CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 37453 depositata il 21 dicembre 2022
Lavoro – Risarcimento del danno differenziale da malattia professionale – Affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda – Responsabilità del committente ai fini dell’adempimento degli obblighi di sicurezza – Nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno – Inammissibilità
Considerato che
1. La Corte d’appello di Messina ha accolto l’appello principale delle società E. s.p.a., R.M. s.c.p.a. e S. s.r.l. e, in riforma della sentenza di primo grado, ha respinto la domanda proposta da M.A. e volta ad ottenere il risarcimento del danno differenziale da malattia professionale contratta nello svolgimento dell’attività lavorativa di montatore pontista dal 6.5.70 al 31.1.2001, alle dipendenze delle società appaltatrici S. s.p.a., S. s.r.l. e S.I. s.r.l.; nel contraddittorio anche con A.E. spa, E.I.L. (già P.A. spa, oggi H.I.A.) e G.A. s.p.a.
2. La Corte territoriale ha ritenuto adempiuti da E. s.p.a. gli obblighi di sicurezza, ai fini della sua responsabilità di committente a norma dell’art. 2087 c.c., sulla base della comunicazione ed attuazione degli strumenti di prevenzione e di protezione, con riguardo in particolare ai cd. “permessi di lavoro” per l’esecuzione delle attività in massima sicurezza nelle aree e nei reparti a maggiore rischio espositivo; ha accertato come l’A. avesse svolto l’attività lavorativa per tutta la durata del rapporto all’interno della R.M. dell’E. e per l’esecuzione di opere concesse in appalto dall’E. alle società di cui egli era dipendente; ha ritenuto che non vi fosse prova dell’esposizione del predetto a fibre di asbesto nello svolgimento delle mansioni di montatore pontista, in quanto attività preliminare alla manutenzione e alla riparazione e tale da non comportare un’esposizione continuata in zone con rischio di aerodispersione di fibre; ha ritenuto che vi fosse invece prova dell’abitudine al fumo dell’A. quale fattore di genesi del carcinoma diagnosticato.
3. Avverso tale sentenza C.L.R., G. e N.A., eredi di M.A., hanno proposto ricorso per cassazione affidato ad un unico motivo. E. s.p.a., R.M. s.c.p.a., G.I. s.p.a. hanno resistito con distinti controricorsi. Le altre parti sono rimaste intimate.
4. E. s.p.a. ha depositato memoria, ai sensi dell’art. 380 bis.1. c.p.c.
Rilevato che
5. Con l’unico motivo di ricorso è dedotta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c., violazione ed errata applicazione degli artt. 116 e 132 c.p.c., in relazione agli artt. 40 e 41 c.p., all’art. 2087 c.c., all’art. 7, d.lgs. 626 del 1994, ora art. 26, d.lgs. 81 del 2008, art. 3 D.P.R. 1124 del 1965, nonché per violazione degli artt. 2, 32 e 35 Cost.
6. Si censura la sentenza d’appello per avere negato il nesso causale, non osservando il criterio civilistico di ragionevole e adeguata probabilità, tra l’attività prestata dal lavoratore deceduto e la patologia contratta, invece ritenuta dal Tribunale sulla scorta di prove decisive e delle risultanze di c.t.u. medico-legale; si contesta la ricostruzione operata dai giudici d’appello sul contenuto dell’attività del montatore pontista e sulla complessiva situazione degli impianti ove è stata svolta l’attività dell’A.; si critica la sentenza impugnata per essersi dissociata dalle conclusioni dei consulenti tecnici e del giudice di primo grado individuando una diversa genesi della patologia neoplastica; si rileva come il massiccio impiego di amianto in raffineria non fosse negato dalle convenute proprietarie dell’impianto e risultasse attestato da apposite consulenze ambientali; si deduce che erano accertati la sussistenza di un ambiente polveroso, la mancata disponibilità di mascherine e di altre misure di prevenzione, la dispersione incontrollata di fibre presenti nell’ambiente, la non consapevolezza dell’esistenza del rischio, tutti elementi certi dell’esposizione dell’A., durante il periodo di lavoro, alle fibre di amianto; si criticano le considerazioni medico legali dei giudici d’appello poiché non in linea con gli studi epidemiologici sull’esposizione ad amianto e rischio di tumore e sull’integrazione tra il fumo e l’amianto nella genesi delle patologie.
7. E. s.p.a. e la R.M. s.c.p.a. hanno preliminarmente eccepito l’inammissibilità e l’improcedibilità del ricorso per non avere le ricorrenti provato la loro legittimazione ad agire. Si rileva come esse non abbiano partecipato ai precedenti gradi di giudizio, non abbiano fornito prova documentale del decesso del loro dante causa né di essere le uniche eredi; inoltre, che le singole procure speciali per il ricorso per cassazione siano state rilasciate senza alcuna menzione del decesso e della qualità di eredi.
8. L’eccezione non può trovare accoglimento atteso che la procura alla lite deve essere interpretata in relazione al contesto dell’atto cui accede e quindi il mandato alle liti deve essere letto come atto integrato dall’intestazione del ricorso, con la conseguenza che la mancanza nel solo mandato della veste in cui agisce la persona che conferisce l’incarico al difensore non è di sé sola causa di invalidità della procura (v. Cass. n. 5349 del 1998; Cass. n. 9491 del 2002). Nel caso in esame, la qualità di eredi delle attuali ricorrenti è chiaramente esplicitata nell’intestazione del ricorso per cassazione, cui accede la procura speciale priva invece di tale indicazione.
