CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 01 marzo 2019, n. 6118
Tributi – Società – Gruppo – Controllante – Acquisto di azioni – Diritti di opzione – Rivalutazione dei titoli
Fatti di causa
Nel corso del 2004, L.F., dipendente della società A. s.p.a., riceveva i diritti di opzione, non cedibili a terzi, per l’acquisto di azioni della società di diritto lussumburghese A.I. S.A., controllante della A. s.p.a., ad un prezzo pari al valore delle azioni al momento dell’offerta, ossia ad euro 148.750,00, con facoltà di esercizio dei diritti di opzione ad una determinata scadenza.
Nell’anno 2005, avvalendosi della riapertura dei termini per la rivalutazione di titoli, quote e diritti non negoziati posseduti al 1 gennaio 2005, ai sensi dell’art. 11-quaterdecies, comma 4, del d.l. n. 203/2005, convertito con legge n. 248/2005, procedeva alla rivalutazione dei diritti di opzione in base a perizia di stima ed al successivo versamento di imposta sostitutiva, fissandone in tal modo il valore fiscalmente riconosciuto in euro 289.560,00.
In data 15 dicembre 2006, L.F. esercitava i diritti di opzione e contestualmente rivendeva le azioni ottenute al maggior prezzo di euro 864.568,78, importo che la società datrice di lavoro, ai sensi dell’art. 51, comma 2, lett. g-bis, del t.u.i.r., nella formulazione vigente a seguito delle modifiche introdotte dal d.l. n. 262/2006, convertito in legge n. 286/2006, assoggettava, per il periodo d’imposta 2006, alla ritenuta Irpef calcolata sulla differenza tra il prezzo di vendita delle azioni ed il valore delle azioni al momento della assegnazione dei diritti di opzione, imputando tale incremento di valore a redditi da lavoro dipendente.
Il contribuente, ritenendo applicabile il diverso regime agevolato delle stock options vigente nel 2004 al momento dell’assegnazione dei diritti di opzione, in data 30 maggio 2008 presentava istanza di rimborso all’Agenzia delle Entrate, chiedendo, in via principale, il rimborso della maggiore somma pari alla differenza tra l’Irpef pagata sul differenziale “prezzo di vendita-prezzo di esercizio delle opzioni” e l’imposta sostitutiva del 12,50 per cento applicabile sulla plusvalenza determinata dalla differenza tra il prezzo di vendita delle azioni ed il prezzo di esercizio delle opzioni, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione effettuata nel 2005; in via subordinata, chiedeva il rimborso della maggiore somma pari alla differenza fra l’Irpef versata sul differenziale “prezzo di vendita-prezzo di esercizio delle opzioni” e l’Irpef dovuta sullo stesso differenziale, aumentato del valore fiscalmente riconosciuto derivante dalla rivalutazione operata nel 2005.
Decorsi novanta giorni dal deposito della istanza, il contribuente impugnava il silenzio rifiuto formatosi, deducendo che non era applicabile la nuova disciplina risultante dalle modifiche apportate all’art. 51, comma 2, lett. g-bis, del t.u.i.r. dal d.l. n. 262/2006, convertito dalla legge n. 286/2006, e, ribadendo le domande già proposte con l’istanza di rimborso, chiedeva che venisse anche riconosciuto il valore fiscale derivante dalla rivalutazione effettuata nel 2005, pena la violazione del divieto di doppia imposizione previsto dall’art. 163 del t.u.i.r.
La Commissione tributaria provinciale accoglieva la domanda subordinata del ricorso e respingeva quella principale, ritenendo che le intervenute modifiche operate dal legislatore non avessero consentito al contribuente alcuna possibilità di adeguamento.
Interposto appello principale dall’Ufficio ed appello incidentale dal contribuente, il quale insisteva per l’accoglimento della domanda formulata in via principale, e, in subordine, per la conferma della sentenza di primo grado, la Commissione regionale, accogliendo l’appello della Agenzia delle Entrate, rigettava il ricorso introduttivo del contribuente, rilevando che per effetto del d.l. n. 262/2006, convertito in legge n. 286/2006, l’art. 51, comma 2, lett. g-bis del t.u.i.r. subordinava l’accesso all’agevolazione fiscale alla ricorrenza di cinque condizioni e che poiché alla data del 15 dicembre 2006, in cui il contribuente aveva esercitato i diritti di opzione ottenendo le azioni poi vendute, risultavano soddisfatte solo due condizioni, il datore di lavoro correttamente aveva assoggettato a ritenuta Irpef, quale reddito da lavoro dipendente, l’incremento di valore delle azioni derivante dall’esercizio del diritto di opzione.
