CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 08 febbraio 2022, n. 3979
Rapporto di lavoro – Violazione del minimale contributivo – Mancato rispetto delle previsioni del CCNL di categoria – Verbale di accertamento ispettivo
Fatti di causa
Con sentenza n. 1460 del 2015, la Corte d’appello di Catanzaro, confermando la sentenza di primo grado, ha rigettato l’impugnazione proposta da P. s.r.l. nei confronti dell’Inps, avverso la sentenza di primo grado di rigetto dell’opposizione a cartella esattoriale, seguita a verbale di accertamento ispettivo con il quale era stata accertata la violazione del minimale contributivo per il periodo 2004-2008 in relazione al mancato rispetto delle previsioni del CCNL di categoria (elaborazione dati- CONSILIP) rispetto all’orario ivi previsto secondo la normativa vigente; ad avviso della sentenza impugnata, mediante la produzione dei prospetti allegati al verbale ispettivo l’Istituto aveva adempiuto ai propri oneri probatori anche alla luce del valore da attribuire al verbale ispettivo che non era inficiato dalle diverse risultanze di altro verbale reso dall’Ispettorato del lavoro riferito a periodo (anno 2011) diverso e successivo rispetto a quello oggetto d’esame (1.10.2003/ 30/9/2008); inoltre, correttamente erano state incluse nel minimale le ore di lavoro corrispondenti ad assenze dei lavoratori ( per motivi personali o di famiglia) diverse da quelle per le quali l’art. 61 bis del c.c.n.l. prevedeva l’esclusione dalla retribuzione in via espressa.
La questione controversa riguardava la legittimità del recupero di contribuzione eseguito dall’Inps per le ore non lavorate, ma ricadenti nell’orario di lavoro contrattuale, per le quali la società datrice di lavoro non aveva versato la contribuzione previdenziale ritenendo decisivo che i dipendenti avessero lavorato in misura inferiore all’orario di lavoro contrattuale.
Avverso tale sentenza ricorre per cassazione P. s.r.l. sulla base di due motivi, successivamente illustrati da memoria.
L’INPS resiste con controricorso e memoria.
Equitalia Sud s.p.a. non ha svolto attività difensiva.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione agli artt. 39 d.l. n. 112 del 2008 conv. In I. n. 133 del 2008 e dell’art. 6 d.lgs. n. 124 del 2004, con riferimento alla circostanza che la sentenza impugnata non aveva tenuto conto del verbale dell’Ispettorato del lavoro, comunicato alla ricorrente con raccomandata del 29 luglio 2011, successivamente alla introduzione del giudizio, ed esibito al Tribunale sin dalla prima udienza, che aveva accertato la regolarità della posizione contributiva delle lavoratrici occupate dalla ricorrente.
Ad avviso della ricorrente, la sentenza impugnata, come quella di primo grado, aveva illegittimamente del tutto obliterato le conclusioni del citato verbale con la motivazione, ritenuta in violazione del capoverso dell’art. 115 c.p.c., che impone al giudice di decidere sulla base delle prove offerte dalle parti e della regola del prudente apprezzamento delle risultanze istruttorie fissata dall’art. 116 c.p.c., che il verbale successivo era riferito a periodi diversi e successivi rispetto a quelli oggetto del verbale per cui è causa che, dunque, non veniva scalfito nella sua natura di atto pubblico che fa piena prova fino a querela di falso dei fatti attestati come avvenuti dinanzi al pubblico ufficiale che lo ha redatto. Deduce la ricorrente che il verbale comunicato nel 2011, aveva riferito che l’esame aveva avuto ad oggetto anche il libro unico del lavoro contenente tutte le informazioni rilevanti e tale accertamento era stata eseguito dall’organo ispettivo deputato istituzionalmente a vigilare sulla disciplina del lavoro.
Con il secondo motivo di ricorso, si denuncia la violazione della L. n. 389 del 1989, art. 1, della L. n. 153 del 1969, art. 12 degli art. 2697 c.c. e dell’art. 79 del CCNL elaborazione dati CONSILIP, in ragione del fatto che la datrice di lavoro non aveva posto in essere alcun inadempimento contrattuale, posto che all’interno del rapporto di lavoro vige il principio di corrispettività secondo il quale, nell’ipotesi di sospensione del rapporto, non è dovuta alcuna retribuzione.
