CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 dicembre 2021, n. 37801
Tributi – Accertamento – Reddito d’impresa – Costi indeducibili – Operazioni oggettivamente inesistenti – Fornitore privo di struttura organizzativa
Fatti di causa
La società contribuente E.I. SRL ha impugnato un avviso di accertamento, relativo al periodo di imposta dell’esercizio 2002, con il quale venivano accertate maggiori IRPEG, IRAP e IVA.
L’accertamento scaturiva da un PVC, nel quale si contestavano costi indeducibili relativi a operazioni inesistenti per fatture ricevute dalla società N.T. SRL, operante nel settore della commercializzazione di prodotti informatici, la quale aveva preso parte a una frode IVA.
Nell’atto impugnato si evidenziava che l’emittente della società contribuente non fosse dotata di struttura organizzativa, rilevandosi l’insussistenza di idonea documentazione inerente ai trasporti delle merci, nonché anomalie nella movimentazione delle stesse. La società contribuente ha dedotto che le operazioni fossero reali, avendo ceduto la merce in oggetto ai propri clienti, deducendo altresì l’estraneità alla frode IVA.
La CTP di Milano ha rigettato il ricorso; la CTR della Lombardia, con sentenza in data 14 gennaio 2013, ha rigettato l’appello della società contribuente. Ha ritenuto il giudice di appello che la società contribuente non ha dato la prova dell’esistenza delle operazioni sottostanti, non essendo sufficiente al riguardo l’esibizione degli strumenti di pagamento, né essendovi prova del fatto che la merce acquistata dalla contribuente fosse stata rivenduta ai propri clienti. Il giudice di appello ha, poi, osservato che la società contribuente avesse operato come «secondo vertice» di una serie di società prive di organizzazione (magazzino, mezzi di trasporto e personale), evidenziando come il margine applicato fosse inadeguato («minimale»). Ha, poi, osservato la CTR che il legale rappresentante non avesse dato indicazioni su quali fossero i referenti delle società subacquirenti, oltre a rimarcare l’assenza di «contatti cartacei» tra gli operatori della catena distributiva.
Propone ricorso per cassazione la società contribuente, affidato a sette motivi, ulteriormente illustrati da memoria; resiste con controricorso l’Ufficio.
Il ricorso è stato trattato in camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dall’art. 23, comma 8-bis, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, come inserito dalla l. 18 dicembre 2020, n. 176, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., nullità del procedimento e della sentenza anche in relazione agli artt. 112 cod. proc. civ., 111 e 24 Cost. Osserva il ricorrente, sotto un primo profilo, che la sentenza impugnata avrebbe immotivatamente rigettato gli elementi addotti dalla ricorrente (quali il fatto che i prodotti acquistati fossero state rivenduti ai propri clienti, l’esistenza di un ricarico quale indice di esistenza dell’operazione sottostante, gli esiti del procedimento penale, l’attinenza dei fatti dedotti dall’Ufficio in relazione al dante causa a un successivo periodo di imposta). Sotto un secondo profilo, il ricorrente osserva che la sentenza impugnata avrebbe ritenuto non provate le vendite ai propri clienti sulla base di un assunto – il mancato riscontro delle merci rinvenute dalla contribuente presso i clienti con quelle acquistate, con conseguente deduzione da parte della CTR che le merci rinvenute presso i clienti della contribuente fossero state acquistate da altri fornitori – non oggetto di contraddittorio tra le parti e, quindi, in extrapetizione.
1.2. Con il secondo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 36 d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, per assenza di motivazione, basandosi la sentenza su argomenti «ipotetici» non oggetto di contraddittorio in relazione alla mancata prova della corrispondenza tra prodotti acquistati e prodotti venduti ai clienti.
1.3. Con il terzo motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione o falsa applicazione dell’art. 4-bis l. 24 dicembre 1993, n. 537, come novellato dall’art. 8, primo comma, d.l. 2 marzo 2012, n. 16, nonché dell’art. 8, secondo comma, d.l. n. 16/2012, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che le operazioni sottostanti fossero inesistenti. Denuncia il ricorrente che il giudice di appello avrebbe implicitamente accertato che le operazioni sarebbero soggettivamente inesistenti, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che le merci rivendute al cliente fossero state acquistate non dalla N.T. SRL ma da altro fornitore.
1.4. Con il quarto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., violazione dell’art. 19 d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, nonché degli artt. 167, 168, lett. a), 220, punti 1, 226 e 273 della Direttiva 2006/112/CE. Osserva il ricorrente che, a seguito proscioglimento del legale rappresentante in sede penale per avere questi fornito la prova della regolare vendita di prodotti informatici ai propri clienti, non possa essere richiesta alla società contribuente in sede tributaria una ulteriore prova della propria estraneità al circuito fraudolento, pena il contrasto con la normativa e la giurisprudenza eurounitaria.