I giudici di appello disattendevano anche la domanda volta ad ottenere il riconoscimento della rivalutazione fiscale ottenuta nel 2005, osservando che:
a) la disposizione dettata dall’art. 5 della legge n. 448/2001, che, in seguito alla riapertura dei termini di cui alla legge n. 248/2005, consentiva ai contribuenti di rideterminare i valori di acquisto di titoli, quote o diritti posseduti alla data del 1° gennaio 2005, non risultava applicabile al caso di specie per il fatto che il contribuente nell’anno 2005 non aveva ancora esercitato il diritto di opzione e non poteva, di conseguenza, essere ritenuto acquirente o detentore di tali diritti; b) la perizia di stima del valore del Gruppo A., a firma del prof. A. A., non risultava “giurata”, come prescritto dall’art. 5, comma 1, della legge n. 448/2001; c) non risultava effettuato il pagamento dell’imposta sostitutiva.
Avverso la decisione di secondo grado ricorre per cassazione L.F., affidandosi a tre motivi.
L’Agenzia delle Entrate resiste mediante controricorso.
Il contribuente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo violazione e/o falsa applicazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992, il ricorrente reitera l’eccezione d’inammissibilità dell’appello principale proposto dall’Ufficio per violazione dell’art. 53, comma 1, del d.lgs. n. 546/1992, rigettata dalla Commissione regionale, sottolineando che, nella specie, l’assenza di motivi specifici d’impugnazione è stata riconosciuta sia dalla stessa Agenzia delle Entrate, la quale aveva affermato «lo Scrivente non può fare altro che sottoporre alla Commissione Tributaria regionale le stesse osservazioni, in fatto ed in diritto, di cui al primo grado di giudizio», sia dalla stessa Commissione, la quale ha riconosciuto che «l’Agenzia non ha potuto fare altro che riproporre le difese svolte in primo grado non esaminate dal primo giudice».
1.1. La censura è infondata.
1.2. I giudici d’appello hanno disatteso l’eccezione d’inammissibilità dell’appello principale « sul rilievo assorbente che è alquanto problematico rinvenire nella sentenza impugnata una motivazione che dia conto delle ragioni sottese alla decisione pure con riferimento all’accoglimento della domanda subordinata, sicchè l’Agenzia non ha potuto fare altro che riproporre le difese svolte in primo grado non esaminate dal primo giudice che non si è dato carico neppure di esaminare le difese svolte dal contribuente che le ripropone in questo grado con l’appello incidentale ».
1.3. La decisione resa dalla Commissione regionale è aderente all’orientamento giurisprudenziale di questa Corte.
Infatti, con riferimento alla specificità dei motivi di appello, premesso che l’art. 53 del d.lgs. n. 546/1992 si pone come norma speciale rispetto all’art. 342 cod. proc. civ., questa Corte ha chiarito che nel processo tributario, «ove l’Amministrazione finanziaria si limiti a ribadire e riproporre in appello le stesse ragioni ed argomentazioni poste a sostegno della legittimità del proprio operato, come già dedotto in primo grado, in quanto considerate dalla stessa idonee a sostenere la legittimità dell’avviso di accertamento annullato, è da ritenersi assolto l’onere d’impugnazione specifica previsto dall’art. 53 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. n. 7369 del 22/03/2017; Cass. n. 24641 del 5/10/2018), secondo il quale il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi” atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo d’impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito » (Cass. n. 3064 del 29/2/2012; n. 27497 del 30/12/2016; n. 16037 del 27/6/2017).
1.4. Si è anche affermato che in tema di contenzioso tributario è inammissibile, per difetto di specificità dei motivi, l’atto di appello che, limitandosi a riprodurre le argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado, senza il minimo riferimento alle statuizioni di cui è chiesta la riforma, non contenga alcuna parte argomentativa che miri a contestare il percorso logico-giuridico della sentenza impugnata (Cass. n. 1461 del 20/1/2017).
