CORTE di CASSAZIONE – Ordinanza n. 851 depositata il 9 gennaio 2024

Lavoro – Pensione di anzianità – Gestione commercianti – Somma dell’anzianità anagrafica e dell’anzianità contributiva – Meccanismo di computo – Accoglimento

Rilevato in fatto

che, con sentenza depositata il 22.2.2017, la Corte d’appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l’INPS a corrispondere a N.P. la pensione di anzianità con decorrenza dall’1.7.2011, invece che dal 1°.1.2012 già riconosciutogli in via amministrativa;

che avverso tale pronuncia l’INPS ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura;

che N.P. è rimasto intimato;

che, chiamata la causa all’adunanza camerale del 26.10.2023, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nel termine di giorni sessanta (articolo 380-bis.1, comma 2°, c.p.c.);

Considerato in diritto

che, con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione dell’art. 1, commi 1-2, l. n. 247/2007, e dell’art. 1, comma 6, lett. c), l. n. 243/2004, per avere la Corte di merito ritenuto che, al fine di stabilire in che modo le frazioni di anno incidano ai fini della quota numerica risultante dalla somma di anzianità anagrafica e anzianità contributiva, si dovesse far riferimento ai mesi trascorsi dal compimento dell’ultimo anno di età, computando 0,5 per ogni semestre, invece che ragguagliare le frazioni di anno in decimali di anno e sommare il risultato all’anzianità contributiva;

che, al riguardo, va premesso che la sentenza impugnata, nel rilevare che il diritto alla pensione di anzianità per gli iscritti alla Gestione commercianti matura, in forza dell’art. 1, l. n. 247/2007, al raggiungimento del coefficiente 96, risultante dalla somma dell’anzianità anagrafica e dell’anzianità contributiva, ha dato atto che l’odierno intimato, nato il 31.12.1949, alla data del 30.6.2010 aveva un’anzianità contributiva di 35 anni e sei mesi e ha reputato che i sei mesi trascorsi dal 31.12.2009 andassero computati in ragione di 0,5, reputando così integrato a tale data il coefficiente richiesto per il conseguimento della pensione (60,5+35,5=96) e applicando conseguentemente il regime del differimento in modo da assicurare la decorrenza della prestazione dal 1°.7.2011;

che tale meccanismo di computo è stato avversato dall’INPS sul rilievo che la Tabella B allegata alla legge n. 247/2007, cit., non contempla alcuna rilevanza dei mesi, per modo che, occorrendo piuttosto ragguagliare le frazioni di anno in decimali di anno e sommare il risultato così ottenuto all’età anagrafica, tale calcolo, nel caso di specie, avrebbe dovuto condurre ad affermare che l’odierno intimato aveva conseguito il requisito anagrafico utile solo il 2.7.2010, con conseguente differimento della pensione al 1°.1.2012;

che la doglianza è fondata, atteso che la Tabella B allegata alla legge n. 247/2007, nel prevedere che, per il periodo dall’1.7.2010 al 31.12.2010, la somma di età anagrafica e contributiva utile a conseguire la pensione di anzianità per i lavoratori autonomi debba essere pari a 96, indica espressamente i requisiti minimi in 35 anni di contribuzione e 60 anni d’età anagrafica, senza alcun riferimento ai mesi;

che, diversamente da quanto ritenuto dai giudici territoriali, reputa il Collegio che, in assenza di un preciso riferimento ai mesi (come invece previsto ad es. dall’art. 24, d.l. n. 201/2011, conv. con l. n. 214/2011), non sia consentito all’interprete di valorizzare il tempo trascorso dalla data dell’ultimo compimento dell’età anagrafica ragguagliandolo a mesi e non a giorni, dovendo al silenzio del legislatore attribuirsi il significato secondo cui ubi voluit dixit, ubi noluit tacuit (così da ult. Cass. n. 12649 del 2023, sulla scorta, tra le numerose, di Cass. nn. 1867 del 1982, 1248 del 1984, 5085 del 1991 e 20898 del 2007);

che a non diverse conclusioni induce il rilievo secondo cui, ove il riferimento fosse effettuato ai giorni, si determinerebbe un’ingiustificata disparità di trattamento tra chi matura tale diritto nel primo o nel secondo semestre dell’anno “per il semplice fatto che vi sono anni bisestili che non hanno 365 giorni” (così la sentenza impugnata, pag. 3), atteso che, come ben rilevato dall’INPS, il ragguaglio delle frazioni di anno in decimali di anno, che si effettua contando tutti i giorni di vita trascorsi dalla nascita fino alla data in cui occorre verificare il requisito anagrafico e dividendo il risultato per 365, costituisce piuttosto una modalità di computo sicuramente più favorevole agli assicurati, in ragione della possibilità di raggiungere prima il risultato più elevato facendo uguali a 365 anche gli anni bisestili, che contano invece 366 giorni;

che, non essendosi i giudici territoriali attenuti all’anzidetto principio di diritto, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione;

P.Q.M.

Accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.