1.5. Con il quinto motivo si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., violazione e/o falsa applicazione dell’art. 39 d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e dell’art. 54 d.P.R. n. 633/1972, degli artt. 2697 e 2727 cod. civ. in relazione al divieto di praesumptio de praesumpto. Osserva il ricorrente che l’atto impugnato, redatto con metodologia analitico-induttiva, non poggerebbe su elementi di fatto dotati di pregnanza indiziaria, stante la prova della regolarità contabile e di magazzino, anche in relazione ai mastri clienti della ricorrente, per cui la valorizzazione di tali elementi costituirebbe doppia presunzione, vietata dall’ordinamento.
1.6. Con il sesto motivo, sul presupposto della inapplicabilità del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. dalla l. 7 agosto 2012, n. 134 alle sentenze delle Commissioni tributarie, si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., omessa o insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza impugnata, nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto che le operazioni sottostanti fossero fittizie, alla luce del fatto che – come il ricorrente deduce di avere allegato nei due gradi di merito – la anomalia riscontrata dagli agenti verificatori in sede di PVC riguarderebbe una sola consegna e sarebbe riconducibile a un errore di trascrizione, così come sarebbe carente la motivazione in ordine alla posizione rivestita dalla contribuente nella catena distributiva e al rilievo del margine conseguito dalla società contribuente.
1.7. Con il settimo motivo, si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, costituito dalla inclusione della ricorrente nella frode fiscale senza esaminare gli elementi addotti dalla contribuente a prova contraria e, in particolare, gli esiti del procedimento penale.
2. Il primo, il secondo e il sesto motivo, i quali possono essere trattati congiuntamente, sono infondati. Va in primo luogo ribadito che il sindacato di legittimità sulla motivazione resta circoscritto alla sola verifica della violazione del minimo costituzionale richiesto dall’art. 111, sesto comma, Cost., individuabile nelle ipotesi di violazione dell’art. 132, secondo comma, n. 4, cod. proc. civ. con conseguente nullità della sentenza per mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale (Cass., Sez. III, 12 ottobre 2017, n. 23940; Cass., Sez. U., 7 aprile 2014, n. 8053), che ricorre nel caso in cui la motivazione risulti del tutto inidonea ad assolvere alla funzione specifica di esplicitare le ragioni della decisione (Cass., VI, 25 settembre 2018, n. 22598).
Ugualmente, al fine di assolvere l’onere di adeguatezza della motivazione, il giudice di appello non è tenuto ad esaminare tutte le allegazioni delle parti, essendo necessario e sufficiente che egli esponga concisamente le ragioni della decisione così da doversi ritenere implicitamente rigettate tutte le argomentazioni logicamente incompatibili con esse (Cass., Sez. VI, 2 dicembre 2014, n. 25509; Cass., Sez. III, 20 novembre 2009, n. 24542), senza che sia necessaria l’analitica confutazione delle tesi non accolte o la disamina degli elementi di giudizio non ritenuti significativi (Cass., Sez. V, 2 aprile 2020, n. 7662; Cass., Sez. V, 30 gennaio 2020, n. 2153). Sotto questo profilo, deve rilevarsi che la sentenza impugnata ha espressamente rigettato alcuni elementi addotti a prova contraria dalla società contribuente (la vendita effettiva dei prodotti acquistati dalla società filtro ai propri clienti, l’esistenza di un ricarico, come anche l’esistenza di strumenti di pagamento) e, per altro verso, ha ritenuto altri elementi non decisivi (esiti del procedimento penale, attinenza dei fatti dedotti dall’Ufficio in relazione al dante causa in relazione a un successivo periodo di imposta), ritenendo non provato, sotto il profilo oggettivo, che i prodotti che la società contribuente assumeva essere stati rinvenuti presso i propri clienti fossero quelli indicati dall’Ufficio come acquistati presso la società filtro, osservando, poi, come non vi fossero stati «contatti cartacei» tra i vari operatori commerciali (ma solo telefonici), nonché valorizzando, sotto il profilo soggettivo, il ruolo di «secondo vertice» assunto dalla società contribuente in relazione a una catena distributiva che comprendeva società prive di organizzazione. La motivazione del giudice di appello appare logica e compiuta.