1.5. Nella specie, tuttavia, l’Agenzia delle Entrate, come rilevato dalla Commissione regionale, non si è limitata a richiamare le argomentazioni difensive già fatte valere in primo grado, non esaminate dai giudici di primo grado, ma ha anche lamentato il difetto di motivazione della sentenza pronunciata dalla Commissione provinciale per violazione dell’art. 36 del d.lgs. n. 546/1992, evidenziando in tal modo che la sentenza oggetto di gravame non esplicitava il percorso logico-giuridico posto dalla Commissione provinciale a fondamento del proprio convincimento e non consentiva, pertanto, di muovere contestazioni ulteriori e diverse da quelle già fatte valere in primo grado.
Deve, pertanto, ritenersi che quanto dedotto in appello dall’Ufficio assolve senz’altro l’onere di specificità di cui all’art. 53 del d.lgs. n. 546/1992.
2. Con il secondo motivo di ricorso – rubricato: “violazione e/o falsa applicazione, ex art. 360 n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 1, comma 1, e dell’art. 3, comma 1, secondo periodo, della l. n. 212/2000 (Statuto del contribuente) in relazione all’art. 51, comma 2, lett. g-bis, del d.P.R. n. 917/1986, nella formulazione ratione temporis applicabile” – il ricorrente censura la sentenza nella parte in cui identifica il verificarsi del presupposto applicativo della disciplina agevolativa nel momento di esercizio del diritto di opzione e di assegnazione delle azioni e non in quello, anteriore, di adesione del beneficiario al piano di stock option.
Premettendo che la disposizione di riferimento è l’art. 51, comma 2, lett. g-bis) del t.u.i.r. e che la questione controversa attiene alla disciplina applicabile al plusvalore determinato dalla differenza tra il prezzo di vendita delle azioni ed il prezzo di esercizio dei diritti di opzione al momento della loro attribuzione, precisa che nel corso del 2004, la citata disposizione, al momento dell’attribuzione dei diritti di opzione, escludeva dalla formazione del reddito di lavoro dipendente l’incremento di valore delle azioni generatosi fra il momento di attribuzione dei diritti di opzione ed il momento di esercizio degli stessi, per cui l’incremento di valore era imponibile solo al momento successivo della vendita delle azioni ottenute mediante l’esercizio dei diritti di opzione, scontando la tassazione del 12,5 per cento prevista per i capital gain, e l’accesso al regime agevolativo era subordinato al rispetto di due condizioni, ossia a) che l’ammontare corrisposto dal beneficiario per l’esercizio dell’opzione fosse «almeno pari» al valore delle azioni al momento dell’offerta; b) che le partecipazioni possedute dal beneficiario non rappresentassero una percentuale dei diritti di voto esercitabili nell’assemblea ordinaria o di partecipazione al capitale o al patrimonio superiore al 10 per cento.
Nel corso del 2006 la disciplina è stata oggetto di tre diversi interventi di modifica: a) con il primo, introdotto dal d.l. n. 223/2006, ne è stata sancita l’abrogazione, con la conseguenza che è stato attratto a tassazione ordinaria, come reddito da lavoro dipendente, l’incremento di valore prima escluso; b) con il secondo intervento, per effetto della legge n. 248/2006 di conversione del d.l. n. 223/2006, la disciplina prima abrogata è stata reintrodotta, con l’aggiunta di due nuove condizioni applicative (per cui era anche richiesto che: 1) le azioni ricevute non fossero cedute o costituite in garanzia nei cinque anni successivi alla data di assegnazione 2) il valore delle azioni assegnate non superasse l’importo della retribuzione lorda annua relativa al periodo di imposta precedente a quello di assegnazione); c) con il terzo intervento, ossia con il d.l. n. 262/2006, come convertito dalla legge n. 286/2006, sono state mantenute le due condizioni di accesso alla disciplina agevolativa previste nell’originario regime e sono state introdotte ulteriori tre condizioni, ossia 1) il mantenimento, nei cinque anni successivi alla data di assegnazione, di un investimento delle azioni ricevute almeno pari alla differenza tra il valore normale delle azioni al momento dell’assegnazione e l’ammontare corrisposto dal beneficiario; 2) l’esercitabilità dell’opzione «non prima» che siano scaduti tre anni dalla sua attribuzione; 3) la quotazione delle azioni oggetto delle stock options quando l’opzione diviene esercitabile. Riconoscendo che, al momento dell’esercizio del diritto di opzione, avvenuto il 15 dicembre 2006, nel caso in esame risultavano pienamente integrate le due condizioni previste nell’originario regime, mentre non risultavano presenti le altre condizioni risultanti dal d.l. n 262/2006, il ricorrente sostiene che, in assenza di una «disciplina transitoria» o di una «disposizione analoga» sulla decorrenza in deroga espressa all’art. 3, comma 1, dello Statuto dei diritti del contribuente, la nuova disciplina risultante dal citato d.l. n. 262/2006 non era applicabile ai cd. “piani in corso”, ossia ai piani di stock options già deliberati alla data di entrata in vigore del nuovo regime fiscale risultante dall’ultimo intervento di modifica, ma i cui diritti di opzione non erano stati ancora esercitati dal dipendente, trattandosi di disposizioni che disciplinavano solo i diritti di opzione esercitati dopo la sua entrata in vigore (3 ottobre 2006), ma a partire dal periodo di imposta 2007, ossia il primo successivo a quello in corso al momento di entrata in vigore delle modifiche, come previsto dal richiamato art. 3, comma 1, legge n. 212/2000, con conseguente operatività nel caso di specie dell’art. 51, comma 2, lett. g-bis) del t.u.i.r. nella formulazione vigente fino al 4 luglio 2006.
