Corte di Cassazione, ordinanza n. 8596 depositata il 27 marzo 2023
Il potere di indagine può essere esercitato, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti – il mancato esercizio non può essere oggetto di ricorso per cassazione neppure sotto il profilo del difetto di motivazione
RILEVATO CHE:
Secondo quanto si evince dalla sentenza impugnata, la M. srl, cessionaria di ramo d’azienda della Sacchifici Riuniti srl con atto di cessione del 12.12.2007, aveva ricevuto sei cartelle di pagamento relative a debiti tributari della cedente quale coobbligata solidale in forza dell’art. 14 d.lgs. n. 472 del 1997.
La società aveva impugnato tali cartelle, allegando la nullità dell’atto di cessione dichiarata dal Tribunale di Como con ordinanza ex art. 700 cpc in data 7.8.2013, e il relativo giudizio, rigettato il ricorso della contribuente tanto dalla Commissione Tributaria Provinciale (CTP) di Como quanto dalla Commissione Tributaria Regionale (CTR) della Lombardia, è attualmente pendente davanti a questa Corte.
Tuttavia, la M. srl ha avanzato istanza di annullamento in autotutela delle cartelle in ordine al quale si è formato il silenzio – diniego, impugnato dalla stessa contribuente.
La CTP Como, con sentenza n. 99/19, ha dichiarato inammissibile il ricorso, per violazione del ne bis in idem in quanto il ricorso era finalizzato a “reinvestire” il Giudice tributario della stessa questione oggetto del precedente giudizio attraverso l’”espediente” della sollecitazione di un provvedimento da impugnare.
La società ha proposto appello, rigettato dalla CTR Lombardia con la sentenza sopra indicata.
La CTR ha osservato che l’oggetto del petitum era il medesimo del giudizio pendente davanti alla Cassazione e che la diversità di questioni a fondamento dell’istanza di annullamento in autotutela- oltre alla contestazione della qualità di condebitore solidale, la contribuente ha rilevato, a fondamento dell’istanza, l’aggiunta a penna del suo nominativo sulla cartella di pagamento emessa a nome della cedente – non era rilevante perché tutti i motivi di illegittimità andavano dedotti e concentrati in un unico atto di impugnazione.
Avverso questa sentenza ha proposto ricorso per cassazione la M. srl che si è affidata a quattro mezzi e ha depositato memoria.
Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle Entrate Riscossione.
CONSIDERATO CHE:
1. Con il primo motivo la contribuente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., con il combinato disposto dell’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., lamentando l’omesso esercizio da parte della CTR del potere officioso di cui all’art. 7, cit., sollecitato dalla contribuente e finalizzato alla richiesta di informazioni e al deposito di documenti necessari ai fini decisori, in particolare del ruolo originario, onde verificare se esso si fosse realmente e correttamente formato nei suoi confronti.
Il motivo è inammissibile e comunque è infondato.
1.1 In primo luogo, il motivo difetta di chiarezza e specificità in quanto la ricorrente deduce la violazione dell’art. 7 comma 1 d.lgs. n. 564/1992 per aver sollecitato, senza esito, la richiesta di informazioni ovvero l’acquisizione di uno specifico documento, quale l’originale del ruolo, così assimilando le due fattispecie che, invece, vanno tenute ben distinte.
Solo la richiesta di informazioni e, più in generale, i poteri di indagine del giudice tributario sono riconducibili all’art. 7 comma 1, mentre per l’acquisizione di un documento sufficientemente individuato, a seguito dell’abrogazione dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. n. 546 del 1992, con il d.lgs. n. 203/2005 art. 3 bis, è consentito il potere il potere di ordinarne l’esibizione, ai sensi dell’art. 210 c.p.c. (Cass. n. 33506 del 2018).
Il potere di indagine può essere esercitato, nei limiti dei fatti dedotti dalle parti, qualora non si ritengano sufficienti gli elementi di giudizio risultanti dagli atti o già acquisiti (Cass. n. 4161 del 2014, l’esibizione di un documento ai sensi dell’art. 210 c.p.c. rimane subordinata, invece, alle molteplici condizioni di ammissibilità di cui agli artt. 118 e 210 c.p.c., nonché all’art. 94 disp. att. c.p.c. (Cass. n. 38062 del 2021).
La doglianza di omessa pronunzia, comunque, è senza pregio perché, trattandosi di poteri officiosi aventi carattere eccezionale e costituendo una deroga al principio dispositivo (Cass. n. 34393 del 2019; Cass. n. 27827 del 2018), essi rappresentano una facoltà discrezionale rimessa al prudente apprezzamento del Giudice, che non è obbligato ad esercitare ex officio i poteri istruttori di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 7 (Cass. n. 14244 del 2015); proprio con riguardo all’art. 210 c.p.c., si è affermato che egli non è tenuto ad indicare le ragioni per cui non ritiene di avvalersi di quel potere, il cui mancato esercizio non può essere oggetto di ricorso per cassazione neppure sotto il profilo del difetto di motivazione (Cass. n. 22196 del 2010; Cass. n. 31251 del 2021).