3. Quanto, poi, alla dedotta extrapetizione, secondo cui la circostanza in fatto che non vi sarebbe riscontro delle merci rinvenute dalla contribuente presso i clienti con quelle acquistate dalla società filtro sarebbe stata assunta di iniziativa del giudice e risulterebbe meramente ipotetica (questione su cui il ricorrente ritorna in memoria), va ribadito il costante orientamento di questa Corte, secondo cui il giudice di appello incorre nel vizio di extrapetizione quando attribuisce alla parte un bene non richiesto in quanto non compreso neppure implicitamente nelle deduzioni o allegazioni e non anche quando ponga a fondamento della decisione esiti documentali del giudizio di primo grado che si offrono alla sua valutazione, in quanto legittimamente acquisiti al preventivo e potenziale contraddittorio (Cass., Sez. I, 7 maggio 2019, n. 12014); ovvero quando il giudice di merito, alterando gli elementi obiettivi dell’azione (petitum o causa petendi), emetta un provvedimento diverso da quello richiesto (petitum immediato) oppure attribuisca o neghi un bene della vita diverso da quello conteso (petitum mediato), così pronunciando oltre i limiti delle pretese o delle eccezioni fatte valere dai contraddittori (Cass., Sez. V, 28 gennaio 2021, n. 1896; Cass., Sez. II, 21 marzo 2019, n. 8048; Cass., Sez. III, 24 settembre 2015, n. 18868).
4. Nella specie, il giudice di appello ha esaminato gli atti e i documenti di causa e ha dato una valutazione, come gli spettava quale giudice del merito, degli elementi documentali acquisiti agli atti del giudizio («gli operanti hanno avuto non poche difficoltà a far collimare i codici articoli giacenti presso la Brevi con quelli acquistati dalla Emeaa in quanto tali beni non sono indicati nelle fatture di acquisto con un codice o con un numero identificativo ma solo con la descrizione del prodotto»), traendo implicitamente la conclusione che le merci rinvenute presso i clienti non fossero quelle oggetto dell’accertamento dell’Ufficio. Né l’erronea valutazione delle prove e la dedotta violazione del principio di non contestazione è censurabile con la violazione del principio di ultrapetizione.
5. Il terzo motivo è infondato. L’applicazione dello ius superveniens di cui all’art. 8, comma 1, d.l. 2 marzo 2012, n. 16 è invocabile in relazione ai costi soltanto in caso di operazioni soggettivamente inesistenti e non anche in caso di operazioni oggettivamente inesistenti (Cass., Sez. V, 19 dicembre 2019, n. 33915), posto che i costi delle operazioni soggettivamente inesistenti – siano o meno inseriti in una cd. frode carosello – sono deducibili per il solo fatto che siano stati sostenuti, anche nell’ipotesi in cui l’acquirente sia consapevole del carattere fraudolento delle relative operazioni, salvo che si tratti di costi in contrasto con i principi di effettività, inerenza, competenza, certezza, determinatezza o determinabilità, ovvero di costi relativi a beni o servizi direttamente utilizzati per il compimento di un delitto non colposo (Cass., Sez. V, 12 dicembre 2019, n. 32587). Ne consegue che, avendo il giudice di appello accertato che le operazioni fossero oggettivamente inesistenti (in assenza dell’accertamento della corrispondenza delle merci effettivamente rinvenute presso i clienti, come invano dedotto dalla società contribuente, con quelle oggetto dell’accertamento), la deducibilità dei costi non è applicabile al caso di specie.
6. Il motivo è, invece, inammissibile per violazione dell’art. 366, primo comma, nn. 3, 4 e 6, cod. proc. civ., in relazione alla dedotta applicazione dello ius superveniens di cui all’art. 8, comma 2, d.l. n. 16/2012, secondo cui «ai fini dell’accertamento delle imposte sui redditi non concorrono alla formazione del reddito oggetto di rettifica i componenti positivi direttamente afferenti a spese o altri componenti negativi relativi a beni o servizi non effettivamente scambiati o prestati, entro i limiti dell’ammontare non ammesso in deduzione delle predette spese o altri componenti negativi». Il ricorrente ha, difatti, omesso di indicare specificamente quali fossero i ricavi correlati alle dedotte operazioni inesistenti, limitandosi a richiamare la norma di legge senza alcun corredo argomentativo. Lo stesso ricorrente si è limitato, nel motivo, a ribadire che «l’eventualità considerata in sentenza (…) che le merci possano essere state acquistate non dalla N.T. ma da altro soggetto, darebbe luogo al più ad operazioni eventualmente soggettivamente inesistenti» dimostra come sia stato posto l’accento sul recupero dei costi e non sui ricavi, come si evince anche dal richiamo da parte del ricorrente a Cass., Sez. V, 22 maggio 2013, n. 12503, relativa alla deducibilità dei costi.