A sostegno della tesi contraria a quella assunta dal giudice regionale, evidenzia, in primo luogo, che la fattispecie in esame è sicuramente regolata dall’art. 3, comma 1, ultimo periodo dello Statuto dei diritti del contribuente, che costituisce una clausola generale che, in mancanza di una «deroga espressa» all’interno della normativa fiscale di modifica, distingue l’efficacia dall’entrata in vigore, rinviando l’efficacia della disposizione modificativa al primo periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore, con la conseguenza che il d.l. n. 262/2006, pur essendo pienamente vigente al momento in cui è stato esercitato il diritto di opzione (perché entrato in vigore il 3 ottobre 2006), non poteva spiegare efficacia se non a partire dal periodo di imposta 2007; in secondo luogo, deduce che la sentenza è errata laddove si afferma che l’invocato art. 3, comma 1, dello Statuto del contribuente non può trovare applicazione, perché «la disciplina di agevolazione fiscale delle stock options non concerne tributi periodici, che sono quelli destinati ad essere applicati a periodi ricorrenti, come le imposte erariali sui redditi», in quanto il presupposto delle imposte periodiche è unico e costituito dalla somma delle singole fattispecie al termine del periodo d’imposta, per cui il tratto che caratterizza i tributi periodici è costituito dal fatto che essi sono strutturalmente destinati ad essere applicati nuovamente ad intervalli ciclici e non dal fatto che essi colpiscono fatti che si sono svolti in un determinato intervallo di tempo.
2.1. Il motivo è infondato.
2.2. La Commissione regionale ha rilevato che « le modifiche introdotte dal d.l. n. 262/2006 citato concernono esclusivamente le condizioni al verificarsi delle quali sarebbe stata applicata l’agevolazione fiscale dell’imposta sostitutiva, condizioni che, per stessa ammissione del contribuente, non sussistevano alla data di esercizio dei diritti di opzione », per cui, non potendo il contribuente fruire dell’agevolazione fiscale, il suo datore di lavoro aveva giustamente assoggettato a ritenuta Irpef l’incremento di reddito derivante dall’esercizio dell’opzione nel periodo di imposta in cui l’incremento aveva avuto luogo, ed ha ritenuto, disattendendo la tesi difensiva del contribuente, che la nuova disciplina recata dal citato d.l. n. 262 del 2006 fosse applicabile ai diritti di opzione esercitati (e dunque alle azioni assegnate) dopo la sua entrata in vigore, in quanto « …l’integrazione del presupposto dell’agevolazione, ossia lo specifico fatto generatore del diritto al relativo beneficio si verifica al momento dell’assegnazione delle azioni che coincide con il momento di esercizio dei diritti di opzione di acquisto delle medesime al prezzo stabilito al momento della deliberazione dei piani di adesione alle stock option ».
I giudici di appello hanno, quindi, affermato che la normativa applicabile fosse quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione e non già quella vigente anteriormente al momento del riconoscimento del diritto di opzione ed hanno altresì escluso la ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento del diritto al rimborso sulla considerazione che, nel caso in esame, non risultavano soddisfatte le tre nuove condizioni previste dal comma 2 bis dell’art. 51 lett. g-bis) del t.u.i.r.