Il primo motivo è infondato. Questa Corte, ( da ultimo Cass. n. 5550 del 2021) sia pure con riguardo alla disposizione contenuta nella L. n. 88 del 1989, art. 43, ha già avuto modo di chiarire che nè l’esito del procedimento amministrativo contenzioso nè le regolarità o irregolarità procedurali che lo abbiano connotato impediscono all’ente previdenziale di agire o di resistere in giudizio per l’accertamento dell’esistenza o inesistenza di rapporti di lavoro subordinato e dei conseguenti obblighi contributivi e previdenziali: trattasi infatti di materia in cui l’esercizio (corretto o meno) della potestà amministrativa di autotutela incide su situazione giuridiche indisponibili da parte degli enti previdenziali e in cui, per conseguenza, l’oggetto del giudizio innanzi al giudice ordinario non è mai l’impugnativa di un atto amministrativo, essendo invece rimesso al giudice di accertare, a seconda dei casi, vuoi la sussistenza dei presupposti per il sorgere dell’obbligazione contributiva, vuoi quella dei requisiti necessari per l’erogazione della prestazione previdenziale (così Cass. n. 16051 del 2013).
I suesposti principi vanno qui ribaditi posto che, diversamente da quanto sostanzialmente prospettato in ricorso, non è possibile equiparare quoad effectum le disposizioni dettate in tema di procedimento amministrativo di accertamento delle omissioni contributive dal D.Lgs. n. 124 del 2004, e dalla L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 20 (il quale ultimo, per quanto qui rileva, stabilisce che “nei casi di attestata regolarità ovvero di regolarizzazione conseguente all’accertamento ispettivo eseguito, gli adempimenti amministrativi e contributivi relativi ai periodi di paga anteriore alla data dell’accertamento ispettivo stesso non possono essere oggetto di contestazioni in successive verifiche ispettive”), alla previsione del D.Lgs. n. 46 del 1999, art. 24, il quale, per il caso di omessa tempestiva impugnazione di una cartella esattoriale recante il pagamento di contributi, prevede la definitiva irretrattabilità del credito relativo ai contributi e dunque l’impossibilità per il privato di farne accertare aliunde l’insussistenza: le prime due disposizioni dianzi cit., al pari della L. n. 241 del 1990, art. 2, sono infatti tipiche norme di azione, la cui efficacia precettiva, essendo circoscritta alle condizioni della legittimità dell’azione amministrativa, non può mai importare la decadenza dell’ente pubblico dalla potestà di provvedere alla cura dei pubblici interessi di cui all’art. 38 Cost., mercè l’adito al giudice, mentre l’ultima sancisce precisamente l’estinzione del diritto (rectius, dell’azione) avente ad oggetto l’instaurazione di un processo di cognizione per l’accertamento della (in)fondatezza di una data pretesa dell’ente previdenziale.
Anche il secondo motivo è infondato.
In conformità con diversi precedenti, tra i quali vd. Cass. 22986 del 2020 tra i più recenti, è stato affermato che secondo la giurisprudenza di questa Corte (da ultimo Cass. n. 15120 del 2019; n.13650 del 2019; n. 4676 del 2021) che si è consolidata dopo l’arresto delle Sezioni Unite n. 11199 del 29/07/2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che ai lavoratori di un determinato settore sarebbe dovuta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (c.d. “minimale contributivo”), secondo il riferimento ad essi fatto – con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale – dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1 (convertito in L. 7 dicembre 1989, n. 389), senza le limitazioni derivanti dall’applicazione dei criteri di cui all’art. 36 Cost. (c.d. “minimo retributivo costituzionale”), che sono rilevanti solo quando a detti contratti si ricorre – con incidenza sul distinto rapporto di lavoro – ai fini della determinazione della giusta retribuzione (v. ex aliís Cass. n. 801 del 20/01/2012). La regola del minimale contributivo deriva dal principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto alle vicende dell’obbligazione retributiva, ben potendo l’obbligo contributivo essere parametrato ad importo superiore a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro; tale principio opera, contrariamente a quanto sostenuto dalle parti ricorrenti, sia con riferimento all’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, sia con riferimento all’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva o dal contratto individuale se superiore; difatti, è evidente che se ai lavoratori vengono retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e su tale retribuzione viene calcolata la contribuzione, non vi può essere il rispetto del minimo contributivo nei termini sopra rappresentati.
