribuzione per il tempo pieno, a decorrere da quando avevano messo a disposizione le proprie energie lavorative secondo il full time, con raccomandata dell’01/03/2016.

Deducevano di non aver mai firmato alcun contratto part time, nonostante la disciplina vigente all’epoca prevedesse la forma scritta ad substantiam, poi ad probationem.

Pertanto, anche ai sensi dell’art. 10 d.lgs. n. 81/2015, adìvano il Tribunale di Firenze per ottenere l’accertamento dell’esistenza di un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno dall’01/01/2016 e la condanna della società datrice di lavoro al pagamento delle conseguenti differenze retributive, calcolate dall’01/03/2016 fino alla data di deposito del ricorso giudiziario (ottobre 2016).

2.- Costituitasi in giudizio, la società eccepiva che il locale da essa gestito aveva un calendario di aperture al pubblico limitato a circa 100/110 serate all’anno; che i ricorrenti svolgevano mansioni presupponenti necessariamente l’apertura del locale; che tutti i lavoratori avevano di fatto osservato un orario part time verticale coincidente con i giorni di apertura del locale secondo un accordo condiviso fra datore di lavoro e dipendenti; che nel 2009 aveva stipulato con le sigle sindacati un accordo aziendale che aveva previsto un numero minimo di aperture (120) e orari di lavoro determinati; che nell’ottobre 2015 essa società era receduta dall’accordo, ma ad aprile 2016 ne aveva concluso un altro, che aveva previsto la riduzione delle giornate di apertura garantite e retribuite a 105, con regolazione di giorni ed orari di lavoro, ed aveva proposto a tutti i dipendenti la sottoscrizione di contratti individuali di lavoro part time conformi a tale accordo, contratti che i ricorrenti avevano rifiutato di sottoscrivere.

Deduceva che, pur in assenza di contratto con forma scritta, la volontà concorde delle parti era stata chiaramente nel senso di un rapporto di lavoro subordinato part time verticale, in considerazione del tipo di servizio offerto dalla C., delle mansioni svolte dai ricorrenti, del comportamento ultraventennale concludente in tal senso, della prova documentale consentita dal d.lgs. n. 61/2000 e dal d.lgs. n. 81/2015.

Proponeva quindi domanda riconvenzionale volta all’accertamento dell’esistenza fra le parti di rapporti di lavoro subordinato part time verticale secondo specifici giorni di lavoro.

3.- Il Tribunale di Lucca – presso cui la causa era stata riassunta dopo la declaratoria di incompetenza territoriale del Tribunale di Firenze – accoglieva la domanda dei ricorrenti e rigettava quella riconvenzionale della società.

4.- La Corte territoriale, con la sentenza indicata in epigrafe, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla società ed in riforma della sentenza impugnata, rigettava la domanda dei ricorrenti, ma confermava il rigetto di quella riconvenzionale della società.

Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava:

a) i lavoratori sono stati assunti tanti anni fa (negli anni 1995, 1993 e 2001) ed hanno sempre pacificamente lavorato nei soli giorni di apertura della discoteca, ossia del locale nel quale svolgono le loro mansioni;

b) non sono mai stati stipulati contratti scritti, né quindi contratti di lavoro subordinato part time;

c) nell’anno 2015 alcuni dipendenti (C. e B.) hanno agito in giudizio per ottenere differenze retributive per lavoro straordinario a partire dal 2004, prendendo come base “ordinaria” di lavoro i giorni e gli orari di fatto sempre osservati, corrispondenti ai giorni di apertura del locale;

d) con accordo sindacale aziendale dell’ottobre 2009 è stata data una nuova disciplina ai rapporti ed è stato stabilito un numero minimo di giornate di apertura (120 l’anno), così da garantire ai dipendenti un minimo di trattamento retributivo; dunque non si è trattato di un accordo per la riduzione dell’orario di lavoro, rispetto ad un tempo pieno che sino ad allora non era stato mai praticato, come risulta chiaramente anche dalla premessa del citato accordo aziendale;

e) era stato altresì previsto che tale regolamentazione venisse trasfusa in accordi individuali, invece mai stipulati;

f) in concreto, però, come ammesso pure dai ricorrenti, a quell’accordo aziendale è stata data pacifica ed effettiva attuazione;