2.3. La decisione è immune dai vizi denunciati, avendo questa Corte già affermato che in tema di determinazione del reddito di lavoro dipendente, al fine della corretta individuazione della disciplina di tassazione applicabile ratione temporis alle cd. stock options assegnate ai lavoratori dal datore di lavoro, è necessario distinguere fra i due momenti della assegnazione del diritto di opzione, da un lato, e quello di esercizio dello stesso, e, dunque, dell’effettiva assegnazione dei rispettivi titoli, dall’altro, considerato che le azioni entrano a far parte del patrimonio del dipendente solo nel momento in cui l’opzione viene esercitata o ceduta; la disciplina applicabile va quindi individuata in quella vigente al momento di tale esercizio, indipendentemente dal momento in cui sia stata offerta l’opzione (Cass. n. 9465 del 12/4/2017; Cass. n. 16227 del 20/6/2018; n. 18917 del 17/7/2018), ed a tale conclusione il giudice di legittimità era già pervenuto anche con riferimento alla disciplina vigente in epoca anteriore alle modifiche intervenute nel 2006, segnalando che il presupposto impositivo insorgeva non al momento dell’offerta dell’opzione ma in quello del suo esercizio (Cass. n. 11413 del 3/6/2015; n. 13088 del 25/7/2012).
2.4. L’orientamento richiamato, a cui questo Collegio ritiene di aderire, non sussistendo ragioni per discostarsene, non può essere superato per effetto delle argomentazioni difensive del contribuente riferite ad una presunta violazione del divieto di retroattività della norma tributaria, poiché l’operazione alla quale consegue la tassazione non va individuata nell’attribuzione gratuita del diritto di opzione, che non è soggetta ad imposizione tributaria, ma nell’effettivo esercizio del diritto di opzione mediante l’acquisto delle azioni, che costituisce il presupposto dell’imposizione commisurata proprio sul prezzo delle azioni, e che è rimesso alla libera scelta del beneficiario, il quale può o meno esercitarlo secondo le modalità ed i tempi che riterrà opportuni (Cass. 12 aprile 2017, n. 9465).
Deve, pertanto, escludersi che l’applicazione della disciplina entrata in vigore il 3 ottobre 2006 abbia violato il principio di irretroattività della norma tributaria ed affermarsi che il momento perfezionativo del presupposto generatore della disciplina agevolativa debba essere ricondotto all’esercizio dell’opzione e non all’offerta del diritto di opzione, con la conseguenza che la disciplina tributaria applicabile deve necessariamente essere quella vigente al momento dell’esercizio del diritto di opzione.
3. La ricorrente, anche nella memoria ex art. 378 cod. proc. civ., ha ribadito che la sentenza gravata deve essere cassata poiché non considera che, ai sensi dell’art. 3, comma 1, della l. n. 212 del 2000 ed in assenza di una disciplina transitoria o in deroga, le modifiche introdotte dal dil n. 223/2006 entrano in vigore solo dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono, e, quindi, nel caso di specie, solo dall’anno d’imposta 2007, e non tiene conto del fatto che la disciplina delle stock options, incidendo sul citato art. 51, comma 2, lett. g-bis) del t.u.i.r. – che è rubricato «Determinazione del reddito di lavoro dipendente » ed è collocato all’interno del “Capo IV- Reddito di lavoro dipendente” – non è sganciata dalla disciplina dell’Irpef che è un «tributo periodico».
3.1. Anche sotto tale profilo la tesi difensiva del ricorrente non è condivisibile.
La disposizione agevolativa di cui all’art. 51, comma 2, lett. g-bis) del t.u.i.r., nella formulazione introdotta dall’ultimo intervento normativo intervenuto nel 2006, come già chiarito, prevede una forma di esenzione da imposta per una quota parte del reddito da lavoro dipendente, corrispondente all’incremento di valore delle azioni prodottosi tra il momento di assegnazione delle opzioni ed il momento di esercizio delle stesse, purchè ricorrano determinate condizioni; qualora dette condizioni non si verifichino, quell’incremento di valore concorre alla formazione del reddito. Trattandosi di trattamento agevolato che esclude, al ricorrere di determinate condizioni, l’imputazione della plusvalenza realizzatasi a redditi da lavoro dipendente, non può essere invocata l’applicazione della disposizione dettata dall’art. 3, comma 1, dello Statuto del contribuente (nella parte in cui stabilisce che «…Relativamente ai tributi periodici le modifiche introdotte si applicano solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso alla data di entrata in vigore delle disposizioni che le prevedono»), in quanto le modifiche introdotte dal d.l. n. 262/2006 concernono soltanto le condizioni al verificarsi delle quali avrebbe potuto trovare applicazione l’agevolazione fiscale dell’imposta sostitutiva, che ha natura istantanea ed alla quale è del tutto estraneo il carattere della periodicità, dovendosi far rientrare nella categoria dei «tributi periodici» solo quelli il cui presupposto è destinato a durare nel tempo ed il cui pagamento è dovuto per anno solare di riferimento.