7. Il quarto motivo è infondato. Stante l’autonomia tra processo penale e processo tributario, nonché stante la diversità sia dei mezzi di prova esperibili in ciascun giudizio, sia dei criteri di valutazione del processo tributario rispetto a quello penale, il giudice tributario, nel verificare se il contribuente fosse consapevole dell’inserimento dell’operazione in un’evasione di imposta, non può riferirsi alle sole risultanze del processo penale, ancorché riguardanti i medesimi fatti;
diversamente, il giudice tributario, nell’esercizio dei suoi poteri, è tenuto a valutare tali circostanze sulla base del complessivo materiale probatorio acquisito nel giudizio, non potendo attribuirsi alla sentenza penale irrevocabile su reati tributari alcuna automatica autorità di cosa giudicata, attesa l’autonomia dei due giudizi (Cass., Sez. V, 4 dicembre 2020, n. 27814; Cass., Sez. VI,24 novembre 2017, n. 28174). Né può desumersi alcuna violazione del divieto del bis in idem, non operando tale principio tra valutazione operata in sede penale e nuova valutazione in sede tributaria (Cass., Sez. V, 1° aprile 2021, n. 9077). La sentenza impugnata non si è sottratta all’applicazione dei suddetti principi.
8. Il quinto motivo, come condivisibilmente osservato dal Pubblico Ministero, è inammissibile. Il ricorrente, pur denunciando formalmente le norme in tema di accertamento, di valutazione delle prove e di distribuzione dell’onere della prova, mira a una rivalutazione del ragionamento decisorio che ha portato il giudice del merito a ritenere provato il coacervo indiziario che ha portato l’Ufficio a elevare un accertamento con metodologia analitico-induttiva. Così facendo il ricorrente, pur deducendo apparentemente, una violazione di norme di legge, mira, in realtà, alla rivalutazione dei fatti operata dal giudice di merito, così da realizzare una surrettizia trasformazione del giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, terzo grado di merito (Cass., Sez. VI, 4 luglio 2017, n. 8758), giungendo a rimettere in discussione la concreta applicazione operata dal giudice di merito sulla pregnanza del corredo indiziario e a questi riservata (Cass., Sez. I, 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., Sez. I, 14 gennaio 2019, n. 640; Cass., Sez. I, 13 ottobre 2017, n. 24155; Cass., Sez. V, Sez. 5, 4 aprile 2013, n. 8315), il cui apprezzamento, al pari di ogni altro giudizio di fatto, può essere esaminato in sede di legittimità soltanto sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass., Sez. VI, 3 dicembre 2019, n. 31546; Cass., Sez. U., 5 maggio 2006, n. 10313; Cass., Sez. VI, 12 ottobre 2017, n. 24054).
9. Analogamente, va osservato che l’accertamento con metodologia analitico-induttiva procede dall’esame di una contabilità formalmente regolare, dalla quale possa comunque trarsi il giudizio di sostanziale o complessiva inattendibilità, sulla base di elementi che consentano di accertare, in via presuntiva, maggiori ricavi (Cass., Sez. V, 11 aprile 2018, n. 8923). Non è, pertanto, la gravità delle irregolarità a denotare il corretto ricorso o meno alla metodologia analitica-induttiva, bensì la gravità dei numerosi elementi indiziari, riscontrati dall’Ufficio e valorizzati dal giudice di appello, dai quali trarre la complessiva inattendibilità dei dati contabili (Cass., Sez. V, 12 dicembre 2018, n. 32129; Cass., Sez. V, 13 luglio 2018, n. 18695), elementi che si sarebbero anche potuti identificare in un unico grave elemento indiziario (Cass., Sez. V, 14 ottobre 2020, n. 22184).
10. Il settimo motivo è inammissibile, non tanto sul presupposto, dedotto dal controricorrente, secondo cui dovrebbe applicarsi il disposto dell’art. 348-ter cod. proc. civ., posto che il processo di appello è anteriore all’11 settembre 2012 (appello depositato ex artt. 22, 53 d. lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 in data 7 febbraio 2012 e, quindi, ancor prima notificato). Diversamente, va osservato che il motivo difetta dei requisiti indicati dall’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., non essendo stato indicato il fatto storico, non potendo tale fatto essere costituito dall’omesso esame degli elementi di prova addotti dalla ricorrente (tra cui gli esiti del procedimento penale), dovendosi riferire il fatto storico a un accadimento o una precisa circostanza in senso storico-naturalistico (Cass., Sez. VI, 6 settembre 2019, n. 22397; Cass., Sez. V, 3 ottobre 2018, n. 24035), circostanza non sussumibile nell’omesso esame di prove, come anche degli esiti di un procedimento penale (che è una valutazione e non un fatto), così come non sono stati indicati né il luogo processuale, né è stato formulato il giudizio di decisività.
11. Il ricorso va, pertanto, rigettato, con spese regolate dalla soccombenza e liquidate come da dispositivo, oltre al raddoppio del contributo unificato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida in € 7.800,00, oltre spese prenotate a debito; dà atto che sussistono i presupposti processuali, a carico di parte ricorrente, ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. 24 dicembre 2012, n. 228, per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.