g) nell’ottobre 2015 la società ha disdettato l’accordo del 2009, a decorrere dall’01/01/2016, ed ha proposto ai singoli lavoratori contratti individuali di lavoro part time verticale per un totale di almeno 105 giornate l’anno;

h) è questo il doc. 10 bis, valorizzato dal Tribunale per la sua decisione, nel quale si dice “il rapporto di lavoro era stato originariamente previsto a tempo pieno, ma attualmente è svolto a tempo parziale”;

i) gli appellati non hanno sottoscritto questi contratti individuali di lavoro part time;

j) con successivo accordo sindacale di aprile 2016 è stata stabilita la garanzia di 105 giornate retribuite ed è stato previsto che le condizioni indicate nell’accordo sarebbero state applicate ai lavoratori che avessero poi sottoscritto il contratto individuale part time;

k) alla luce di tali fatti, deve concludersi che i rapporti di lavoro subordinato degli appellati sono da moltissimi anni, se non dall’origine, a tempo parziale verticale, per i giorni di apertura del locale, per comune intesa delle parti;

l) è vero che all’epoca di assunzione di B. (1993) e di D.F. (1995) il contratto di lavoro a tempo parziale doveva essere concluso con forma scritta ad substantiam e all’epoca di assunzione del C. (2001) ad probationem, in base alla normativa vigente ratione temporis, ma è pur vero che, anche con riguardo alla L. n. 863/1984, la Corte di Cassazione ammette che il datore di lavoro possa dimostrare l’intervento di una riduzione consensuale della prestazione lavorativa, ovvero di una novazione oggettiva del rapporto con nuova manifestazione di volontà anche per fatti concludenti (Cass. n. 25047/2020; Cass. n. 14684/2019; Cass. n. 1375/2018; Cass. n. 5518/2004);

m) la domanda dei lavoratori di riconoscimento di rapporto di lavoro a tempo pieno va pertanto respinta, con conseguente rigetto anche della domanda di condanna al pagamento di differenze retributive fra quella dovuta per il tempo pieno e quella percepita per il part time effettivamente osservato;

n) ciononostante non può essere accolta la domanda riconvenzionale della società volta alla declaratoria di sussistenza di rapporti di lavoro part time secondo determinati giorni specificati, che a ben vedere sono pari a 97 l’anno: all’epoca i giorni e gli orari di lavoro erano quelli previsti dall’accordo sindacale del 2009, che ha avuto di fatto attuazione fra le parti anche dopo la disdetta, quindi per 120 giorni minimi l’anno.

4.- Avverso tale sentenza B.M., C.E. e D.F. Domenica hanno proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.

5.- C. di F. srl ha resistito con controricorso.

6.- Tutte le parti hanno depositato memoria.

Considerato che

1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. i ricorrenti lamentano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 5, co. 2, d.l. n. 726/1984 conv. in L. n. 863/1984, 2, 3, 5 e 10 d.lgs. n. 61/2000, poi modificati dall’art. 46 d.lgs. n. 276/2003, 1, c. 44, L. n. 247/2007, 1206, 1217 e 2697 c.c., nonché 6, ult. co, r.d.l. n. 1825/1924 per avere la Corte territoriale ritenuto inesistente tra le parti un rapporto di lavoro subordinato a tempo pieno pur in assenza di un contratto con forma scritta e nonostante la messa in mora dell’01/03/2016, in cui i lavoratori avevano dichiarato di mettere a disposizione le proprie energie lavorative per il full time.

Il motivo è parzialmente fondato.

In via di principio va ribadito che il rapporto di lavoro subordinato si presume costituito full time e in tal modo va qualificato sul piano giuridico qualora il part time non risulti da patto con forma scritta, richiesta ad substantiam secondo la disciplina vigente all’epoca di assunzione del B. e della D.F. (art. 5 d.l. n. 726/1984, convertito dalla legge n. 863/1984), ad probationem secondo quella vigente all’epoca di assunzione del C. (artt. 2 e 8 d.lgs. n. 61/2000). Sul piano processuale la conseguenza non muta: non essendo stato prodotto nel processo il contratto di lavoro con forma scritta o almeno un patto scritto relativo all’orario di lavoro asseritamente part time, deve concludersi che i rapporti di lavoro dei ricorrenti siano stati costituiti full time.