3.2. Del tutto inconferente risulta, pertanto, il riferimento di parte ricorrente alla sentenza di questa Corte n. 15528 del 30/6/2010, la quale, in relazione a fattispecie del tutto diversa da quella in esame, ha ritenuto che, poiché l’imposta sulla pubblicità, almeno per quanto riguarda la pubblicità ordinaria, rientra nell’ambito della categoria dei tributi periodici, dovesse essere disapplicato il d.P.C.M. 16 febbraio 2001 che aveva provveduto, all’art. 1, alla rideteminazione (in aumento) della tariffa per la pubblicità ordinaria stabilita, per le varie classi di comuni, dall’art. 12 del d.lgs. n. 507 del 1993, ed aveva disposto all’art. 2, in contrasto con l’art. 3 dello Statuto del contribuente, che tale adeguamento tariffario decorresse dal 1 marzo 2001, anziché dal 1 gennaio 2002.
3.3. Va, peraltro, rilevato che, sebbene la ratio della disciplina dettata dal citato art. 3, comma 1, della l. n. 212 del 2000 è da ricercarsi nella necessità di garantire la preventiva ed effettiva informazione del contribuente e, quindi, di tutelare l’affidamento dello stesso contribuente, mediante il principio di certezza giuridica, l’applicazione, nel caso di specie, della disciplina entrata in vigore dal 3 ottobre 2006 non si pone in contrasto con i principi dell’affidamento e della certezza del diritto, dovendosi escludere che al momento della offerta del diritto di opzione il contribuente potesse avere certezza che il valore delle azioni si sarebbe incrementato e potesse, di conseguenza, fare affidamento sulla immutabilità della disciplina agevolativa.
3.4. Come precisato dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 16157 del 19/6/2018: «La Corte di Strasburgo è solita affermare, in tesi generale, che i cittadini non possono vantare aspettative d’immutabilità giuridica neppure riguardo alla giurisprudenza (Corte EDU, in caso Unedic c. Francia; conf. in caso Atanasovski c. Macedonia), laddove il legittimo affidamento può rilevare solo riguardo a leggi interpretative o retroattive che costituiscano ingerenza del potere legislativo nell’amministrazione della giustizia al fine d’influenzare l’esito di una controversia (Corte EDU, in caso De Rosa c. Italia; conf. in caso Arras c. Italia). La stessa Corte europea ritiene, inoltre, che la materia della imposizione tributaria faccia parte del cd. “nucleo duro” delle prerogative della potestà pubblica, poiché la natura autoritativa del rapporto tra il contribuente e la collettività sarebbe predominante (Corte EDU, in caso Ferrazzini c. Italia). Dunque, gli Stati godono sicuramente di vasta discrezionalità, sia pure entro i confini della riserva di legge sostanziale (Corte EDU, in caso James c. Regno Unito; conf. in caso Spack c. Rep. Ceca) e del rispetto di taluni diritti fondamentali (Corte EDU, in caso Darby c. Svezia, sul divieto di discriminazione fiscale; conf. in caso N.K.M. c. Ungheria, su abnorme prelievo fiscale a carico di dipendenti pubblici). Il che spiega l’atteggiamento restrittivo di quella Corte nel sindacare le scelte degli Stati, che non siano manifestamente prive di giustificazioni ragionevoli (Corte EDU, in caso National & provincial building society c. Regno Unito).