In ogni caso – come risulterà appresso – la causa può essere decisa senza necessità di ulteriori indagini né del documento richiesto.
2. Con il secondo motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c., violazione e falsa applicazione del principio del ne bis in idem in relazione all’art. 2 quater l. n. 564 del 1994 come modificato dall’art. 11 d.lgs. n. 159 del 2015, avendo la CTR erroneamente applicato il principio del ne bis in idem, in quanto i due giudizi (il presente e quello attualmente pendente davanti a questa Corte) hanno diverso oggetto e la pendenza del giudizio non impedisce l’esercizio del potere di autotutela da parte dell’Amministrazione.
Il motivo è inammissibile e comunque infondato.
2.1 Esistono elementi comuni tra il presente giudizio e quello attualmente pendente, in quanto entrambi i ricorsi sono fondati sulla asserita illegittimità delle cartelle di pagamento, di cui si chiede l’annullamento giudiziale (nel primo giudizio) e l’annullamento in autotutela (nel presente contenzioso) e la decisione è conforme alla consolidata giurisprudenza di questa Corte secondo cui «In tema di contenzioso tributario, il sindacato giurisdizionale sull’impugnato diniego, espresso o tacito, di procedere ad un annullamento in autotutela può riguardare soltanto eventuali profili di illegittimità del rifiuto dell’Amministrazione, in relazione alle ragioni di rilevante interesse generale che giustificano l’esercizio di tale potere, e non la fondatezza della pretesa tributaria, atteso che, altrimenti, si avrebbe un’indebita sostituzione del giudice nell’attività amministrativa o un’inammissibile controversia sulla legittimità di un atto impositivo ormai definitivo» (Cass. n. 7616 del 2018, Cass. n. 31063 del 2021, Cass. 3442 del 2015).
Questo principio non recede solo perché il giudizio impugnatorio dell’atto impositivo è ancora pendente, tanto più che l’istanza di annullamento in autotutela è stata motivata anche da ragioni che non erano state poste a fondamento dell’impugnazione.
La novità del motivo, rispetto a quelli dedotti nel giudizio di impugnazione delle cartelle, non conforta l’istanza di annullamento ma, anzi, costituisce un ulteriore profilo di inammissibilità della stessa. Infatti, come segnalato dai giudici di merito, tutti i motivi di illegittimità dell’atto vanno riportati nel ricorso, da proporsi a pena di decadenza entro il termine di cui all’art. 21 d.lgs. n. 546 del 1992, e dare la possibilità di invocare l’annullamento in autotutela in pendenza del giudizio impugnatorio, sulla base di motivi nuovi, consentirebbe di sottrarsi all’applicazione delle regole che governano il processo tributario.
3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 c.p.c., violazione del disposto dell’art. 36 bis d.P.R. n. 600 del 1973 e 54 bis d.P.R. n. 633 del 1972, in quanto il ruolo era stato formato nei confronti della Sacchifici Riuniti srl e poi notificato, con una aggiunta a penna, alla M. srl su iniziativa dell’Agenzia delle Entrate Riscossione che ha opposto un silenzio – rifiuto alle richieste della contribuente.
Il motivo è inammissibile in quanto non coglie la ratio decidendi: la CTR, infatti, non è entrata nel merito dei motivi di illegittimità delle cartelle di cui si chiede l’annullamento in autotutela, limitandosi ad osservare, correttamente, che tutte le questioni in ordine alla legittimità delle cartelle dovevano essere proposte nel giudizio impugnatorio in corso.
4. Con il quarto motivo deduce, ai sensi dell’art. 360 comma 1 nn. 3 e 5 c.p.c., violazione e mancata applicazione dell’art. 14 d.lgs. n. 546 del 1992, perché la CTR non aveva disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti dell’Agente della Riscossione.
La questione è palesemente infondata atteso che l’agente della riscossione era già parte del giudizio, come risulta dalla sentenza impugnata che, sull’istanza di integrazione del contraddittorio, osserva: «tale istanza è evidentemente da respingere per la superfluità dell’incombente a fronte di un contraddittorio ritualmente instaurato anche nel presente giudizio d’appello, con la notifica anche all’agente di riscossione dell’impugnazione nei confronti della sentenza di primo grado».
5. Conclusivamente, il ricorso deve essere rigettato.
6. Le spese devono essere regolate secondo soccombenza.
p.q.m.
rigetta il ricorso;
condanna la ricorrente al pagamento a favore della controricorrente della somma di euro 5.800,00 oltre spese prenotate a debito;
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13 , se spettante.
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