Sotto questo profilo, la diversa conclusione affermata dalla Corte territoriale (v. supra sub m) è parzialmente errata e pertanto va cassata.

Cionondimeno il datore di lavoro è ammesso a provare che vi siano state riduzioni concordate di prestazioni lavorative (e quindi di retribuzione), rectius sospensioni concordate di tali prestazioni in relazione ad un orario giornaliero oppure a giorni di lavoro, come già affermato da questa Corte (Cass. n. 2033/2000, testualmente richiamata da Cass. n. 5518/2004; Cass. n. 1375/2018 che a sua volta richiama le due precedenti citate).

Ciò è proprio quanto avvenuto nella specie.

Dagli atti di causa e da quanto accertato in fatto dai giudici di appello (v. sentenza impugnata, p. 5, primo capoverso, in cui la Corte territoriale afferma che i lavoratori “hanno sempre pacificamente lavorato … nei soli giorni di apertura della discoteca …”) risulta che ab initio i contratti di lavoro subordinato, pur stipulati senza forma scritta e quindi da ritenere come full time, hanno avuto consensuale esecuzione nei soli giorni di apertura del locale gestito poi da C. di F. srl.

Tale regime consensuale di sospensione concordata della prestazione lavorativa e della retribuzione per determinati giorni all’anno ha trovato una prima conferma nelle precedenti azioni giudiziarie promosse dal B. e dal C. (pure ricordate dalla Corte territoriale: v. sentenza impugnata, p. 5, terzo capoverso), fondate proprio sul pacifico presupposto della vigenza di quel regime.

La sospensione consensuale delle prestazioni lavorative, con l’accordo di tutti i dipendenti, nei giorni di chiusura del locale – nell’ambito di rapporti di lavoro subordinato full time – ha trovato poi ulteriore conferma ed avallo nell’accordo sindacale aziendale del 2009, stipulato – sul presupposto di quel regime – proprio per garantire ai lavoratori un numero minimo di giornate retribuite all’anno, fissato in 120.

Questo assetto consensuale di interessi – ossia con la sospensione concordata con tutti i dipendenti delle prestazioni lavorative nei giorni di chiusura del locale, ma con garanzia retributiva di almeno 120 giornate annuali – ha avuto pluriennale, collettiva e consensuale attuazione fino al 31/12/2015, come accertato in fatto dalla Corte territoriale. Quindi, per facta concludentia quel regime deve ritenersi si sia “incorporato” nell’ambito del contratto di lavoro di ciascun ricorrente, in quanto tradottosi in clausola stipulata tacitamente. Sussiste infatti l’univocità dei comportamenti negoziali, in considerazione sia della loro uniforme e prolungata durata nel tempo (per oltre venti anni), sia del loro carattere collettivo ossia generalizzato per tutti i dipendenti (il che esclude l’unilateralità dell’atto).

Ne deriva che per la riduzione di quel numero minimo di giornate retribuite non è sufficiente l’unilaterale determinazione del datore di lavoro, ma è necessario un ulteriore consenso dei lavoratori, proprio per tale ragione previsto dal successivo accordo sindacale aziendale di aprile 2016.

Tale consenso si impone, anche in relazione ad una modifica in melius, poiché il dipendente può aver riposto legittimo affidamento su quella sospensione concordata per compiere altre scelte, lavorative, personali o familiari, che potrebbero rivelarsi incompatibili con (o comunque pregiudicate da) una modifica (anche in melius) di quel regime.

Tale consenso modificativo – stando agli accertamenti di fatto compiuti dai giudici di merito – è mancato. Anzi, la Corte territoriale ha accertato che i giorni e gli orari di lavoro previsti dall’accordo sindacale del 2009 hanno avuto di fatto attuazione fra le parti anche dopo la disdetta datoriale (v. supra sub n), senza alcuna censura da parte dei ricorrenti. Ciò costituisce ulteriore conferma dell’avvenuta “incorporazione” di quel regime nei contratti individuali di lavoro sub specie di clausola tacitamente pattuita.