Ciò risulta pure dalla giurisprudenza costante della Corte di Lussemburgo, laddove si afferma che gli operatori economici non possono fare affidamento sulla conservazione di una situazione esistente che può, invece, essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (Corte giustizia, 10/09/2009, Piantanol GmbH & Co. KG, in tema di abolizione di esenzioni). La stessa Corte ha parimenti dichiarato che un operatore economico non può basare il suo affidamento sulla mancanza totale di modifiche normative, ma unicamente mettere in questione le modalità applicative di siffatte modifiche, atteso che il principio di certezza del diritto non impone la mancanza di modifiche normative, ma richiede piuttosto che il legislatore nazionale tenga conto delle situazioni specifiche degli operatori economici e preveda, eventualmente, taluni adeguamenti all’applicazione delle nuove disposizioni (Corte giustizia, 11/06/2015, Berlington Hungary Tanécsadó és Szolgéltató). A tal proposito, per quanto riguarda l’affidamento che un soggetto passivo può fare sull’applicazione di un più favorevole regime, la suddetta Corte ha già statuito che quando una direttiva in ambito fiscale lascia ampio potere agli Stati membri, una modifica legislativa adottata in conformità con la direttiva non può essere considerata imprevedibile (Corte giustizia, 29/04/2004, Gemeente Leusden e Ho/in Groep)».
Ne discende che le modifiche normative introdotte nel 2006 in materia di agevolazioni nel trattamento fiscale delle stock options non violano le disposizioni dettate dall’art. 3, primo comma, della l. n. 212/2000.
4. Con il terzo motivo, denunciando violazione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 163 del d.P.R. n. 917/1986 in combinato disposto con l’art. 53 Cost. e conseguente falsa applicazione dell’art. 5 della legge n. 448/2001, cui rinvia l’art. 11-quaterdecies, comma 4, del d.l. n. 203/2005, convertito in legge n. 248/2005, il ricorrente, ribadendo che già in primo grado aveva evidenziato che, in sede di determinazione del reddito tassabile e, quindi, ai fini della determinazione della plusvalenza imponibile, sia nel caso di accoglimento della domanda principale sia nel caso di accoglimento della domanda subordinata, il «valore fiscalmente riconosciuto» delle opzioni derivante dalla rivalutazione fiscale a pagamento, effettuata ai sensi dell’art. 11-quaterdecies, quarto comma, del d.l. n. 203/2005, convertito con legge n. 248/2005, dovesse essere sommato al costo sostenuto per l’acquisto delle azioni – che era invece il solo valore conteggiato dal sostituto d’imposta, la cui ritenuta era stata applicata sulla differenza di euro 715.818,78 – lamenta che la Commissione regionale abbia erroneamente ritenuto non applicabile al caso di specie la disposizione dettata dall’art. 5 della legge n. 448/2001, perché assenti i requisiti di legge richiesti per la perizia di stima del valore delle opzioni e non provato il pagamento della imposta sostitutiva, nonostante fossero stati prodotti in giudizio la perizia corredata da asseverazione ed i moduli di versamento dell’imposta sostitutiva sulla rivalutazione.
4.1. Il motivo è infondato.
4.2. La circolare n. 12/E/2002, richiamata dallo stesso ricorrente, chiarisce in premessa, che «L’art. 5 della legge 28 dicembre 2001, n. 448 (legge finanziaria per il 2002) – cui rinvia l’art. 11-quaterdecies, comma 4, del d.l. n. 203/2005, convertito, con modificazioni, con legge n. 248/2005 – consente ai contribuenti che detengono titoli, quote o diritti, che non siano negoziati nei mercati regolamentati, di rideterminare i valori di acquisto degli stessi alla data di acquisto del 1/1/2002.
Il costo di acquisto “rideterminato”, secondo le modalità contenute nell’art. 5, è utilizzabile ai fini del calcolo dei redditi diversi di natura finanziaria di cui all’art. 81, comma 1, lettere c) e c-bis) del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917. In particolare, la disposizione in commento prevede che agli effetti della determinazione delle predette plusvalenze e minusvalenze, per i titoli, le quote o i diritti non negoziati nei mercati regolamentati, posseduti alla data del 1° gennaio 2002, può essere assunto, in luogo del costo o valore di acquisto, il valore degli stessi a tale data…».
4.3. Come precisato dallo stesso ricorrente, il quarto comma dell’art. 11- quaterdecies del d.l. n. 203/2005 ha riaperto i termini per la rivalutazione di titoli, quote e diritti non negoziati posseduti al 1° gennaio 2005, modificando il secondo comma dell’art. 2 del dl. n. 282/2002, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 27/2003, sostituendo alla data del 1/1/2002, originariamente prevista, quella del 1 gennaio 2005; il comma 2 del d.l. n. 282/2005, da ultimo citato, a sua volta rinvia agli artt. 5 e 7 della legge n. 448/2001.