9. Il motivo di ricorso è inammissibile.
10. La Corte territoriale ha individuato i presupposti di responsabilità della committente E. s.p.a., in esatta applicazione dei principi di diritto regolanti la materia, secondo cui, ai sensi degli artt. 2087 c.c. e 7 del d.lgs. n. 626 del 1994 (di disciplina dell’affidamento di lavori in appalto all’interno dell’azienda), vigente ratione temporis, il committente, nella cui disponibilità permanga l’ambiente di lavoro, è obbligato ad adottare tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità e la salute dei lavoratori, ancorché dipendenti dell’impresa appaltatrice: consistenti nel fornire adeguata informazione ai singoli lavoratori circa le situazioni di rischio, nel predisporre quanto necessario a garantire la sicurezza degli impianti e nel cooperare con l’appaltatrice nell’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi sia al luogo di lavoro sia all’attività appaltata (Cass. 13 gennaio 2017, n. 798; Cass. 25 febbraio 2019, n. 5419).
11. In base a tali premesse, la Corte di merito ha escluso in concreto una responsabilità della committente, avendo accertato l’attuazione degli strumenti di protezione e prevenzione dei rischi connessi al luogo di lavoro e all’attività lavorativa, alla luce del condotto approfondimento delle modalità di svolgimento dell’attività lavorativa dell’A..
12. Come è noto, il lavoratore che agisca nei confronti del datore di lavoro per il risarcimento integrale del danno patito, a seguito di infortunio sul lavoro o malattia professionale, ha l’onere di provare il fatto costituente l’inadempimento ed il nesso di causalità materiale tra l’inadempimento e il danno, ma non anche la colpa della controparte, nei cui confronti opera la presunzione prevista dall’art. 1218 c.c. In particolare, nel caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge, o da altra fonte vincolante, cd. nominate, la prova liberatoria incombente sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore; viceversa, ove le misure di sicurezza debbano essere ricavate dall’art. 2087 c.c., cd. innominate, la prova liberatoria è generalmente correlata alla quantificazione della misura di diligenza ritenuta esigibile nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi l’onere di provare l’adozione di comportamenti specifici che siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tecniche, quali anche l’assolvimento di puntuali obblighi di comunicazione (Cass. 19 luglio 2007, n. 16003; Cass. 11 aprile 2013, n. 8855; Cass. 26 aprile 2017, n. 10319). E più specificamente, al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell’attività lavorativa svolta, un danno alla salute incombe l’onere di provare, oltre all’esistenza di tale danno, la nocività dell’ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l’una e l’altra (Cass. 8 ottobre 2018, n. 24742; Cass. 19 ottobre 2018, n. 26495; Cass. 6 novembre 2019, n. 28516).
13. Nel caso di specie, la Corte d’appello ha esattamente applicato i principi di diritto regolanti la materia e il criterio causale proprio del giudizio civile, ispirato alla regola di preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non” (Cass. 3 gennaio 2017, n. 47; Cass. 27 settembre 2018, n. 23197);
14. In base a tale criterio e in esito ad un accertamento fondato sulla critica e argomentata valutazione delle risultanze istruttorie complessivamente acquisite, essa ha escluso l’esistenza di alcun nesso, neppure concausale, tra il fattore lavorativo e la malattia contratta, per avere il lavoratore deceduto prestato la propria attività in ambienti non esposti ad amianto.
15. Non vi è spazio per configurare le violazioni di norme di legge denunciate, non essendo stata in realtà censurata l’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata dalle disposizioni di legge indicate nel motivo né dedotta la falsa applicazione della legge, che consiste nella sussunzione della fattispecie concreta in una qualificazione giuridica che non le si addice (v. Cass. 30 aprile 2018, n. 10320; Cass. 25 settembre 2019, n. 23851); trattandosi piuttosto di allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerente alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di motivazione (Cass. 11 gennaio 2016, n. 195; Cass. 13 ottobre 2017, n. 24155) oppure nei ristretti limiti del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c., qui non ricorrenti.
16. Le censure mosse si risolvono, nella sostanza, in una diversa interpretazione e valutazione delle risultanze processuali, insindacabili in sede di legittimità (Cass. 7 dicembre 2017, n. 29404; Cass. s.u. 27 dicembre 2019, n. 34476; Cass. 4 marzo 2021, n. 5987), siccome esclusivamente spettanti al giudice del merito, autore di un accertamento in fatto, argomentato in modo pertinente e adeguato a giustificare il ragionamento logico-giuridico alla base della decisione.
17. Per le ragioni esposte il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.
18. La regolazione delle spese del giudizio nei confronti delle parti controricorrenti segue il regime di soccombenza, con liquidazione come in dispositivo e raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (conformemente alle indicazioni di Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535). Non si provvede sulle spese nei confronti delle parti rimaste intimate.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso.
Condanna le ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità che liquida nei confronti di E. s.p.a. in € 3.000,00 per compensi professionali, nei confronti di R.M. s.c.p.a. e di G.I. s.p.a. in euro 2.500,00 ciascuna per compensi professionali, in € 200,00 per esborsi nei confronti di ciascuna parte controricorrente, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte delle ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.