Pertanto, nel pervenire al rigetto integrale della domanda, la Corte territoriale ha errato nel non considerare quanto sopra, con conseguente parziale violazione della disciplina legale del part time, la cui conseguenza principale è la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro come full time, salva la possibile sospensione concordata delle prestazioni lavorative (e della retribuzione) negli esatti limiti in cui tale consenso si sia manifestato anche per facta concludentia.

La sentenza impugnata va di conseguenza cassata con rinvio, affinché sia esattamente determinato e liquidato il danno per le eventuali differenze retributive perdute, da calcolare non rispetto al full time, in realtà mai eseguito per volontà concorde delle parti, bensì tenendo conto della sospensione concordata della prestazione lavorativa e della retribuzione durante i giorni di chiusura del locale accompagnata dalla garanzia di almeno 120 giornate di retribuzione all’anno, garanzia divenuta componente necessaria di quella sospensione concordata come attuata negli anni, sulla base di un consenso manifestato per fatti concludenti.

Non è possibile invocare in tal senso un “uso aziendale” (modificabile anche con accordo aziendale: Cass. n. 31204/2021; Cass. n. 7395/2013; Cass. n. 17481/2009), poiché la nozione di tale uso, elaborata da questa Corte, è quella di una “reiterazione costante e generalizzata di un comportamento del datore di lavoro favorevole ai dipendenti”. Nel caso in esame, invece, si è al cospetto non di un comportamento unilaterale, né favorevole ai dipendenti, bensì, al contrario, di una clausola tacitamente e consensualmente pattuita, di segno sfavorevole in quanto volta a ridurre le corrispettive prestazioni lavorative e retributive pur nell’ambito di un rapporto di lavoro da qualificare giuridicamente come full time.

In sede di rinvio la Corte territoriale si atterrà dunque ai seguenti principi di diritto:

1) pur in presenza di un rapporto di lavoro subordinato full time, il datore di lavoro può provare sospensioni concordate delle prestazioni lavorative e delle correlative retribuzioni anche per facta concludentia;

2) una volta raggiunta la prova di tali sospensioni, esse si traducono in clausole tacite integrative del contratto individuale di lavoro full time;

3) una volta integrato in tal modo il contratto, eventuali modifiche successive di quelle sospensioni concordate richiedono un nuovo consenso del lavoratore e quindi non possono essere disposte né imposte unilateralmente dal datore di lavoro.

Ciò posto, diversamente dall’assunto dei ricorrenti va evidenziato che la costituzione in mora avvenuta con missiva dell’01/03/2016 non può essere intesa come “ripristinatoria” del full time e quindi idonea ad ottenere il risarcimento del danno pari alla quota di retribuzione mancante rispetto a quella spettante per il full time, come in via di principio affermato da questa Corte (Cass. n. 14797/2019). Vi osta la semplice ragione per cui il full time non ha mai avuto concreta attuazione, perché ab origine le parti hanno consensualmente concordato una sospensione delle prestazioni lavorative e delle corrispondenti retribuzioni nelle giornate di chiusura del locale. Quindi, logicamente prima che giuridicamente, non può essere “ripristinato” ciò che in concreto non è mai avvenuto. L’effetto ripristinatorio da ricollegare a quella costituzione in mora deve, allora, ritenersi limitato alla situazione anteriore al gennaio 2016 (data di efficacia della disdetta datoriale dell’accordo sindacale aziendale del 2009): un rapporto di lavoro subordinato full time connotato da sospensione concordata con tutti i dipendenti nei giorni di chiusura del locale, ma con garanzia di 120 giornate retribuite.

2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. i ricorrenti lamentano l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, rappresentato sia dalla missiva dell’01/03/2016, con cui ciascun lavoratore aveva costituito in mora la società, sia dalla disdetta dell’accordo sindacale aziendale intimata dalla società nell’ottobre 2015 e con effetto dall’01/01/2016.

Il motivo è assorbito dal parziale accoglimento del primo.

P.Q.M.

Accoglie per quanto di ragione il primo motivo del ricorso, dichiara assorbito il secondo, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, per l’accertamento e la liquidazione dell’eventuale danno, nonché per la regolamentazione anche delle spese del presente giudizio di legittimità.