4.4. Poiché l’art. 5 della legge 448/2001 prevede espressamente che il «valore» rideterminato è riservato «agli effetti della determinazione delle plusvalenze e minusvalenze di cui all’art. 81, comma 1, lett. c) e c-bis) del t.u.i.r. », ossia in caso di cessioni a titolo oneroso di partecipazioni qualificate e di partecipazioni non qualificate, semprechè sia stata corrisposta l’imposta sostitutiva dovuta, entro il termine previsto dalla norma, risulta evidente che detta disposizione normativa, destinata a disciplinare la tassazione di plusvalenze derivanti da redditi diversi di natura finanziaria, non può essere invocata ed applicata ai fini della tassazione di plusvalenze imputabili a redditi di lavoro dipendente, come quelli di cui si discute nel caso in esame.
5. Anche se la Commissione regionale ha deciso in senso favorevole all’Agenzia delle Entrate sulla base di diverse considerazioni, il dispositivo della sentenza impugnata resta conforme a diritto, per cui ai sensi dell’art. 384, ultimo comma, cod. proc. civ., può comunque pervenirsi al rigetto del terzo motivo di ricorso con la sola correzione della motivazione.
Infatti, l’art. 384 cod. proc. civ. prevede che qualora il vizio denunziato riguardi non un punto di fatto ma una questione di diritto, il giudice di legittimità ha il potere di integrare e correggere la motivazione della sentenza impugnata, senza cassarla, nel caso in cui la decisione adottata dal giudice di merito sia conforme a diritto, sostituendo la motivazione erronea con altra corretta, che conduca all’identico dispositivo della sentenza censurata, purchè la sostituzione della motivazione sia soltanto in diritto e non comporti indagini e valutazioni di fatto, come è nel caso in esame, né violazione del principio dispositivo, ossia quando non vi sia pronuncia su eccezioni non sollevate dalle parti e non rilevabili d’ufficio (Cass. n. 5954 del 18/3/2005; Cass. 15764 del 13/8/2004).
6. In conclusione, il ricorso va, dunque, rigettato.
Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.800,00, oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13.
Possono essere interessanti anche le seguenti pubblicazioni:
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 17 marzo 2020, n. 7335 - In tema di contenzioso tributario, è inammissibile, per difetto di specificità dei motivi, l'atto di appello che, limitandosi a riprodurre le argomentazioni poste a sostegno della domanda…
- CORTE DI CASSAZIONE - Ordinanza 06 febbraio 2020, n. 2843 - Nel processo tributario, l'indicazione dei motivi specifici dell'impugnazione, richiesta dall'art. 53 del D.L.vo 31 dicembre 1992 n. 546, non deve necessariamente consistere in una rigorosa e…
- CORTE DI CASSAZIONE, sezione penale, sentenza n. 33411 depositata il 9 settembre 2021 - Ai fini della validità del ricorso per cassazione non è, perciò, sufficiente che il ricorso consenta di individuare le statuizioni concretamente impugnate e i…
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 9513 depositata il 6 aprile 2023 - Ricorre l'ipotesi di c.d. "doppia conforme", ai sensi dell'art. 348 ter, commi 4 e 5, c.p.c., con conseguente inammissibilità della censura di omesso esame di fatti decisivi ex art.…
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 6375 depositata il 3 marzo 2023 - La motivazione per relationem è ammissibile purché il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della…
- CORTE di CASSAZIONE - Sentenza n. 6403 depositata il 3 marzo 2023 - La motivazione per relationem è ammissibile purché il giudice d'appello, facendo proprie le argomentazioni del primo giudice, esprima, sia pure in modo sintetico, le ragioni della…
RICERCA NEL SITO
NEWSLETTER
ARTICOLI RECENTI
- ISA 2024 le cause di esclusione per l’anno 2
La legge istitutiva degli Indici Sintetici di Affidabilità fiscale (ISA) ha una…
- Il diritto riconosciuto dall’uso aziendale n
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10120 depositat…
- L’indennità sostitutiva di ferie non godute
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 9009 depositata…
- Il giudice tributario è tenuto a valutare la corre
La Corte di Cassazione, sezione tributaria, con l’ordinanza n. 5894 deposi…
- Il lavoratore ha diritto al risarcimento del danno
La Corte di Cassazione, sezione lavoro, con l’ordinanza n. 10267 depositat…