Vale infatti anche con riferimento all’orario il principio stabilito dalla Corte Costituzionale nella sentenza 20 luglio 1992, n. 342, secondo il quale “una retribuzione (…) imponibile non inferiore a quella minima (è) necessaria per l’assolvimento degli oneri contributivi e per la realizzazione delle finalità assicurative e previdenziali, (in quanto), se si dovesse prendere in considerazione una retribuzione imponibile inferiore, i contributi determinati in base ad essa risulterebbero tali da non poter in alcun modo soddisfare le suddette esigenze“.
Nel settore dell’edilizia, il D.L. n. 244 del 1995, art. 29 conv. in L. n. 341 del 1995, individua le ipotesi di esenzione dall’obbligo del minimale contributivo – inteso anche come obbligo di commisurare la contribuzione ad un numero di ore settimanali non inferiore all’orario di lavoro normale stabilito dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale e dai relativi contratti integrativi territoriali di attuazione – con disposizione, avente chiara finalità antielusiva, che è stata ritenuta da questa Corte di stretta interpretazione, analogamente alle fonti normative cui essa rinvia (Cass. n. 9805 del 04/05/2011, Cass. n. 10134 del 26/04/2018, e ancora, da ultimo, Cass. n. 4690 del 18/2/2019). In proposito, è stato dunque escluso che una sospensione consensuale della prestazione che derivi da una libera scelta del datore di lavoro e costituisca il risultato di un accordo tra le parti possa determinare la sospensione dell’obbligazione contributiva (v. Cass. n. 21700 del 13/10/2009, Cass. n. 9805 del 04/05/2011 e successive conformi, che hanno superato la diversa soluzione adottata dal Cass. n. 1301 del 24/01/2006).
La necessità di tipizzare le suddette ipotesi eccettive è sorta nel settore edile proprio perchè ivi la possibilità di rendere la prestazione lavorativa è normalmente condizionata da eventi esterni che sfuggono al controllo delle parti.
Il fatto che per gli altri settori merceologici non vi sia analoga previsione non significa che sussista una generale libertà delle parti di modulare l’orario di lavoro e la stessa presenza al lavoro così rimodulando anche l’obbligazione contributiva, considerato che questa seconda è svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e dev’essere connotata dai caratteri di predeterminabilità, oggettività e possibilità di controllo.
Anche nei settori diversi da quello edile, la contribuzione è dunque dovuta nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione concordata della prestazione stessa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo (quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione).
In tal senso, e considerata l’autonomia del rapporto contributivo rispetto a quello retributivo, è stato appunto rimodulato il principio affermato nel recente arresto n. 24109 del 03/10/2018.
Ove, dunque, gli enti previdenziali e assistenziali pretendano da un’impresa differenze contributive sulla retribuzione virtuale determinata ai sensi del D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, comma 1 anche con riferimento all’orario di lavoro, incombe al datore di lavoro allegare e provare la ricorrenza di un’ipotesi eccettuativa dell’obbligo, nel senso sopra individuato.
La soluzione adottata nel caso dalla Corte territoriale è dunque conforme a diritto, considerato che l’esenzione dall’obbligo contributivo era nel caso sostenuta dal datore di lavoro sulla base della necessità di adeguare la contribuzione alla prestazione effettivamente resa, nella ritenuta legittimità delle sospensioni concordate ma senza alcuna specificazione della derivazione delle assenze da ipotesi legali o contrattuali di sospensione della prestazione).
In definitiva, il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che liquida in Euro 5.000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente dell’ulteriore importo, a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.